domenica 5 aprile 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (6)


6. Più che del Covid-19, qui ho discusso di come se n’è discusso. La cosa era nuova, se ne sapeva poco o niente, era prevedibile che offrisse i suoi aspetti oscuri alle interpretazioni, che per loro natura sono bellicose, e di fronte al nuovo si bipolarizzano, scendendo in campo intenzionate a vincere o a morire, e dunque non ammettono di essere indebolite da dubbi o critiche: ciò che è nuovo, e oscuro, è in sé e per sé fatale, e dunque, quando arriva, «nulla sarà più come prima» (nulla deve essere come prima), perché ogni destinazione è destino; oppure no, perché il fatale è solo l’artefatto della sorpresa dinanzi all’imprevisto, che a posteriori risulta sempre prevedibile, perché, dimentica del passato, la storia procede di sorpresa in sorpresa e dunque «tutto sarà come prima» (tutto deve essere come prima). Armate dei loro più taglienti argomenti e chiuse nelle loro più luccicanti corazze etico-estetiche, abbiamo visto queste due posizioni, referenti dei rispettivi umori, menarsi di brutto.
Al momento, è la prima che sembra avere la meglio, ma d’altronde va sempre a questo modo, all’inizio. E ve n’era indizio prim’ancora che si venisse alle mani, perché, quando i morti da Covid-19 erano ancor meno di 1.000, già serpeggiava nei talk show la vulgata del fatale come destino sociale: non tutto verrà per nuocere – si mormorava fuori dai denti – la competenza riprenderà la persa autorità, l’emergenza ripristinerà la sacrosanta catena di comando, le plebi torneranno a chiedere pane senza pretendere anche rose, e la guerra ci farà riscoprire l’amor patrio, avremo qualche eroe che illustrerà le smarrite virtù, e «nulla sarà più come prima», nel senso che tutto sarà com’era prima del prima. Cionondimeno, come d’altronde regolarmente segue, il prima del prima fa fatica a diventare il dopo, e alla fetecchia che ci consigliava di leggere le pagine che il Manzoni dedica alla peste già s’appresta la fetecchia che ci consiglia di passare alle pagine che il Manzoni dedica all’assalto dei forni.
Quando non si hanno interessi in gioco in questo genere di guerre (e non parlo solo di interessi materiali, ma anche di quelli psicologici, quelli che lo psicologo pudicamente chiama fattori motivazionali), non si può scendere in campo senza casacca, perché ogni schieramento ti considera far parte di quello opposto, e in più vilmente camuffato da neutrale. A nulla vale esordire, come ho fatto con un tweet del 5 marzo: «State esagerando. Tutti. State esagerando». Guai, poi, a far presente allo schieramento che prende l’iniziale sopravvento che, col trattare il Covid-19 come qualcosa di mai visto prima, «la soluzione diventa problema» (tweet dell’8 marzo). Peggio ancora chiedersi ad alta voce, come ho fatto col primo dei post di questa serie, «perché il Covid-19 sta godendo di una copertura mediatica tanto spropositata?».
Domanda posta male, convengo, perché col crescere del numero dei contagiati (noti) e dei morti (da/con), e ancor più col farne oggetto di unica questione degna di attenzione, era inevitabile offrire il fianco all’obiezione cui qui do voce con le parole di un amico che lascio nell’anonimato: «Continui a credere che sia poco più di un’influenza?». Gli amici sono amici e non si possono mandare a fare in culo, occorre un minimo di gentilezza anche quando ti mettono in bocca cose che non hai mai detto: «E dove l’ho mai scritto? Io mi son chiesto solo perché 8.000 morti per/con influenza ogni anno non abbiamo mai avuto tanta attenzione. E poi, con Dawkins, con Debord, con Jenkins, con Perniola e con Rothkopf, ho cercato di capire le ragioni del perché, ma soprattutto del come, l’attenzione sul Covid-19 si stia prendendo più vite del Covid-19 stesso».
Così dove, riguardo al punto in cui dicevo che il Covid-19 impone(sse) misure di contenimento, sì, ma non autorizza(sse) all’isteria, né a provvedimenti che, per evitare 5-10-20-30.000 morti, possono far morire di fame mezza Italia, un altro amico mi scriveva: «Potevi dirlo in un altro modo, vedrai che quel “morire di fame” ti procurerà noie». Ma sai quanto me ne fotte, caro mio, mai stato sul mercato delle idee, mai avuto bisogno di rendere appetibili le mie e, quando supero i 5.000 lettori a post, comincio a sospettare di aver scritto cazzate.
Tanto stia a premessa di quanto, in questo e nel successivo paragrafo, starà a tentativo di tirare i fili e chiudere col Covid-19 (conto di dedicarmi al saggio su Messerschmidt che sta a stagionare nelle bozze da dieci anni). Qui affronterò due o tre questioni marginali, ma poi nemmeno tanto, relative a termini che userò del settimo e ultimo paragrafo, e sui quali non vorrei passasse qualche fraintendimento. E dunque.

