lunedì 3 febbraio 2020

Cinquantaquattromilionicentotremilaottocentodue





Nella critica che Leo Strauss muove alla dottrina dei valori di Max Weber cè un eccesso di animosità che gli cagiona un infortunio: afferma che la reductio ad Hitlerum – sua è la paternità della locuzione, qui le dà vita – è da intendersi come variante della reductio ad absurdum. Non è così, perché la reductio ad absurdum sta nel «dimostrare la validità di una certa affermazione mostrando che, qualora essa venisse negata, si arriverebbe a una contraddizione» (Treccani); niente a che vedere, dunque, con quell«attaccare la persona che propone una certa tesi, anziché la tesi stessa» (ibidem) che invece è argumentum ad hominem, e che nella fattispecie in oggetto rivela la sua natura di fallacia nel considerare che «a view is not refuted by the fact that it happens to have been shared by Hitler» (Natural Right and History, cap. II, pagg. 42-43). È evidente che qui Leo Strauss sia incorso in un errore: che Hitler andasse avanti a carote e zucchine non fa argomento valido contro la dieta vegetariana, pretendere che linferenza abbia senso è assurdo, sì, ma farlo non è reductio ad absurdum.
È fuor di dubbio che la locuzione nascesse con un dichiarato intento ironico posto in quel buffo accusativo della seconda declinazione, fatto sta che la riuscita delleffetto le procurò un immediato successo, che tuttora perdura, al punto che reductio ad Hitlerum ormai sta saldamente in luogo di argumentum ad hominem, giacché Hitlerum sta a perfetta antonomasia dellhominem che getta lombra della sua pessima reputazione su tutto ciò che fa o che dice.
La più sfacciata, ma anche la più persuasiva delle fallacie. Perché factum e dictum vanno ad iudicium sempre accompagnati da qualcuno. La cui buona o cattiva fama tenderà inevitabilmente a influenzare il foro. E il foro, più che fesso, è pigro. Se, infatti, la buona fama che fa argumentum ab auctoritate e quella cattiva che fa argumentum ad hominem possono contare su questa influenza, è perché si offrono al foro come espediente per risparmiare tempo, e fatica: perché sprecarne tanto, e tanta, nel formulare ogni volta un iudicium strettamente motivato su ciò che ha detto Caio o ha fatto Sempronio, quando per entrambi è pronto quello emesso sui loro dicta e facta già passati in giudicato? Sarà un preiudicium, certo, ma quanto potrà essere errato? Dallottimo Caio non ci può attendere altro che del buono. Dal pessimo Sempronio, che-te-lo-dico-a-fare?

Da un mostro come Mengele, per esempio? Solo mostruosità, è ovvio. Contando su questo preiudicium, dunque, posso tranquillamente contare che il foro emetta in automatico, senza star lì a sprecare troppo cervello, una condanna senza possibilità di appello su tutto ciò che sarò in grado di reducere ad Mengelem. E però il foro è pigro, dicevamo, e, sì, talvolta è pure fesso, ma mai al punto dal poterlo persuadere che – faccio per dire – la lepre in salmì faccia schifo solo perché piaceva tanto a Mengele: la reductio ad Mengelem mi tornerà utile per ottenere una condanna senza possibilità di appello solo su ciò che riuscirò a dimostrare avere un nesso di assai più stretta peculiarità alla figura di Mengele di quanto lo sia la predilesione per la lepre in salmì. Il fatto che fosse medico e ricercatore, per esempio, o il fatto che facesse esperimenti.
Un medico e un ricercatore cui oggi nessun medico e nessun ricercatore direbbe collega, certo, ed esperimenti che oggi nessuno si azzarderebbe a considerare legittimi. Ma questo non ha importanza, anzi, occorre che il foro non abbia modo di dargliene alcuna, perché Mengele mi serve per proiettare la mostruosità della sua attività nel campo eugenetico (peraltro in ricerche come quelle sui canali della «trasmissione razziale» e sulla possibilità di cambiare il colore dell’iride) su tutto ciò che intendo insinuare le sia affine, fa niente non lo sia: leutanasia come libertà di poter decidere come e quando morire, la fecondazione assistita come superamento delle difficoltà che impediscono di avere un figlio, la ricerca scientifica su blastocisti altrimenti destinate a rimanere congelate in eterno, ecc. Perciò mi occorre che il mostro che è in Mengele resti ben evidente sotto la buona reputazione che mi sforzerò di dimostrare aveva ai suoi tempi, di modo che avrò gioco facile nellaffermare che unanaloga mostruosità sta nella libera scelta eutanasica, nella libertà di ricorso alla fecondazione assistita, nella libertà di ricerca scientifica, ecc., a dispetto del maggioritario consenso di cui esse oggi godono.
In sostanza: quanto più sarò in grado di dimostrare che Mengele godeva di grande prestigio nel mondo scientifico dei suoi tempi, tanto più potrò aspettarmi che il foro discrediti quello odierno, che alle suddette libertà dà razionale fondamento. Per farlo, tuttavia, potrà scapparmi un eccesso di animosità che potrà cagionarmi qualche infortunio.

