mercoledì 29 aprile 2020

«La Costituzione è sospesa: brutto, sì, vabbè, ma è necessario»


Silvio Trentin (1885-1944) – padre di Bruno, segretario della Cgil dal 1988 al 1994 – fu docente di Diritto amministrativo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia dal 1923 al 1925, anno in cui capì che aria tirava, si ritirò dall’insegnamento e riparò in Francia. Fece ritorno in Italia solo nel 1943, per unirsi alle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà operanti nel Veneto, e morì l’anno dopo, d’infarto, dopo una breve detenzione seguita all’arresto da parte della polizia fascista. È in Francia che nel 1929, per i tipi della Girard, esce il suo Les transformations récents du droit public italien, che in Italia viene pubblicato da Marsilio nel 1983 col titolo Dallo statuto albertino al regime fascista (ignoro se si abbia altra edizione italiana antecedente a questa).
A pag. 371 leggiamo: «Il fascismo – una volta consolidata la sua fortuna politica mediante l’integrale conquista dello stato – dovette necessariamente pensare, come ogni parvenu, a fabbricare e a fissare senza ritardo i suoi titoli di nobiltà; a mascherare sotto le pieghe di un vestito fastoso i segni indelebili e rivelatori della sua vera origine; a riabilitare insomma, con l’enunciazione di una compiacente dottrina, gli innumerevoli atti – tutti compiuti nel disprezzo di ogni aderenza ad un principio, di ogni coerenza ad un programma, di ogni continuità di direttive – sui quali aveva appena fondato il regime uscito della sua miracolosa “avventura”».

Sembra quasi di vederlo, il Mussolini, nell’atelier di Rocco e Gentile: è in mutande e canottiera, dritto davanti allo specchio, e i due gli danzano d’attorno prendendo le misure – collo, torace, vita, braccio, coscia – e lui sbuffa, fa: «Sbrighiamoci!», e dà un’occhiataccia al manichino che sta in un angolo (com’è che non ha testa, il manichino?), poi guarda il tavolo sul quale, in attesa del taglio, stanno i rotoli di stoffa filosofica e di stoffa giuridica, e risbuffa, e impreca, e poi si raccomanda che i pantaloni non stringano troppo al cavallo, e Rocco di rimando: «Stia tranquillo, Eccellenza, starà comodissimo!», e Gentile: «Eccellenza, con la mistica fascista facciamo tre bottoni o doppiopetto?», e lui, brusco: «Non ha importanza, tanto la porto sbottonata, ma sbrighiamoci, porco d’un Giuda!», e ancora, ormai al limite della sopportazione: «Ma questo guardaroba è proprio necessario?», e Gentile: «Ma certo, Eccellenza, non vorrà mica incarnare il destino patrio vestito da squadrista?», e Rocco: «Vedrà, Eccellenza, sembrerà “cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”».

Facile farsi beffe del parvenu, fin troppo facile, quasi me ne pento. È che, negli abiti di uomo di stato, chi fino a ieri è stato un criminale si nota subito, veste male, mentre sotto lo splendido mantello firmato da un Hobbes o da un Bodin il pronipote di un altrettale fetente sembra quasi un padreterno. Tempo fa su queste pagine scrivevo: «Quando si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal cielo a premiare un eccezionale incrocio di virtù. È il momento in cui il nomignolo del delinquente diventa nome del casato, mentre i suoi misfatti vengono trasfigurati nei simboli del blasone, dove ben presto diventeranno leggenda di imprese eroiche. I modi diventano sempre più fini, il sangue diventa blu, il bottino dei saccheggi diventa possedimento, e dove prima i nemici pendevano ai ganci di macelleria si fa spazio alla pinacoteca, ben presto ricca di dipinti di rara bellezza, immancabili le ninfe al bagno, le scene tratte dalle Sacre Scritture, i ritratti del padrone di casa cui il pennello abbia saputo dare la patina d’uomo giusto, perfino pio». Qui aggiungerei che, anche a discendere dai più alti rami di un nobilissimo albero genealogico scoprendo che il bisnonno di quel tal papa squisito mecenate era né più né meno che un mafioso nella Firenze del Dugento, si finisce sempre per chiudere un occhio, scurdammece ’o passato, ché, senza sbudellamenti e squartamenti, niente Michelangelo, solo orologi a cucù. E dunque, siamo indulgenti col parvenu che abbiamo sorpreso in sartoria: non avesse fatto la fine che ha fatto, staremmo qui a lodarne il drop.