La catastrofe come disegno Nel «complottista», che è «chi tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un complotto» (Devoto-Oli), v’è un’implicita professione di fede nell’esistenza di intelligenze umane in grado di ordine piani che, nel caso dei «complotti» (da «complicitum» «complictum», che alla lettera è «viluppo», e in senso figurato rimanda a ciò che è «oscuro»), sono sempre assai «complessi» (da «complexum», che alla lettera è «intreccio», ed estensivamente «trama»), come d’altronde si rileva dal considerare che nell’avvolgere di «cum-plico» e nell’intrecciare di «cum-plecto» sta un gran bel togliere linearità a ciò che è «planum». Avrei potuto chiamarla convinzione, ma, se ho preferito parlare di fede, è per la stretta parentela che v’è tra il complottista e il credente. Per entrambi, infatti, tutto ciò che accade («ogni evento») non sarebbe altro che la realizzazione di un disegno destinato a rimanere imperscrutabile a chiunque neghi lesistenza dellintelligenza che lo ha concepito. Intelligenza superiore (poco importa se superiore a quella umana, nel caso del credente, o alla gran parte degli umani, nel caso del complottista), perché in entrambi i casi si tratta di unintelligenza in grado di veder sempre realizzato il suo disegno (in virtù della sua onnipotenza, in un caso, o di un potere comunque efficace, nellaltro).
Si obietterà, e a ragione, che il buon fine cui mira chi ordisce un complotto non ha nulla a che vedere col «buono» che Dio vede in quel che ha creato (per sette volte, nel Genesi, «e vide che era cosa buona»), il che non toglie, tuttavia, che il complottista e il credente vivono entrambi in una realtà che si sono costruiti («ogni evento», l’uno, il Creato, l’altro), ma che ritengono sia stata costruita per loro, e che in entrambi i casi (paranoia, in uno, fede, nell’altro) è inattaccabile. Costruzioni in tutto simili, fatta eccezione per una differenza che però non è da poco: «paranoia is faith with a minus sign in front» (Derick Parsons, Cognitive Behavioral Therapy vs Neurolinguistic Programming, 2019). Nella fede ci si sente sempre al sicuro; nella paranoia, mai. Su Dio puoi fare affidamento sempre (volendo, ovviamente), anche quando ti sottopone a prove tremende; sospetto e diffidenza, invece, non devono mai abbandonarti dentro la trama in cui ti muovi, anche quando in apparenza non mostra pericoli (meno ne mostra, più ne ha: non si ha complotto senza una vittima). E tuttavia il delirio persecutorio non è esclusivo della paranoia del complottista: se alteri l’ordine del suo Creato, Dio ti punisce con diluvi, carestie, cavallette e peste. È il meme della catastrofe naturale per punizione divina, di cui parlavo nel terzo paragrafo. Se, però, il complottista non è stato in grado di offrirci un disegno in cui la pandemia fosse decisa da una Spectre del terrore (non è riuscito ad andare oltre l’incidente del virus costruito in laboratorio per essere impiegato in una guerra batteriologica), il credente (qui inteso come chi allo status quo conferisce gli attributi di Dio e/o della Natura) è stato in grado imporre la vulgata del Covid-19 come evento metasanitario, come polmonite virale che ci parlasse di tutti i nostri mali, e in primo luogo di quelli sociali.