È quello che, col numero in edicola sabato 1° febbraio, è accaduto a Il Foglio, che della reductio ad Mengelem ha peraltro sempre fatto largo uso nelle sue passate battaglie culturali. Limitando la ricerca alle sole 14 annate tra il 1996 e il 2009 che qualche tempo fa il giornale raccolse in un dvd-rom al prezzo di € 9,90, si contano 94 occorrenze in 68 numeri. Robe di fattura grossolana, tipo Mengele che porge una pompa da bicicletta alla Bonino, Mengele che porta alla Consulta un pacco di firme per i referendum sulla fecondazione assistita, Mengele che stacca la spina a Welby, Mengele che tortura embrioni in Francia, in Belgio e in Corea del Sud.
Stavolta si è tentato un uso più sofisticato della reductio ad Mengelem, quello che illustravo poc’anzi, e qui è accaduto l’incidente, perché, nel pasticciare con la recensione di una biografia che intenderebbe dar risalto allo «scienziato» rispetto al «mostro» (il condizionale è d’obbligo, perché Il Foglio non si è mai fatto scrupolo di traduzioni assai addomesticate e di disonestissimi ritagli), alle mani del recensore sono rimaste appiccicate schifezze come «brillante ricercatore» e «non solo un assassino» che hanno urtato qualche sensibilità, facendo protestare qualche intelligenza per il titolo di «professore» assegnato a un Mengele mai salito in cattedra.
Qui vi risparmio gli improperi che su Twitter sono piovuti addosso al Meotti – era lui a firmare il pezzo – limitandomi a riportare il modo in cui si è difeso: è vero, Mengele non era «professore», ma «era pronto alla docenza»; e comunque «studiò con due Nobel»; andò a lezione dal «più grande genetista del tempo»; tutto questo, poi, non l’ho scritto io, ma Marwell, «ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di Washington che ha dato la caccia a Mengele», io mi sono limitato a riportarlo.
Direi che come difesa sia efficace, via. Certo, resta quel «non solo un assassino» che puzza assai, ma chissà che pure quello non sia farina del sacco di Marwell, e a lui allora andrebbe posta la domanda che viene spontanea: scusi, Marwell, ma quale assassino è solo un assassino? E cosa aggiunge o cosa leva al suo essere un assassino il fatto che collezioni francobolli o tappi di bottiglia, tifi Spal o Sassuolo, soffra di emorroidi o di sinusite?