Nel suo caso, Trentin dice che il taglio sartoriale era di scuola tedesca, ma con alcune sostanziali variazioni che fecero dell’abito una creazione del tutto originale. Rocco e Gentile, infatti, «cercarono in tutti i modi di trarre partito dalle dottrine che furono enunciate in Germania durante il periodo bismarkiano da tutta una scuola di giuristi; dottrine che, avendo il loro punto d’inizio nella filosofia hegeliana ed essendo imbevute del principio di identità dei contrari, erano state fatalmente indotte a riconoscere l’identità della forza e del diritto, a definire il diritto come “la politica della forza”» (pagg. 378-380), e però da quel cartamodello di sovranità eliminarono il principio di autolimitazione, secondo il quale, «benché lo stato rimanga sovrano, l’attività dei suoi organi non può svilupparsi altro che secondo le prescrizioni e sotto la garanzia delle sanzioni dettate dalla norma giuridica» (pag. 381), e tanto si adoperarono perché l’abito fosse esclusivamente a misura di chi doveva indossarlo che la sovranità dello stato finì per diventare sovranità tutta personale. Sarà che scrive nel 1929 e forse non ha letto lo Schmitt del 1922 (di fatto nell’indice dei nomi non c’è), altrimenti pure in quelle modifiche del cartamodello avrebbe dovuto riconoscere una mano tedesca.

Qui forse è necessario, però, che io dia qualche spiegazione. Nell’ultimo post ho citato Schmitt e ho detto che il suo stato d’eccezione fonda sulla distinzione tra legittimità e legalità, che in realtà è un eufemismo in luogo del conflitto tra arbitrio e diritto, che finisce con l’attribuire al primo la piena sovranità che al secondo lascia solo in comodato; e un lettore, anonimo per giunta, ha commentato: «Ma legalità e legittimità non sono la stessa cosa?»; ed io, brusco: «No», e senza aggiungere altro, perché a doverlo fare sarei stato scortese; e allora un altro lettore, da buon samaritano, è intervenuto e ha detto: «Fino al 1946 le donne in Italia non potevano votare. Secondo me questa disposizione era legale ma non legittima»; e certo – ho risposto io – questo è «un buon esempio, ma non è tutto così semplice. [...] Cosa rendeva legittimo il voto alle donne anche prima del 1946? Qualsiasi sia la risposta, essa rimanda a un valore: e cos’è un valore, se non un particolare punto di vista?». Troppo criptico, c’era bisogno di spiegare. Per esempio, avrei potuto chiedere: fino a non molto tempo fa, un figlio nato fuori dal matrimonio veniva definito illegittimo, il valore cui rimandava il concetto di legittimità, qui, era o no un particolare punto di vista?
Poi c’è che proprio in quelle ore Andrea Pennacchi ha twittato un adagio di Marco Aurelio («Quel che è male per l’alveare è male per l’ape») che in tutta evidenza esortava a tollerare gli isterici decreti governativi in nome del bene comune; e lì ho avuto un fastidiosissimo giramento di coglioni, ma ho cercato lo stesso di mantenere la calma che solitamente mi vien meno quando mi rifilano la minestrina dell’organicismo riscaldata al fuocherello del volèmose bbene, e ho commentato: «Questa è la logica sulla quale regge l’arnia, ma sia chiaro che l’ape non agisce, è agita. E tuttavia questa logica incanta l’apicultore, la ritiene mirabile, e questo è comprensibile per il miele che gliene viene». E pure questo molto molto molto chiaro non era.
Infine, capitava pure unaltra cosa: da tante stimabili personcine sentivo dire – testualmente, eh – che «la Costituzione è sospesa», e il tono era di chi sottintendesse «è brutto, sì, vabbè, ma è necessario», mentre a sottolinearne la gravità, e anche con calore, era il Renzi di cui su queste pagine sè sempre detto il peggio del peggio, senza eccezioni, e dal 2010. Strumentale, la sua posizione? Molto probabile, e tuttavia è una posizione che merita attenzione di là da chi la esprime, e dal perché, per arrivare ad essere condivisa, nel caso, o rigettata. In via preliminare, tuttavia, è da notare che essa nega la priorità dellinteresse che impone (imporrebbe) la sospensione della Costituzione e solleva la questione del chi abbia il potere di affermare questa priorità, che è chiaramente un potere che mette in discussione la legalità in nome della legittimità.
So bene che sul punto merita attenzione anche unaltra posizione, quella di chi sostiene che fin qui non c’è stata alcuna sospensione della Costituzione, perché l’art. 16 recita che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Ho molti dubbi – e li ho già espressi – sul fatto che in questo caso le «limitazioni» siano state stabilite per «legge»: il potere legislativo è del Parlamento e fin qui esse sono venute tutte dall’esecutivo. Vado oltre il lecito affermando che, se «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1), mettersi sotto i piedi queste forme e questi limiti configuri – e qui torno a Trentin – una redefinizione del concetto di sovranità? Se il potere di decidere quando vi siano «motivi di sanità o di sicurezza» per porre limiti ai diritti contemplati dalla Costituzione si trasferisce dal legislativo all’esecutivo, che peraltro si arroga anche quello di decidere fino a quando questi motivi sussistano, quanto distanti siamo dalla situazione in cui «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»?  