Lo spettacolo della catastrofe Anche senza voler far propria l’ipotesi debordiana dello spettacolo come «Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta», «visione del mondo che si è oggettivata», «momento storico che ci contiene», non sfuggirà a nessuno che la rappresentazione del Covid-19 ha sembrato tendervi fin dallinizio, e in buona sostanza vi è riuscita.
Infatti, il virus c’è; e c’è un’enorme quantità di contagiati (cosa ragionevolmente desumibile fin dall’inizio, ma per fortuna arriva un Imperial College per dirci con estrema precisione che i positivi, in Italia, sono tra il 3,2% e il 26%, tra 1.850.000 e 15.500.000, e ora la desunzione ha solidità scientifica – sì, bravi, è sarcasmo); e ovviamente questo implica che la stragrande maggioranza sia asintomatica, e mai saprà se è positiva o meno al Sars-coV-2 (pochi tamponi, servivano ai calciatori e alle loro signore – sì, bravi, sto insistendo col sarcasmo); e però ci sono i morti, e tanti, ancorché in stragrande maggioranza molto anziani e molto malati (niente sarcasmo, qui, perché bisogna pur morire di qualcosa, ma che si muoia di vecchiaia passi, e passi pure che si muoia di diabete, di acciacchi cardiovascolari e di insufficienza polmonare cronica, ma di vecchiaia, diabete, acciacchi cardiovascolari, insufficienza polmonare e Covid-19 dispiace assai di più; poi, bel bello, arriva il presidente dellIstat e ci dice che le morti per malattie respiratorie «nel marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220» e che «incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020», che francamente si poteva pure dire prima); e per evitare che gli asintomatici, che non sanno di essere positivi, vadano in giro ad ungere, aumentando il numero dei morti, sono necessarie misure di contenimento, a pareggiare i conti con quelli che si sono beccati il virus nel pronto soccorso preso d’assalto al primo serpeggiar del panico; e per tappare i buchi di una sanità pubblica, fatti dai tagli dei passati governi di centrodestra e di centrosinistra, qualsiasi governo – di centrodestra, di centrosinistra o di-a-da-in-con-su-per-tra-fra – può solo minacciare lanciafiamme e multe da 3.000 euro a chi passeggia in solitudine, ma senza valido motivo; e tutto questo offre notevoli spunti anche al più sfessato degli sceneggiatori; se tutto questo, insomma, è nei fatti, è naturale che la sua rappresentazione prenda, includa, assorba, ci faccia partecipi come platea, ci chiami in scena a guardare lo spettacolo in cui siamo comparse mute o tutt’al più rumoreggianti sui social, basso continuo della colonna sonora che scorre sotto gli scazzi tra il Burioni e la Gismondi, sotto l’annuncio dell’Apocalisse di don Fanzaga e la speranza di Francesco che il picco della curva si abbia al Venerdì Santo e a Pasqua abbia un miracoloso crollo ad accenderci in testa una pentecostale fiammella di conoscenza.
Un bel nastro di Moebius, non c’è che dire: fatti e interpretazioni hanno la stessa faccia, siamo lo spettacolo che guardiamo, omogeneo a dispetto delle sue contraddizioni interne, perché tutte funzionali al teatro del terrorismo (Jenkins) e allinfodemia del fatale (Rothkopf). Quanto di questo spettacolo non siamo spettatori, ma comparse che per giunta lavorano a gratis, ce lo illustra la famosa circolare aziendale in video di Urbano Cairo, che dello spettacolo non è il regista, ma attore, perché mera rotellina del sistema che embrica informazione-intrattenimento, con pubblicità-consumo e con produzione-capitale. Guardando quel video dovrebbe esser chiaro: cè una tv che, risparmiando in spese per lustrini, può vivere 24 ore al giorno di giornalisti che intervistano giornalisti sulla questione che ha maggiore appeal.

Mia moglie mi sfotte Mia moglie mi sfotte, dice: «Se ti becchi il virus, e muori, sicuramente arriveranno un sacco di prese per il culo a commento dellultimo pippone che avrai postato: che faccio, le cestino o le edito?». Hai voglia a dirle che non sono Don Ferrante, che la peste cè, e la vedo (e dico proprio «peste», così le mostro tutta la mia comprensione per la sua astinenza da coiffeur e pilates).

E ora – come dicevo – cerchiamo di tirare i fili e chiudere.

domenica 29 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (allegati)

«Dopo qualche giorno dall’inizio dell’epidemia di coronavirus – scrive Giulio Fatti (Dipartimento di Scienze Fisiche, Informatiche e Matematiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) – ha iniziato a sembrarmi evidente che la gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni lasciasse alquanto a desiderare, e che rispondesse a delle esigenze politiche diverse, e probabilmente incompatibili, sia con un contenimento efficace del contagio, sia con la limitazione dei suoi effetti. Ho allora iniziato a raccogliere, giorno per giorno, le dichiarazioni di politici, funzionari, uomini delle istituzioni, e le misure da loro prese. Ho incluso anche le dichiarazioni e le note da parte dei rappresentanti delle imprese, dagli industriali ai negozianti, e dei sindacati, per mettere in mostra le relazioni tra componenti del corpo sociale e politica. Ho raccolto anche alcune interviste e dichiarazioni da parte di virologi, epidemiologi, medici ed esperti in generale, per cogliere anche il legame che esiste tra discorso scientifico e responsabilità politica».
Qui trovate il materiale grezzo, che su fogli di OpenOffice Writer (dimensione del carattere 14, interlinea 1,5) occupa 115 pagine (su Quarantena trovate il testo riordinato in cinque paragrafi: Comparsa e negazioneMinimizzazione e diffusioneEsplosione, Contenimento e Chiusura e controllo).

Ho spostato qui sotto il testo integrale dell’articolo di Gennaro Carotenuto, di cui avevo riportato ampi stralci in coda all’ultimo post, di qui il titolo dato a questo paragrafo di «nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima». Carotenuto individua con grande lucidità le questioni sollevate dal modo in cui si è affrontata la gestione dellepidemia, la cronistoria redatta da Fatti illustra al meglio come esse siano venute a prendere corpo, lasciandone intuire il perché: materiali documentali che non mi azzardo a portare a sostegno di quanto ho fin qui scritto sulla vicenda, ma che offro allattenzione del lettore per dargli modo di considerare in cosa mi smentiscano, prima di tirare i fili della mia riflessione (paragrafi 6 e 7).  