Un gran bel ginepraio, vero? Probabilmente anche voi sentirete il bisogno di mettere un po’ di ordine tra Mengele, Marwell e Meotti. Ho quello che fa per voi, è quanto ha scritto Andrea Mariuzzo, ricercatore presso il dipartimento Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia:
«Il pezzo di Meotti non è affatto apologetico, ma il testo e il modo in cui è presentato sparano davanti al pubblico in modo ostentatamente provocatorio un tema delicato in cui bisogna stare attenti alle sfumature».
Non coglie il fine della provocazione, ma fa niente, proseguiamo:
«Ha un senso inserire la figura in un contesto complesso: quello di un dibattito scientifico in cui il tema delleugenetica aveva ammissibilità scientifica in tutto il mondo, legato a questioni come politica demografica, salute e igiene pubblica, assistenza sociale, ecc., in cui la comunità accademica tedesca era ancora allavanguardia del mondo, avendo rappresentato, fino a non molto tempo prima, il modello per una moderna politica della conoscenza. Occorre tener conto di ciò nella traiettoria biografica di Mengele, come del fatto che mondo scientifico tedesco aveva subito dallavvento del III Reich una torsione verso la piena sottomissione alla politica di guerra e di sterminio del regime che lo controllava e lo finanziava. Mondo scientifico che era pesantemente epurato di tutti i possibili corpi estranei, come tutta lEuropa delle dittature, originando una migrazione di cui, tra laltro, approfittarono gli Usa attrezzandosi col personale che li avrebbe condotti alla guida del progresso scientifico. In questo quadro Mengele non era né un luminare né un ricercatore particolarmente brillante, come i fiocchetti messi dal titolista lasciano intuire. Non è solo perché il dibattito di settore nel dopoguerra ha preso strade diverse se i suoi lavori non hanno lasciato alcun segno, ma soprattutto perché è proprio vero che quanto ha compiuto erano crimini e non esperimenti».
Meglio di così credo sia difficile dar conto di quanto sia pericoloso trattare un tema come quello della sperimentazione nei campi di concentramento nazisti lasciando che a guidare la mano sia solo limprontitudine di maldestro uso polemico. Ma anche su questo Andrea Mariuzzo ha parole di estrema chiarezza:
«La lettura del volume recensito chiarirà quali sono le acquisizioni originali, ma da quanto scritto sul Foglio non è chiaro che cosa una ricerca impostata in questo modo ci restituisca della vita di Mengele e della scienza interbellica che già non sappiamo. Di sicuro non si vedono ragioni che giustificano il sensazionalismo di una paginata di giornale. Il giudizio sullo stile di lavoro di Meotti, non nuovo a pezzi che si rivelano centoni mal tagliati di articoli in inglese tradotti in fretta, non muta con questo intervento».
Più che una chiusa, una lapide.

P.S.: Dimenticavo di dar conto del titolo: 54.103.802 sono gli euro di finanziamento pubblico che Il Foglio s’è pappato dalla sua fondazione a tutt’oggi. 