Anticipo lobiezione: cè coincidenza formale e sostanziale tra emergenza e stato di eccezione? Mah, non saprei, vedete voi, lascio parlare Schmitt e poi mi dite.
«In generale non si disputa intorno ad un concetto in sé, quanto meno nella storia della sovranità: si disputa intorno al suo concreto impiego, cioè su chi in caso di conflitto decida dove consiste l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico, le salut public e così via. Il caso d’eccezione, il caso non descritto nell’ordinamento giuridico vigente, può al massimo essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere descritto con riferimento alla situazione di fatto. Solo questo caso rende attuale la questione relativa al soggetto della sovranità, che è poi la questione della sovranità stessa. Non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in un caso siffatto. Se quest’azione non è sottoposta a nessun controllo, se essa non è ripartita in qualche modo, secondo la prassi della costituzione dello Stato di diritto, fra diverse istanze che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa».
Non so che impressione ne abbiate tratto voi, io ribadisco quanto ho già detto qui e nel post precedente: Agamben ha visto giusto.

lunedì 27 aprile 2020

«Pattuglia di gente tecnicamente squinternata»





Una delle scorrettezze cui si fa più spesso ricorso quando si polemizza è quella dell’argomento fantoccio, col quale si offre al foro una rappresentazione tanto distorta della posizione avversa da renderla obiettivamente insostenibile. Non è un caso, dunque, che a questa scorrettezza spesso se ne accompagni un’altra, quella dell’argumentum ad hominem, che mira a screditare una tesi screditando chi la sostiene. Accompagnandosi, esse si potenziano a vicenda. Distorcendo la posizione avversa fino a renderla obiettivamente insostenibile, infatti, l’avversario diventa persona inaffidabile, e questa sua inaffidabilità va a costituire ulteriore elemento che ne scredita la tesi.
È proprio a queste due scorrettezze, e quasi esclusivamente a queste due, che ormai Il Foglio ricorre quando polemizza, e questo è un vero peccato, perché in passato era solito offrire un ventaglio assai più ampio e variegato di vizi d’argomentazione, con esemplari saggi di appello all’autorità e di richiamo alla tradizione, di inversione dell’onere di prova e di confusione tra causa ed effetto, di falsa nitidezza e di pendio scivoloso, ecc. 
Dapprima ho pensato dipendesse dal fatto che a dirigerlo non fosse più Giuliano Ferrara, ma Claudio Cerasa: «hanno mise ’a fessa mmano a ’e ccriature», mi son detto ricorrendo a un’immagine in uso dalle mie parti, ma sbagliavo, perché quella certa qual cura che in passato Il Foglio non aveva mai fatto mancare alla mistificazione, alla manipolazione, allavvelenamento dei pozzi, spariva via via anche dai pezzi siglati con l’elefantino rosso, per lasciar posto solo a fallacie grossolane come il ricorso all’emozione, la petizione di principio, il falso dilemma e, appunto, l’argumentum ad hominem, quasi sempre dopo aver ridotto l’homo a fantoccio.
Ho concluso che il problema non è Cerasa. È che, più banalmente, anche Il Foglio risente, e pesantemente, da almeno cinque o sei anni a questa parte, del degrado che da tempo affligge la discussione pubblica, in generale, e la polemica, in particolare: ovviamente vige ancora, com’è da sempre, lì e ovunque, la regola che nel foro non bisogna farsi troppi scrupoli – persuadere rimane questione di vita o di morte – ma pare che un po’ tutti ormai ritengano superfluo quel tocco di eleganza che un tempo si considerava velo indispensabile alla frode, e che, volendo, poteva essere considerato perfino come una sorta di ultimo rispetto dovuto ai frodati. Il giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, semplicemente, non fa eccezione.