Gennaro Carotenuto
Tra limitazioni e sorveglianza
Il Mulino, 23.3.2020

Il virus giustifica la limitazione della libertà di circolazione. È limitata all’immediatezza delle rispettive abitazioni (non tutte confortevoli o salubri), nel comune di residenza in Italia, nella sospensione dello spazio Schengen in Europa. Andiamo a riscattare i nostri studenti Erasmus, come se d’improvviso Madrid o Lione o Colonia fossero dei luoghi estranei, se non ostili. Ognuno deve tornare al proprio posto, come se ognuno di noi avesse un suo luogo naturale e non altri, in una società che sembra non vedere l’ora di chiudersi.
Quasi come un dettaglio secondario ‒ con un dibattito frettoloso zittito dalla presunta urgenza e necessità ‒ è passata la restaurazione (momentanea?) delle frontiere tra gli Stati nazionali. È la dimensione sognata dai cosiddetti sovranisti. Fino a ieri tale posizione vedeva un mondo liberal-democratico e progressista contrapporvisi con vigore. Oggi, di fronte alla cogenza del morbo, quel mondo ne prende atto, nella speranza di non essere di fronte a un cambiamento strutturale del modo di vivere che abbiamo ereditato da Altiero Spinelli.
Da un giorno all’altro, quello che consideravamo un valore fondamentale corre il rischio di finire tra parentesi. La mozione d’ordine sociale che il morbo impone trova consenso generalizzato nell’opinione pubblica. È una messa in riga che ricorda quella – epocale, qui non siamo a tanto – che vide il movimento dei lavoratori, che pure aveva discusso per settant'anni di internazionalismo proletario, votare i crediti di guerra non appena la patria chiamò, nel 1914. E così gli operai francesi andarono a sparare contro i tedeschi e viceversa. La ricreazione era finita.
L’articolo 16 della nostra Costituzione prevede che la libertà di movimento valga «salvo le limitazioni che la legge stabilisce per motivi di sanità o di sicurezza». Oggi è sospeso un diritto così basilare da non essere mai stato in discussione (per chi ha un passaporto comunitario). Ancora un mese fa sarebbe stata una distopia che un italiano non fosse libero di scollinare l’Appennino. Molti hanno attaccato duramente Giorgio Agamben per la sua preoccupazione sulla vigenza oggi di uno «stato d'eccezione» e sui rischi per la democrazia in Europa prodotti dal Coronavirus. Alcune di queste critiche – penso a un articolo di Paolo Flores D’Arcais su «Micromega» – sono figlie di una cultura profondamente autoritaria che, di fronte al nemico esterno, obbliga a stringersi a coorte. Sui giornali, sui social, nel dibattito pubblico, invale improvvisamente un linguaggio militaresco. Siamo in guerra, si dice, e il virus è il nemico. I medici sono eroi (e lo sono), e chi si sottrae un disertore (ed è opinabile).
Oggi in Italia è l’opinione pubblica stessa, impaurita giustamente dal virus, a invocare maggior segregazione, più controlli, ulteriore coercizione per i presunti trasgressori. L’adesione di massa al dispositivo disciplinare della quarantena (che è un succedaneo del dispositivo securitario sull’immigrazione, sul quale è costruito il consenso delle destre, con le sinistre in continua difensiva) sta comportando fenomeni di delazione o di criminalizzazione per chi starebbe violando il decreto #iorestoacasa. La stigmatizzazione di quelli che per un motivo o per l’altro escono di casa, trattati come irresponsabili se non come veri e propri untori, ha dei tratti che ricordano quella dei sieropositivi al tempo dell'esplosione dell'Aids. Gli omosessuali, già oggetto di discriminazione, erano colpevolizzati per il male che era addebitato alla loro presunta devianza. «Le vite degli altri» sono sotto scrutinio. Il campione d’atletica Yeman Crippa, speranza olimpica azzurra, è stato denunciato dai vicini, e la costanza salutista dei podisti stigmatizzata dai più.