domenica 2 febbraio 2020

La partita del 26 gennaio


L’attesa ha caricato di notevole tensione l’appuntamento del 26 gennaio, per settimane e settimane praticamente non si è parlato d’altro. Comprensibile, dunque, che l’esito della contesa abbia assunto importanza via via crescente, forse anche più di quanto in realtà ne avesse, e che sul risultato, che ha dato qualche grattacapo anche ai bookmakers, fossero puntati gli occhi di tutto il Paese. Partita quanto mai sentita, sulla quale, ora, a una settimana di distanza, si può fare il punto con più serenità, e soprattutto con più lucidità, di quanto è stato all’indomani, quando ogni analisi ancora risentiva del febbricitante clima della vigilia, che ha surriscaldato più del dovuto campo e spalti.
Questa è l’intenzione che mi pongo, senza sottovalutare il rischio di aspre critiche, e da entrambe le tifoserie, per quella che metto in conto vorrà esser letta come mancanza di sensibilità calcistica, perché suppongo abbiate capito che qui m’intratterò sulla partita Napoli-Juventus, giocata giusto sette giorni fa. Suppongo sappiate pure come è andata: 2-1.
Il Napoli aveva il vantaggio di giocare in casa, forte di un tifo che da sempre in città è vissuto come fede, ultimamente tuttavia alquanto scossa da una lunga serie di sconfitte.
I tempi di Maradona sembravano lontani un secolo, e le speranze accese a inizio di ogni campionato, spesso illusoriamente nutrite da un buon esordio, anche stavolta si erano spente. Anche stavolta lo scudetto era diventato un miraggio e, partita dopo partita, ormai si scendeva in campo con l’apparente unico scopo di evitare figuracce. E non si riusciva ad evitarle. Sicché lo spogliatoio ormai era un inferno. E gli sponsor storcevano il muso. Mai così basso il numero di abbonamenti. Mai così pochi i tifosi al seguito nelle partite in trasferta, ridotti a uno zoccolo duro sempre più eroso da sconforto e rabbia.
Colpa dell’allenatore? Cambiarlo non aveva dato risultati. In ogni caso, i giocatori apparivano demotivati. Per tacer del presidente, un taccagno senza onore e senza sentimento.
Ma queste son cose che probabilmente sapevate già, mi scuso col lettore che avrò tediato con l’averle rammentate, e ancor più con quello che, da tifoso del Napoli, potrà rimproverarmi di averle illustrate in modo troppo grossolano, senza un grammo di empatia, trascurando il peso che sulle deludenti prestazioni della squadra hanno di volta in volta avuto le scorrettezze degli avversari e le ingiuste decisioni arbitrali.
È che il calcio, per dirla con un eufemismo, non è tra i miei interessi principali. Né mai lo è stato. Le poche volte che ci ho messo mano su queste pagine è per l’abuso allegorico che ne faceva la politica, da me peraltro sempre severamente biasimato.
Concedendo che il mio disinteresse per il calcio possa aver dato un quadro non precisissimo delle condizioni in cui versava il Napoli, questa era la squadra che il 26 gennaio ospitava al San Paolo la Juve, e cioè la squadra in cima alla classifica, la squadra che nel Paese conta il maggior numero di tifosi, fieri di dirsi «gobbi», la Juve cinica, cattiva e opportunista, che da un bel po’ vince e stravince, godendo d’essere odiata da chi sconfigge, apparentemente motivata più dallo «juvemerda» di chi la odia che dal «forzajuve» di chi la ama.
Una macchina da guerra contro undici depressi: quello del San Paolo era un risultato che in tanti davano per scontato. Sbagliando. Perché le cose sono andate come sapete: il Napoli ha vinto.
Ora, quando la propria squadra vince, il giubilo è sacrosanto. Poi, giacché ciascuno ha l’indole che si ritrova, è sacrosanto pure che il giubilo si esprima come a ciascuno pare più appropriato. Il tifo, tuttavia, eccita l’indole anche di chi solitamente è persona mite e ragionevole. Così, in tutta la pur ampia gamma di espressioni di giubilo cui abitualmente si abbandonano i tifosi di una squadra che ha vinto, costante è un che di esagerato, se non di irrazionale. Chi, come me, non ha mai fatto il tifo per una squadra può essere tentato alla condanna di quella che spesso ha tutti i tratti della pazzia, ma non è giusto e, seppure lo fosse, non è consigliabile. Non è giusto, perché il tifo è questione di testa solo per il poco che alla testa basta per dargli dignità di passione. Non è consigliabile, perché la passione non tollera critiche, tanto meno paternali. 
Non ci si azzardi, dunque, a far presente ai tifosi del Napoli che il loro giubilo è folle. Che il campionato non dà loro alcuna speranza. Che la Juve resta la Juve. 

domenica 26 gennaio 2020

Il buon Severino


Il buon Severino ha optato per la cremazione, suppongo sappiate. Ora, da cadavere a cenere penserete che la cosa abbia implicato un divenire, vero? Sbagliato, sguazzate nellerrore in cui sguazza tutto lOccidente, praticamente da sempre. In realtà, come ogni divenire, la combustione è fenomeno illusorio, giacché l’essere è immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno, come insegnava Parmenide. E dunque che ne è stato del buon Severino? Illusoriamente è diventato cenere, ma in realtà, stante l’«apparir di esser sé in ogni essente» nell’eterno S₁, nell’eterno S₂, nell’eterno S₃, eccetera, adesso di Severini ne abbiamo 8, e tutti buoni, e tutti eterni.

venerdì 24 gennaio 2020

[...]