Chi di tutto ciò volesse aver prova con un esempio non ha che da considerare il modo con cui Il Foglio ha avversato la posizione che, riguardo alle misure adottate per fronteggiare l’epidemia da Covid-19, Giorgio Agamben ha espresso dapprima ne Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, apparso su il manifesto di mercoledì 26 febbraio, e poi in altri testi (li trovate tutti alla pagina quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben), che, senza smentirla, né mitigarla, la precisavano, per lo più in risposta alle obiezioni che gli erano state mosse.
Non si poteva certo pretendere che per contestare quella posizione Il Foglio si facesse scrupolo nel far ricorso a vizi d’argomentazione, ma chi si aspettava che ci risparmiasse almeno quelli più volgari ha avuto la delusione che meritava: «Un filosofo da cabaret ha scritto sul manifesto che ’o virùs è tutta una messinscena per affermare lo stato di eccezione, capite?» (Giuliano Ferrara); «Agamben è l’intellò di maggior pedigree a predicare, da mesi, che il coronavirus non esiste, è una diceria dell’untore. Non è di quelli che pensano che sia un complotto cinese. No, lui è proprio convinto che non esista […] e nel sillogismo con cui ce la mena da mesi ritiene che, non essendoci il virus, la nostra reclusione sia il vero complotto, contro la libertà: “Sta nascendo un dispotismo e sarà peggiore di quelli del passato”. Ma sticazzi, roba da darsela Agamben» (Maurizio Crippa); «Nel 2004 Agamben annullò un corso alla New York University perché le condizioni per l’ingresso negli Stati Uniti – la schedatura e il rilascio delle impronte digitali – gli parevano figlie di un nuovo paradigma biopolitico totalitario» (Guido Vitiello).
«Un filosofo da cabaret» invitato a tenere «un corso alla New York University»? Eccheccazzo, quando ci si mette in tre o quattro a gettare merda addosso a qualcuno, mettersi daccordo prima non guasterebbe, servirebbe almeno ad evitare il fuoco amico. E poi, ok, passi luso del cognome di chi ti sta sul cazzo per confezionare una battutina da ginnasiale scemo («darsela Agamben»), che quando lo fa Dagospia («non cè Crippa per gatti») tutto schifato alzi sopracciglio come a dire «mon dieu, quelle vulgarité!», ma dimmi: «lintellò di maggior pedigree» ha scritto veramente che «il coronavirus non esiste»? No, eh? E se a chi ti legge viene il prurito di culo di andare a controllare, che figura ci rimedi?