Alcuni governatori, non solo di destra, hanno preteso l’esercito in strada, non con funzioni ausiliarie nella lotta al morbo, come sarebbe ragionevole, ma per controllare i movimenti di una frazione della popolazione. I militari in strada, in democrazia, con funzione di ordine pubblico, restano una patologia della quale preoccuparsi, soprattutto di fronte alla crisi sociale ed economica, probabilmente la più grave della Repubblica, che non tarderà a esplodere e che già coinvolge milioni di precari e lavoratori informali.
Di fronte all’epidemia, l’imperativo di sorvegliare, e possibilmente punire, ottiene un consenso di massa. Sembra sfuggirci che l'epidemia, l’allarme, l’urgenza, la paura, così posti, rappresentano la realizzazione di un sogno autoritario, inducendoci a sottoporci volontariamente a misure coercitive. Di fronte alla crudeltà del morbo la risposta non può essere che unanime, immediata, urgente. Ma se non è tempo di pensare, resta solo il tempo di obbedire, che è sostanzialmente quello che stiamo facendo. L’ira delle autorità – e, a cascata, l’ira di molti cittadini – è convogliata contro pochi flâneur (costretti magari a vivere la quarantena in ambienti malsani), ai quali senza mezzi termini è addebitata la persistenza del contagio.
Solo con estrema fatica si è invece fatta strada la coscienza che, sino a oggi, al centro del cratere, nelle province di Milano, Brescia e Bergamo, mezzo milione di lavoratori sono stati costretti a muoversi, infettarsi e infettare per recarsi in fabbrica, in omaggio all’ideologia della produzione. Con estremo ritardo, in assenza di un confronto reale tra capitale e lavoro, da mercoledì 25 qualche fabbrica in più chiuderà. Difficile dire se sia stata una decisione tardiva del governo presieduto da Giuseppe Conte o una concessione di Confindustria.
Intanto tutti crediamo – o forse già solo speriamo – che qui e ora la quarantena sia necessaria come modo per tornare al più presto possibile alle nostre vite di prima. Ma come può la quarantena essere rappresentata come una mera misura di profilassi, che oggi vige e domani cadrà senza lasciare tracce? La quarantena di massa per il Covid19 è già ora il singolo evento biopolitico più importante della storia della Repubblica e non solo.
Domenica 22 marzo un miliardo di persone (né tutte uguali, né tutte sulla stessa barca) sono costrette nelle loro case, dalla favela della Rocinha a Río de Janeiro al Bosco verticale di Boeri a Milano. E qui vengo al punto. Il Coronavirus è davvero un evento eccezionale? O è solo il primo episodio tangibile in campo sanitario dell’ecocidio che stiamo già vivendo, e che in questo momento vede molteplici fenomeni drammatici, incluso l’inverno appena trascorso più caldo e siccitoso della storia (a febbraio in Italia +2,8 gradi e -80% di precipitazioni rispetto alla media), o la drammatica invasione delle locuste in Africa orientale?
Come per l’«acqua alta» a Venezia, moltiplicatasi come fenomeno negli ultimi anni, il Covid19 appare essere più un nuovo cedimento della biosfera che un evento eccezionale. La pandemia è destinata a durare molti mesi, secondo molteplici studi anche un paio d’anni. Sappiamo tutti che misure coercitive come la quarantena non sono sostenibili socialmente oltre un periodo di poche settimane. In quanto fenomeno destinato a ripetersi, nella stessa forma pandemica o in altre forme imprevedibili, è pensabile che le libertà fondamentali possano coesistere con urgenza, paura, pericolo di vita? O quelle libertà saranno vittime sacrificali, con il nostro consenso, in una nuova temperie storico-ambientale che non saprà più considerarle intangibili? È la pandemia il male assoluto al quale tutto è sacrificabile, mentre il modello economico vigente continua a non essere in discussione? Quanta parte dell’opinione pubblica, così incline oggi a obbedire (l’obbedienza è deresponsabilizzante), non considera un gran sacrificio rinunciare a pezzi di libertà?