È escluso che la Lega riesca a conquistare l’Emilia-Romagna, a ingannare chi di qua lo teme e di là lo spera è lo stesso tipo di dispercezione, quella che ingrandisce a dismisura ciò che pare eloquentemente emblematico, e invece è solo vistosamente eccezionale, come l’ultra-ottantenne che per una vita si è orgogliosamente dichiarato comunista e ora dice che voterà Borgonzoni. Certo, la regione non è più quella di un tempo, quando le elezioni erano una formalità e il Pci-Pds-Ds-Pd vinceva a mani basse, e ha il suo bel peso il fatto che alle Regionali del 2014 a Bonaccini sia andato un 49% del solo 38% recatosi ai seggi: un’astensione al 62% segnala senza dubbio qualche malessere in cui Salvini può pescare come alternativa a un sistema di potere che per oltre 70 anni è stato incontrastato, inamovibile, capillarmente radicato sul territorio. E tuttavia Salvini è Salvini, anche per chi ha smania di cambiare per cambiare non sarà facile votare Lega infrangendo il tabù etico-estetico che lo vieta. Saranno i dati dellaffluenza alle urne a darci un primo segno che si è temuto di qua e sperato di là più del dovuto: tra gli emiliano-romagnoli che stavolta andranno a votare, mentre cinque anni fa si sono astenuti, prevarranno senza dubbio quelli cui Salvini ha placato la smania, costringendoli a tapparsi il naso per evitare che la regione viri dal rosso al verde.
Si tratta solo di quanto riesco a immaginare mettendo insieme i fatti e un po di logica, dunque è assai probabile chio sia in errore, perché oggi sui fatti è folle fare affidamento, e ancor più è farlo sulla logica. Nella malaugurata ipotesi che non vada come prevedo, tuttavia, a chi, come me, ne sarà afflitto non mancherebbe una consolazione, grama quanto si vuole, certo, ma nellafflizione uno si fa bastare il poco che ha a disposizione: mi consolerà il veder così punito il cedimento alla disonestà intellettuale di quanti – tanti – contro Salvini hanno deciso fosse legittimo fare, «a imbroglione, imbroglione e mezzo». Mai visto tante schifezze in nome di una buona causa, mi dirò che è giusto se ne paghi il prezzo. Se ritieni che lo strumento della fallacia possa tornar buono a convincerti, prima che a convincere, basta che sia appena un po’ più sofisticato di quello che impugna il tuo avversario, è giusto che tu perda. Soffri e non star lì a rompere il cazzo coi piagnucolii. Se vinci, invece, comincia a calcolare gli interessi: prima o poi pagherai.  

venerdì 17 gennaio 2020

Potrebbero derivarne problemi


Per un editoriale a sua firma, apparso sul Corriere della Sera di sabato 11 gennaio (Il razzismo e i suoi confini), Ernesto Galli della Loggia è stato fatto oggetto di molte critiche, che evidentemente aveva messo in conto, perché le rigettava in anticipo, laddove, in chiusa al testo, faceva cenno a quell’«algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo».
Per come gran parte delle critiche al suo editoriale sono state argomentate, si è costretti a dargli ragione, perché a muovergli laccusa di criptorazzismo è parso potesse bastare quel suo aver fatto cenno alla percezione di diversità che si può trarre dal confronto con l«altro» come a «un dato normale dei comportamenti umani»: cosa, infatti, se non un «algido idealismo», può ardire a criminalizzare ciò che è «umano» perché «normale» e/o viceversa?