E sì che un concetto come quello di «stato deccezione» si prestava allimpiego di fallacie assai più sofisticate. Si poteva addirittura metterne in discussione la solidità, perché già nella formulazione datane da Carl Schmitt (Politische Teologie, 1922) ci è offerto come il momento che oppone la legittimità alla legalità: glissando sul sottotesto, che in realtà oppone l’arbitrio al diritto, in più attribuendo al primo la piena sovranità che al secondo è concessa solo in simulacro, si poteva liquidare il concetto stesso come uno specioso paradosso, accusando Agamben di aver appiccicato la nazicazzabubbola schmittiana a una situazione in cui, al contrario, la legittimità e la legalità trovano perfetta coincidenza nella sospensione del diritto di libera circolazione che la Costituzione contempla in forza di superiori «motivi di sanità e di sicurezza» (art. 16). Certo, c’era da sforzarsi un pochino per far rientrare nella fattispecie di «limitazioni che la legge stabilisce in via generale» lo scacazzo di un decreto governativo ogni settimana e di unordinanza regionale ogni tre giorni, ma con un po di faccia tosta, via, non era sforzo da farsi scendere le emorroidi.
Oppure si poteva lasciare in pace Schmitt per contestare la lettura fattane da Agamben (Stato di eccezione, 2003). Certo, cera da leggere un centinaio di pagine, comprenderle o almeno far finta, e poi aggrapparsi a un aggettivo o a un verbo, tirando a più non posso, nella speranza di far venire giù tutta la costruzione. Ma pure questo si è ritenuto troppo faticoso e, in ultima analisi, non necessario, come rivela quanto segue: «“Fermi tutti, è un’epidemia inventata”, spiega invece il filosofo Agamben. Prendiamo i fatti per quello che sono, poi mandiamoli all’aria, rovesciamoli, laviamoli con un po’ di “biopolitica” e guardiamoli meglio. Eccoci piombati nello “Stato di eccezione”. Si entra e esce dallo “Stato di eccezione” come se niente fosse, peggio che con le “emergenze democratiche”» (Andrea Minuz).
Non può trattarsi di un refuso tipografico, perché per ben due volte a Stato si mette la maiuscola, come quando al termine si dà accezione di «comunità politica costituita da un popolo stanziato in un determinato territorio e organizzato unitariamente come persona giuridica collettiva» (Treccani), «organizzazione politica e giuridica della società civile» (Devoto-Oli), «istituzione che rappresenta tutti i cittadini governati da uno stesso governo» (Palazzi). Nulla a che vedere, dunque, con lo stato che nello stato deccezione sta per situazione, condizione, modo dessere, e perciò vuole la s minuscola. Daltronde occorre essere indulgenti con Minuz: insegna Storia del Cinema, non è tenuto ad aver letto Schmitt e Agamben, ma – siamo onesti – perché questo dovrebbe fargli impedimento a parlarne? Non sia mai, verrebbe meno il tratto distintivo del giornale fondato da Ferrara e diretto da Cerasa, che Edmondo Berselli definì «pattuglia di gente tecnicamente squinternata» (Venerati maestri, 2006).