venerdì 27 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (5)


5. È estremamente impegnativo assumere, con Guy Debord, che lo spettacolo «è il momento storico che ci contiene» (La Société du Spettacle, 11) come «visione del mondo che si è oggettivata» (ibidem, 5), perché questo implica che l’evento non ci si offre, ma ci prende, e non in senso figurato, come quando diciamo che quel tal romanzo ci cattura, ci avvince, ma in senso letterale: l’evento ci fa suo, ci include, ci assorbe, come spaccato di un «rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini» (ibidem, 4).
Estremamente impegnativo, questo assunto, perché la sempre maggiore difficoltà che si ha nel distinguire una fiction da un reality, un catastrophic movie da un articolo de The Economist, non può lasciarci indifferenti, ma ci obbliga a una scelta analoga a quella che Morpheus offre a Neo (Matrix, 1999), e Marx al lettore de Die deutsche Ideologie (I, I, 1): mandar giù la pillola blu dello «jetzig Zustand» o quella rossa della «wirkliche Bewegung»? In altri termini: sentirci liberi e responsabili fruitori dello spettacolo che sembra scorrerci davanti o spalancare gli occhi sulla terribile realtà che ci rivela il farne parte (appartenergli)?
Tanto più terribile, questa realtà, se poi, con Richard Dawkins, assumiamo che il «meme» che ce la rappresenta (ce ne dà informazione), «proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite», è quello che ci ha «letteralmente parassitato», trasformandoci in «un veicolo per la [sua] propagazione» (The Selfish Gene, XI).
C’è chi ha descritto in modo assai brillante il modo in cui l’informazione prende forma di epidemia e, in un mondo globalizzato, di pandemia, coniando pure il termine che ne sottolinea la stretta analogia: «infodemia». Si tratta di David Rothkopf, che in un suo saggio breve (When the Buzz Bites Back The Washington Post, 11.5.2003) scrive: «A few facts, mixed with fear, speculation and rumor, amplified and relayed swiftly worldwide by modern information technologies, have affected national and international economies, politics and even security in ways that are utterly disproportionate with the root realities»Anche in quel caso l’«infodemia» aveva per oggetto unepidemia (Sars), anche in quel caso a sostenerla era un virus (Sars-coV), anche in quel caso l’«infodemia» correva il rischio di far danni «far greater than the disease itself».
«Over the past two years – scriveva David Rothkopf – information epidemics have left many airlines and the global tourism industry in intensive care. But their future effects may be greater still. Unchecked, they could usher in a period of profound new forms of economic inefficiency, opportunities for the irresponsible and for demagogues to practice new forms of social disruption or manipulation, and a set of serious new problems for policymakers dealing with challenges from public health to international affairs». Diciassette anni dopo, sembra una profezia o il plot di un fumetto distopico? 
Vediamo più in dettaglio: «These Internet- or media-borne viruses create global panics, trigger irrational behavior, blur our vision of important underlying problems, strain our infrastructure, buffet markets and undermine governments». Direi dia un quadro abbastanza fedele dello spettacolo che non ci è stato offerto ma ci ha preso (una «visione del mondo che si è oggettivata», come si è detto).
Ma in cosa consiste? «It is a complex phenomenon caused by the interaction of mainstream media, specialist media and internet sites; and “informal” media, which is to say wireless phones, text messaging, pagers, faxes and e-mail, all transmitting some combination of fact, rumor, interpretation and propaganda. It can be rendered more difficult to understand by multiple languages, cultures and attitudes toward the free and open flow of information. It involves consumers of information ranging from officials to private citizens who have varying abilities to see the whole information picture, varying degrees of sophistication about what to do with the information they have, little opportunity to authenticate data before acting on it, and little if any training in understanding or controlling the rapidly changing information picture».
Cosa ne consegue? «The result is distortion, confusion and a sometimes profound incongruity between the underlying facts and their implications. For example, without minimizing the potential danger posed by Sars, it is worth remembering that the number of deaths from the disease worldwide is still a tiny fraction of, say, the number of Americans who choke to death each year on small objects, which is estimated at 4,700. Yet, fear of the disease has devastated Asian economies».
Diciassette anni dopo, ci risiamo, ma stavolta la «devastation» si annuncia assai più ampia. E tuttavia farlo presente sembra voler «minimize the potential danger posed» dal Sars-coV-2: opporsi all«infodemia» sembra voler favorire la pandemia. In altri termini, chi contesta lo spettacolo corre il rischio di beccarsi una querela dal Patto trasversale per la scienza, una scienza che, dopo aver smarrito le virtù di umiltà e prudenza, esibisce i muscoli da bouncer sulla soglia della realtà-spettacolo, dove va in scena la stucchevole retorica che si compiace di mettere lAdagio di Samuel Barber come sottofondo al servizio che au ralenti mostra una colonna di camion carichi di bare, e sul quale poi Myrta Merlino spalmerà tutto il suo sentimentalismo.

mercoledì 25 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (intermezzo)


Avete letto sull’ultimo numero de The Economist l’articolo di Kim Sung-su (Covid-19 in Italy)? Dice che fin dall’inizio è stato chiaro che si avesse a che fare con una «unknown illness» causata da un «aggressive virus». Buio totale sul paziente 0, ma si era subito individuato il paziente 1: si sapeva che, appena s’era sentito male, era andato «to an emergency room, where he is isolated with an unknown flu», ed è qui, però, che «the contagion is passed on to others who spread it throughout the city», sicché in pochi giorni «many more people show pronounced symptoms», con quanto è ovvio ne seguisse, e cioè «rumours of the outbreak spread», «people begin to panic» e, in due o tre settimane, «hospitals become overwhelmed».
Assai benevolo col governo, Kim Sung-su, riconoscendogli che non era facile decidere il da fare: dice che, «while disparaging the need for a quarantine, administrators and politicians are confronted with a catastrophic situation», non c’è da biasimarli che siano stati costretti a ricredersi mettendo in atto misure assai severe. Di fatto – dice – ora che «the quarantine is initiated» e «those displaying symptoms are further isolated in an infected quarantine zone», i risultati si fanno attendere, il che fa temere che a breve, dopo tanto cantare dai balconi, agli «uninfected» possano girare i coglioni col rischio che scendano in strada e «riots break out».
Il pezzo chiude con una domanda inquietante: si avrà una «deadly gun battle between the mob and the soldiers», visto che per tenere la gente chiusa in casa si è pensato a impiegare l’Esercito? E qui onestamente mi pare che si esageri, no? Quasi quasi mi metto in posa da blogger militante e vi invito ad inondare di proteste la mail-box di letters@economist.com. Prego, fate copia-incolla e spedite: «Sir, ma quella merda di Kim con chi crede di avere a che fare? Noi siamo un popolo serio e responsabile, crediamo nelle istituzioni e sappiamo fare sacrifici, potremmo resistere anche due anni chiusi in casa...».