Largomento è delicato e non voglio lasciar adito a fraintendimenti, quindi chiarisco subito la mia posizione riguardo a questo aspetto, e lo faccio avanzando unipotesi.
Io credo che Galli della Loggia non si sia solo limitato a mettere in conto le critiche al suo editoriale, ma abbia anche cercato di fare in modo che fossero tali da poter essere agevolmente, a suo parere, rigettate come espressione di quegli «alti principi» che guardano all«umanità» e alla «normalità» come a «bassi istinti». «Alti principi» e «bassi istinti», infatti, sono proprio le locuzioni che sceglie, virgolettandole nel testo, per rappresentare il conflitto dal quale i primi corrono il rischio di uscire sconfitti, sicché il suo editoriale pone una questione fondamentalmente tattica: a una «politica [che] è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate», è sensato opporre solo «la forza del tabù»?
Domanda retorica, come è ovvio, e noi sappiamo che una domanda retorica mira sempre ad ottenere una risposta predeterminata. Se qui chiede e ottiene il nostro «no», è chiaro che diventa possibile e per certi versi addirittura necessaria una mediazione tra «alti principi» e «bassi istinti», una terza posizione che non criminalizzi la percezione di diversità dell«altro», a patto che da essa non discendano «misure a qualunque titolo discriminatorie».
Certo – concede Galli della Loggia – siamo in presenza di razzismo «quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono», ma è conveniente prima che legittimo – o, a piacere, è legittimo prima che conveniente – stigmatizzare come razzista l«umanità» e la «normalità» di quella percezione di diversità?

Altra domanda retorica. Qui la risposta suggerita come la sola possibile è un po più articolata: «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista». Convincente? Occorre un chiarimento. Indispensabile a procedere, come vedrete.
Questultimo virgolettato, infatti, come un altro più sopra riportato («un dato normale dei comportamenti umani»), sono nel corpo del testo pubblicato dal Corriere della Sera, ma tratti da un volume di Claude Lévi-Strauss (più propriamente da una sua conversazione con Didier Eribon, edita in Francia nel 1988, per i tipi di Odile Jacob, col titolo De près et de loin), che Galli della Loggia ha ritenuto poter addurre a incontestabile argumentum ab auctoritate. In sostanza, la risposta predeterminata che qui ci era richiesta coincideva col doveroso assenso al parere di quello che i dizionari enciclopedici definiscono «padre dellantropologia».
Indispensabile, questo chiarimento, ad introdurre la più argomentata delle critiche alleditoriale di Galli della Loggia, che infatti è stata prontamente mutuata da chiunque ha avvertito che non si potesse dargli torto opponendo solo «la forza del tabù». Mi riferisco a ciò che ha scritto Piero Vereni, «antropologo, professore associato allUniversità di Roma Tor Vergata», come apprendo dalla homepage del suo blog, Fuori tempo massimo: il suo post è divenuto in breve argumentum ab auctoritate di chi altrimenti avrebbe dovuto accontentarsi di costruire lipotesi accusatoria di criptorazzismo solo sulla base di alcune pur infelicissime immagini prodotte da Galli della Loggia a esempio di percezione di diversità dell«altro», che in quanto espressioni di stereotipi, peraltro anche abbastanza logori, avevano in radice il vizio della generalizzazione e del pregiudizio («non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom»).

Quanto sia stato letto con attenzione, il Vereni, non ha importanza, contava che, da antropologo, potesse offrirsi ad argumentum ab auctoritate a destituire di auctoritas largumentum ab auctoritate scelto da Galli della Loggia. E in questo, occorre dire, non si è risparmiato, perché quasi la metà delle sue 26.653 battute spazi inclusi è spesa a dirci che quello di De près et de loin è un Lévi-Strauss ultra-ottantenne e semi-rincoglionito, «rincantucciato in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta», e che il volume stesso altro non è che «un piccolo esercizio di furbizia editoriale, che immagino Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica».
Sarà che i maldicenti pettegolezzi degli accademici sono sempre molto più affascinanti di quelli delle shampiste, ma almeno a me il Vereni ha dato limpressione di sapere il fatto suo.
Poi, però, cè che l’impressione non basta, e per una diagnosi di semi-infermità mentale, per una condanna al ludibrio per posizioni ideologiche, è possibile venga voglia di argomenti, e uno non ne trovi di convincenti. Però almeno trova le ragioni per le quali Lévi-Strauss avrebbe torto, e con lui ovviamente anche Galli della Loggia. Vale la pena darci un’occhiata.
È che entrambi hanno un errato concetto di cultura: le attribuiscono due caratteristiche (compattezza interna e distinzione) che non hanno e non possono avere.
«Oggi – scrive il Vereni – l’antropologia culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che, oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni».
Se però è così che stanno le cose, il problema non è solo il vecchio Lévi-Strauss: in quale opera del giovane Lévi-Strauss, infatti, vè cenno a questo «continuo culturale» che renderebbe immotivata, se non per pregiudizio criptorazzista, la percezione di diversità che un cacciatore nambikwara del Mato Grosso può avvertire dinanzi a un ragioniere brianzolo e viceversa? E allora che senso aveva calcare tanto la mano sulla vecchiaia del Lévi-Strauss di cui si serve Galli della Loggia? Bastava dire che, sì, sarà stato pure il «padre dellantropologia», ma poi quella è cresciuta e lha ripudiato.