Vabbè – mi chiederà il lettore – ma Agamben? Agamben ha ragione, dico io. Ha detto che le misure di emergenza messe in atto per fronteggiare il Covid-19 sono state «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate»? Cè chi in buona fede può dire siano state sagge ed equilibrate? Cè chi se la sente di sostenere che abbiamo sempre avuto motivazioni razionali? Certo, ha scritto che «non c’è unepidemia di SARS-CoV2 in Italia», ma lha scritto solo quattro giorni dopo che Burioni aveva detto alla Bignardi che «in Italia il virus non c’è, ha più senso preoccuparsi di meteoriti» (LAssedio – Nove, 20.2.2020), e comunque limitandosi a farlo riportando in virgolettato quanto affermato dal Cnr, che in quei giorni negava fosse in corso unepidemia (en passant, va detto che, contrariamente a quanto gli ha attribuito Il Foglio, già dal 5 marzo in poi Agamben non ha avuto alcuna difficoltà nel riconoscere che quella in corso fosse unepidemia). Erano i giorni in cui, per il Cnr, linfezione «causa[va] sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva» (anche in questo caso Agamben si limitava a prendere di peso un virgolettato del Cnr per riportarlo nel corpo del suo articolo). Dati cui gli sviluppi della vicenda sanitaria hanno dato sostanziale smentita?
Ha scritto, poi, che le misure del Governo, scavalcando il Parlamento, implicavano di fatto la sospensione di un buon numero di diritti costituzionalmente garantiti a mezzo di «una vera e propria militarizzazione», e l’ha scritto il 26 febbraio, diverse settimane prima che ci toccasse assistere a blitz delle forze dell’ordine impiegate a interrompere messe cui partecipavano una decina di fedeli seduti a più di due metri di distanza l’uno dall’altro, a droni librati in volo a intercettare rider sorpresi a consegnare pizze, a quad lanciati in manovre a tenaglia per braccare un tizio che, solo soletto, prendeva il sole in spiaggia: il termine «militarizzazione» calza male a episodi del genere?
L’articolo del 26 febbraio, poi, chiudeva segnalando «lo stato di paura che in questi anni si è diffuso nelle coscienze degli individui» e che li porta ad accettare «la limitazione della libertà imposta dai governi», «in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo». Esagerato? A me non pare. Di fatto, in cambio di una sicurezza che non si è rivelata poi tanto sicura, il Paese ha supinamente accettato obblighi e divieti che in più di un caso sono parsi privi di ogni altro senso che quello di saggiare la sua supinità.
Un discorso a parte, in verità, meriterebbe la ratio che informava l’offerta di questa sicurezza. Si prenda a esempio l’ineffabile Di Maio che, commentando qualche episodio di disobbedienza, prospettava che questo avrebbe posto la necessità di restrizioni più severe per tutti. Ricordate il sergente maggiore Hartman in Full metal jacket, vero? Cosa dice quando scopre che, contravvenendo alla regola che in camerata non si porta cibo, Palla-di-lardo ha inguattato una ciambella nella sua trousse da campo? «Il soldato Palla-di-lardo ha disonorato se stesso e ha disonorato il suo plotone. Io ho cercato di aiutarlo, ma ho fallito. Io ho fallito perché voi non avete aiutato me. Nessuno di voi ha dato al soldato Palla-di-lardo le dovute e giuste motivazioni. Qui, da adesso in poi, quando Palla-di-lardo farà una cazzata, io non punirò il suddetto: io punirò tutti quanti voi». Convengo che il paragone possa apparirvi azzardato, ma credo che molto dipenda dal fatto che quello di Hartman era un latrato e quello di Di Maio un cinguettio.
Ma torniamo ad Agamben. Che altro ha detto?

11 marzo: «Le recenti disposizioni trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore, esattamente come quelle sul terrorismo consideravano di fatto e di diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza». Lasciamo perdere se sia giusto o meno, anzi, concediamo che sia più che giusto, ma chiediamoci: è vero o no?
17 marzo: «L’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. [Qui sarebbe utile dare qualche ragguaglio sul concetto di «nuda vita» che ha un ruolo centrale nell’opera di Agamben, ma questo ci costringerebbe a divagare troppo. Possiamo tagliar corto prendendo a corrispettivo quel che è la «nuda proprietà» di una casa: è mia, ma non posso abitarvi.] È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». Qui, mi rendo conto, è un po’ più arduo pronunciarsi. Ritengo che tutto dipenda dalla tutta personale idea che si ha della vita, che poi altro non è l’idea che ci si è fatti della propria vita: come c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà. Anche qui possiamo sospendere ogni giudizio di merito, basta chiedersi: è vero o no?
27 marzo, forse il punto più intenso della sua riflessione: «Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure». Quanto lontano dal vero?
E ancora: «Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla, tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata». È considerazione balzana?
6 aprile, sul cosiddetto «distanziamento sociale»: «È importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva». Non so a voi, ma a me pare osservazione tutt’altro che banale. Anzi, rinunciando all’eufemismo, direi sia osservazione estremamente acuta.
14 aprile: «Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? [...] Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale? [...] So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà».
E ancora, 20 aprile, sulla patente incostituzionalità di misure ventilate in ordine alla cosiddetta «fase 2»: «Due punti fra quelli che si preparano sono particolarmente odiosi e in palese violazione dei principi della costituzione: la possibilità di muoversi limitata per fasce di età, cioè con l’obbligo per gli ultrasettantenni di restare chiusi in casa e la mappatura sierologica obbligatoria per tutta la popolazione. […] [Anticostituzionale, la prima], in quanto crea una fascia di cittadini di serie B, mentre tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, e li priva di fatto della loro libertà con una imposizione dall’alto del tutto ingiustificata, che rischia di nuocere alla salute delle persone in questione e non di proteggerla. […] Altrettanto illegittimo è l’obbligo di una mappatura sierologica, dal momento che l’art. 32 della costituzione stabilisce che nessuno può esser sottoposto a visita medica se non per disposizione di legge, mentre ancora una volta, com’è avvenuto finora, le misure verrebbero stabilite per decreto del governo». Anche qui: trovate traccia di vizio logico?