Fermi, non lo fate, scherzavo: i virgolettati li ho presi dalla scheda che en.wikipedia.org dedica a The Flu (South Korea, 2013), di cui Kim Sung-su, quello che vi ho spacciato come firma dellautorevole settimanale britannico, è stato il regista: un catastrophic movie daltissimo livello, che già dal decimo minuto ti pare di esserci dentro e, sarà che tosse e starnuti sono in stereofonia, ti senti immerso in una nuvola di goccioline assassine, e poi posti di blocco ovunque, elicotteri, droni, cadaveri a pacchetti e sfusi, e poi il buono che si immola, il cattivo che approfitta della situazione... E ti prende, cazzo se ti prende. Ti prende al punto che dimentichi che è un film e ti viene da pensare: «Nulla sarà più come prima»Insomma, uno spettacolo. Quando potete uscire, procuratevelo, non ve ne pentirete. Ovviamente se amate il cinema di evasione.

domenica 22 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (4)


4. Poco meno di 5.000 morti, al momento. Poco più della metà di quanti lanno scorso morirono dinfluenza. In cosa è lecito, e in cosa no, comparare, di là dai numeri, i morti dellanno scorso a quelli di questanno, data levidente differenza del modo in cui ce ne fu data notizia allora e ce nè data oggi?
In entrambi i casi, cè di mezzo un virus. In entrambi i casi, è controverso in che misura il virus sia assassino di suo e in che misura sia favorito da vecchiaia e altre malattie, sta di fatto che in entrambi i casi la percentuale di morti giovani e senza altre malattie è estremamente basso (sui poco meno di 5.000 di questanno il report dellIss del 20 marzo ne dà solo 6: almeno in questo – solo in questo, se si vuole – l’influenza dello scorso anno ha fatto molto peggio). Questione estremamente interessante, dunque, questa del «per» e del «con», ma i morti sono morti, sia che per il 2019 si debba andare a cercarne il numero sul sito dellIss, sia che per il 2020 ci venga risparmiata la fatica con un martellante aggiornamento minuto per minuto, agonia e cremazione in diretta. Di sicuro cè che, a voler morire col conforto della generale partecipazione emotiva, non conveniva farlo lanno scorso: rimandare duna dozzina di mesi avrebbe assicurato cordoglio istituzionale, milioni e milioni di prefiche a gratis, funerali in diretta e, soprattutto, il palpito di Lili Gruber.
Ma oltre a questa differenza, che tuttavia non è da poco, ce ne sono altre, e sono tante. Del virus influenzale – lanno scorso erano due, lA(H1N1)pdm09 e lA(H3N2) – sappiamo un sacco di cose, mentre del Sars-coV-2 (Covid-19 è l’affezione che induce) sappiamo com’è fatto (struttura, componenti, sequenza genomica), ma troppo poco ancora relativamente a ciò che, cedendo all’antico e irrinunciabile vizio di antropomorfizzare tutto, troviamo giusto chiamare carattere, comportamento, tattica, ecc.
Unaltra differenza, e bella grossa, è che per il virus influenzale abbiamo un vaccino, mentre per questo coronavirus no. A tal riguardo, chi storce il muso a sentire la Capua o la Gismondo correlare il Covid-19 allinfluenza dovrebbe chiedersi quanti morti farebbe ogni anno il virus influenzale, se con una copertura vaccinale del 57% ne fa 8.000. Niente, è domanda che pare non abbia alcuna ragion dessere. Limpressione è che avere a disposizione un vaccino anti-influenzale, che peraltro pochi sanno non rende immuni al 100%, autorizzi a considerare gli 8.000 morti come problema senza soluzione, la cui causa del decesso, dunque, sarebbe da accettare come «normale» causa di morte, routine del morire che non ha niente di particolare per meritarsi un riflettore. In fondo accade pure per i morti sul lavoro, che nel 2018 sono stati 1.218 (limitandoci ai casi ufficialmente dichiarati tali), ma di certo non hanno avuto il quarto dattenzione che i media hanno finora dedicato ai morti «per» e/o «con» Covid-19: morti che diremmo «strutturali», data lalmeno apparente intangibilità della «struttura», e che in fondo hanno avuto buon gusto e discrezione di non affollare un mese solo e una sola regione, morivano con la «normalità» con cui si muore in una guerra a bassa intensità.