Ma cè di più. Volendo, infatti, recepire in toto la critica a un concetto di cultura cui si attribuiscano stati danimo e sentimenti autonomi – in realtà solo per metonimia, perché è evidente che questi sentimenti e stati d’animo sono attribuiti a chi si percepisce, a torto o a ragione, in un distinto perimetro culturale – in che modo pensiamo di poter fare i conti con la percezione di diversità che il cacciatore del Mato Grosso può avvertire rispetto al ragioniere di Monza, e viceversa? Più in generale, il concetto di cultura che il Vereni ci assicura essere quello genuino consente ancora, chessò, a un forlivese di poter dire che un certo tipo di cucina – bengalese o meno – non gli aggrada? Potrà scappargli ancora di dire, distinto, che trova più graziosi i genitali femminili al naturale che dopo uninfibulazione?
Perché è chiaro che dopo la lectio magistralis del Vereni nessuno oserà più disegnare confini netti tra cultura e cultura, ma poi può darsi che nel «continuo culturale» a qualcuno possa scappare lo stesso di cogliere un «di qua» e un «di là» e dallarco riflesso del nostro aggiornatissimo concetto di cultura possa partire il dardo di unaccusa di criptorazzismo. Ho come il presentimento che potrebbero derivarne problemi.


martedì 7 gennaio 2020

Nessuno tocchi Taradash


Non farete fatica a trovare in rete le prove dellindefesso impegno profuso da Marco Taradash in favore dell’istituzione del Tribunale penale internazionale, organo giurisdizionale fortemente voluto dai Radicali come presidio di garanzia nella somministrazione di giusta pena, dopo giusto processo, ai responsabili di crimini commessi in nome e per conto di stati canaglia, altrimenti punibili solo con iniziative arbitrarie, colpi di mano, roba più simile alla vendetta che alla giustizia. Né farete fatica a rintracciare le iniziative che l’hanno visto in prima linea contro la pena di morte, solidale, quando non organico, alle storiche battaglie di un’organizzazione eloquentemente denominata Nessuno tocchi Caino.
Vi avverto, nel cercare potrà capitare v’imbattiate pure in questo:


Qui non fate l’errore di pensare che quell«è bastata» faccia sfregio a Caino col considerare la sua morte una bazzecola o che Taradash non abbia chiara la gravità dell’andare ad ammazzare a casa sua uno che agli iraniani era più caro di quanto negli ultimi tempi Pannella lo fosse ai Radicali. È che di tanto in tanto un tiramento mette in moratoria i principi, ma è questione di attimi, poi semmai un drone iraniano incenerisce Mike Pompeo mentre sta al barbecue nel suo giardino, e i valori tornano valori, la vita umana ridiventa vita umana, la stella polare della giustizia giusta torna a risplendere, eccetera, eccetera. Mai smesso di esser Radicale, Marco Taradash, si può chiudere un occhio su questa piccola parentesi sunnita. 

[...]