Non vorrei che il mio lettore pensasse che aver preso le difese di Agamben voglia dire ch’io ne condivida il pensiero. Molto nella sua riflessione filosofica mi pare discutibile, e anche la sua posizione sui temi sollevati dall’emergenza Covid-19 non mi pare affatto sottoscrivibile in toto, come sarà evidente da quanto dirò riguardo all’intervista che chiude questa rapida galleria dei suoi testi sulla questione. La cosa che, però, mi diverte da morire è che quanto mi trova in totale disaccordo con lui  in questa intervista ha una singolare sintonia con molte passate annate de Il Foglio, sia per il contenuto, sia per la forma. Agamben, infatti, dice a chi lo intervista che «gli scienziati, a torto o a ragione, perseguono in buona fede le loro ragioni, che si identificano con l’interesse della scienza e in nome delle quali – la Storia lo dimostra ampiamente – sono disposti a sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale. Non ho bisogno di ricordare che sotto il nazismo scienziati molto stimati hanno guidato la politica eugenetica e non hanno esitato a approfittare dei lager per eseguire esperimenti letali che ritenevano utili per il progresso della scienza e per la cura dei soldati tedeschi». Non puzza di Meotti? 
E ancora: «La scienza è diventata la religione del nostro tempo. L’analogia con la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano di non potere definire con chiarezza che cos’è Dio, ma in suo nome dettavano agli uomini delle regole di condotta e non esitavano a bruciare gli eretici; i virologi ammettono di non sapere esattamente che cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come devono vivere gli esseri umani». Certo, Langone avrebbe messo a inciso che Dio non può e non deve esser chiaro, e soprattutto che bruciare gli eretici era cosa buona e giusta per preservare la fede dalle insidie del dubbio, tipo zampirone che fuga le zanzare, ma per il resto, via, siamo lì.
E infine: «La specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali naturali di adattamento all’ambiente, che vengono sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l’ambiente all’uomo. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in autodistruzione della specie. Fenomeni come quello che stiamo vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato raggiunto e che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia di produrre un male ancora più grande. Contro questo rischio dobbiamo resistere con ogni mezzo». Manca del caratteristico flamboyant ferrariano, è vero, ma sfigurerebbe a premessa di una tirata contro la pillola anticoncezionale?

giovedì 16 aprile 2020

«Ne prendo atto»


Basta parlare di coronavirus. In fondo questo è un blog, e cioè un diario. Un diario pubblico, vabbè, ma un diario. Parliamo daltro, dunque.
Vi ho detto, per esempio, quello che mè capitato a Capodanno? Ha dellincredibile, e infatti temo che farete fatica a credermi. Comunque.
Avete presente il tizio che nelle vignette umoristiche de La Settimana Enigmistica sta steso in un letto dospedale in una ingessatura integrale tipo mummia? Sì, quello con la moglie seduta accanto che gli dice: «Mai una carezza, Ernesto!». Insomma, ci siamo capiti.
Bene, sto lì col cellulare in mano per riprendere in video Michele e Brunella che vengono giù in slittino, quando nellinquadratura appare lui, la mummia, sugli sci. Robe da non credere, ve lavevo detto, quindi adesso non state a tirar su quel sopracciglio.
Un po mi conoscete, non sono riuscito a trattenermi: ho aspettato che arrivasse giù e lho avvicinato.