La compassione che ci muove al gesto caritatevole procede figuratamente dal cuore, ma anche dallo stomaco. È per questo che, quando il gesto caritatevole è solo formale, stomaco e cuore ci paiono impermeabili alla compassione, figuratamente ricoperti di pelo, il che rivela in quel gesto, come si è soliti dire, una «carità pelosa».
Ogni atteggiamento caritatevole può lasciar adito a ritenere sia peloso, e questo è quanto in realtà accade con quella forma assai evoluta di carità che vediamo in atto nel cosiddetto garantismo, in cui la χάρις dà ragione delle sue accezioni quali grazia, rispetto, buon ufficio, e la caritas non sta per elemosina, favore o cortesia, ma per quel fraterno amore che dovrebbe unire tutti gli uomini in nome, se non di Dio,  della comune umanità, della pari dignità umana, ecc.: qui, in effetti, non di rado accade che la compassione agisca in modo discontinuo, estremamente sollecita con chi ci è amico, assai poco con chi non lo è, per niente con chi ci è nemico (dove la diade amico/nemico è rimpiazzabile da quelle similari quali simpatico/antipatico, vicino/lontano, ecc.).
Cè bisogno di qualche esempio di questo «garantismo peloso»? Sia.
Dicembre 2016, Lotti risulta indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio nellinchiesta sugli appalti Consip, e cè chi ne chiede le dimissioni (è stato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri col Governo Renzi, sarà Ministro per lo Sport col Governo Gentiloni quando la mozione di sfiducia sarà votata in Parlamento nel marzo 2017). Renzi chiede e ottiene che le forze politiche che sostengono il Governo respingano la mozione: «Si è colpevoli solo dopo condanna definitiva».
È lo stesso Renzi che ha chiesto le dimissioni di Alfano sul caso Shalabayeva, della Di Girolamo perché indagata per presunte irregolarità nei pagamenti di una Asl del beneventano, di Lupi per il coinvolgimento nello scandalo Grandi opere e della Cancellieri perché si è spesa in favore di Giulia Ligresti, lodando le dimissioni di Josefa Idem, sulla quale giravano voci di mancato pagamento di oneri previdenziali, ma neppure era indagata. A ciascuno la valutazione di quanto sia lungo il pelo su quel «si è colpevoli solo dopo condanna definitiva».
Se quanto fin qui detto può aver chiarito, mi auguro, qualcosa riguardo al «garantismo peloso», resta senza spiegazione cosa sia il «giustizialismo peloso» che, meno di un mese fa, Renzi ha stigmatizzato nel corso di un suo intervento al Senato, tutto teso a esprimere quanto fastidio gli avesse dato che qualche magistrato mettesse naso nei movimenti sul suo conto corrente che, per legislazione vigente, la sua banca era tenuta a comunicare allUfficio antiriciclaggio della Banca dItalia: «Massimo rispetto per la magistratura – diceva – ma diritto e giustizia sono una cosa diversa dal giustizialismo peloso». Che potrà essere mai? Su quale organo, qui, può figuratamente immaginarsi il pelo? Per renderlo impermeabile a cosa, poi?
Domande che non hanno senso, so bene, è inutile me lo facciate presente: Renzi ne è emblematico, ma che il linguaggio della politica sia da qualche tempo diventato impermeabile all’analisi logica è dato pressoché generale. Qui semplicemente devessersi trattato di uno dei tanti incidenti in cui incorre lo scilinguagnolo quando si premura di essere brillante ricorrendo alla sostituzione o allinversione di termini in locuzioni correnti, sennò al doppio senso offerto da uno dessi, o finanche al possibile gioco di assonanza o consonanza, come efficacemente illustrato da Crozza: «Contaminarsi per contare e sperare di non sparire. Contagiarsi per agire nellagio e raggirare chi conta. Contagiarsi per chi sa cogliere la forza di Italia Viva, perché lItalia con Italia Viva viva ancora di Forza Italia» (Nove, 18.11.2019).


Appendice

Scrivere di getto, come mi è di abitudine, comporta qualche imperdonabile lacuna. Qui, nel caso del «garantismo peloso», omettevo di considerare la variante che non si rivela nellintermittenza della χάρις e della caritas sublimate a rispetto dello stato di diritto, ma nella sua costanza, in vista di un ritorno di vantaggio personale. È il caso in cui pelo chiama pelo. Ma suppongo che anche qui sia necessario produrre un esempio.