«Bella giornata, eh?», ho fatto. Per rompere il ghiaccio.
«Ah, sì, sciare con questo sole è una delizia. Lei che fa, non scia?».
«No – mi son schermito – sono dun pigro... Sto qui solo perché mio figlio va matto per la neve... E poi lidea di rompermi losso del collo... No, no, non fa per me!».
«Ero come lei, sa?», mi fa.
«E poi?».
«E poi ecco qua, ho trovato la soluzione per coniugare divertimento e sicurezza».
«Ma ho capito bene? – ho buttato lì, facendo un po lo gnorri – È proprio gesso?».
«Ho un amico ortopedico».
«Insomma...».
«Raziocinio, signor mio, raziocinio. Mi segua. Lei non scia, perciò è probabile ne sia all’oscuro, ma sa che anche al più esperto sciatore capitano almeno due o tre cadute a stagione? Le risparmio la lista dei traumi possibili. E allora eccomi qui: danni praticamente ridotti a zero...».
«Ma dev’essere scomodo...», provo a dire.
«Se pensa a tutti i guai che evita, tutt’altro. Pensi che io son qui da venerdì scorso e in questi cinque giorni mi son risparmiato una frattura sottotrocanterica del femore sinistro, uninfrazione bimalleolare destra, una lesione del crociato anteriore del ginocchio destro e un vasto ematoma nella regione presacrale. Conto di rimanere qui fino a giovedì, così potrò evitare anche una lesione parziale del tendine d’Achille, i calcoli non mi danno con certezza se destro o sinistro, e una sublussazione della spalla sinistra...».
«Ho capito bene? Ha detto “calcoli”? Come può calcolare con tanta precisione quello che potrebbe accaderle senza ...?», e qui mi son fermato in tempo, perché mi conosco: quando non riesco a trovare la parola giusta, trovo sempre quella più sbagliata di tutte.
Non vedevo uno sguardo di compassione come quello che ho intuito oltre il gesso dalla volta che allasilo suor Crocifissa saccorse che mi ero cagato addosso.
«Evidentemente lei è un fatalista», mi fa. Ma si capiva che voleva dire «irresponsabile», se non peggio.
«No, per carità, anzi...», dico per mettere riparo a quella che prefiguro come figuraccia.
«Non deve mica vergognarsi, sa? Siete in tanti. E non è colpa vostra, ovvio, è che questo paese ha un grave deficit di cultura scientifica. Zero in matematica, tutti: o ignoranti o liceo classico. Lei ha fatto il classico, vero?».
Abbozzo un annuire, ma mi sento rigido. Per fortuna, lui coglie il mio imbarazzo e mi viene in soccorso con una benevolenza che mi commuove.
«È davvero interessato a capire?».

Meraviglia delle meraviglie, cosa non riesce a penetrare la mente che sa usare i numeri? In meno di dieci minuti la mummia mi srotola dinanzi statistiche dogni genere, dal 1961 al 2017 (un po’ contrito mi faceva presente che quelle del 2018 non erano ancora state diffuse). Cortina, Livigno, Cervinia e, appunto, Roccaraso. E poi due o tre dozzine di voci bibliografiche da autorevolissime riviste di ortopedia e traumatologia (qua e là interpuntava con un «di questo studio or non mi sovviene se è del 2005 o del 2006»). E grafici, poi, una catasta di grafici, che ovviamente non poteva disegnarmi (niente carta e penna a portata di mano, ma soprattutto mani ingessate): li tracciava in aria muovendo le pupille. Vivissime, sia detto en passant.
«... ora prenda i dati diffusi negli ultimi sei anni dai due presidi ospedalieri nella zona, trovi la funzione polinomiale che li lega, ne faccia il grafico su una scala logaritmica, analizzi la derivata prima e seconda, e tutto le sarà chiaro!».
Non ho potuto far altro che arrendermi: «Ne prendo atto».