Basterebbero questi elementi a motivare (e diciamo pure giustificare) la spettacolarizzazione dellepidemia in corso, ma, senza comprendere quale funzione abbia – in generale e nello specifico – lo spettacolo che ce la rappresenta, siamo ancora lontani dal capire perché, e come, il sasso, rotolando, possa diventare valanga, travolgendo tutto e tutti, al punto dal non poter neppure immaginare che dietro la tragedia ci sia un ordito. Sarebbe stato necessario un piano sofisticatissimo, bastava una comparsa fuori posto e addio valanga. Perché è chiaro – e nessuno può negarlo – che da una valanga siamo travolti. Resta solo da capire se si sia lasciato rotolare il sasso nel modo in cui è rotolato per ignavia o in obbedienza alla logica che mette lemergenza al servizio dello spettacolo, che – è il caso di precisarlo subito, e dando la parola a Guy Debord, la guida che ci accompagnerà in questo paragrafo – «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini», e che «non può essere compreso come labuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini [ma] piuttosto [come] una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta [e insomma] di una visione del mondo che si è oggettivata»In tal senso, è del tutto secondario cosa lo spettacolo metta in scena, perché linteresse che lo sostiene risponde ad uneconomia (in senso lato) che ha immutabile ratio intrinseca, in guerra e in pace, quando il re della finanza è lorso e quando è il toro, quando torna conveniente laccumulo e quando la redistribuzione.
Se il lettore è disposto a rinunciare al pregiudizio che nello spettacolo vede solo intrattenimento ricreativo, per coglierlo come ri-creazione della realtà, vedrà che siamo nello stesso girone in cui tempo fa, su queste pagine, abbiamo trovato il terrorismo. Lì la guida era Brian Jenkins, unanimamente considerato massimo esperto del problema, e anche lui, come farà Guy Debord, ci chiedeva lenorme sforzo di mettere da parte le passioni, dicendoci che «terrorism is theater» e che «terrorists want a lot of people watching, not a lot of people dead», sicché le passioni finiscono non solo per celare la natura del problema, ma per esserne parte, e decisiva, se non determinante: qui, nel caso del sasso, con quel che sta tra abbrivio e valanga.
Ci chiede troppo, Guy Debord, quando ci invita a considerare che, «nellinsieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante» e che «non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo» al punto da poterlo definire come «il momento storico che ci contiene»?
Suona un po apodittico, è vero, sarà il caso di chiarire. Lo faccio fare a Mario Perniola, che in due testi (Contro la comunicazione, Einaudi 2004; Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009) ha descritto in modo magistrale le ragioni che fanno dello spettacolo, e della comunicazione massmediatica che ne è il «theater», realtà tanto pervasive da riuscire a sostituirsi, dopo averla distorta e annullata, a quella dei fatti che si è presa cura di rappresentarci. Citare i passaggi salienti dei due testi imporrebbe un larghissimo uso del virgolettato, mi limiterò a una sintesi.
Mario Perniola dice che solo in tempi assai recenti lumanità s’è posta la domanda sul senso di ciò che viveva individualmente e collettivamente: la risposta era data in partenza dalla condizione sociale, dal sapere tramandato e dai rituali. Il relativo benessere che ha segnato gli ultimi due secoli e lo sviluppo delle scienze sociali hanno consentito, per certi versi imposto, che la domanda fosse formulata e che la risposta, esatta o no, fosse il progresso: si era al mondo per progredire, il motore della storia era razionale e progressivo, ogni regressione era solo episodica, se non apparente.
Via via che ci si allontanava dalla seconda guerra mondiale, che col suo esito ha segnato il trionfo di questa concezione, essa ha cominciato ad andare in crisi: «traumi» e «miracoli» hanno messo in discussione la linearità del processo storico con la loro inspiegabilità e la loro imprevedibilità (il maggio francese del 1968, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino del 1989, l’attentato alle Twin Towers del 2001). Stupore, eccitazione, sconcerto: stati d’animo che hanno cercato, e trovato nei media, la soluzione formale della risposta nella postura dello spettatore che si misura con la suspense e il colpo di scena, il deus ex machina e l’happy end, il flash back e il déjà vu. In altri termini, la comunicazione ha dato vita a un simulacro di partecipazione all’evento che, da un lato, consente di sentirsi immersi in esso solo a patto di restarne fuori e, dall’altro, impone che esso si esaurisca nella sua rappresentazione: siamo l’evento in quanto platea rappresentata in scena. Perciò non ha nulla di contraddittorio o di paradossale affermare, come fa Mario Perniola, che «la comunicazione aspira ad essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende anche e soprattutto l’antitotalitarismo. È globale nel senso che include anche ciò che nega la globalità».
Nel passare a Guy Debord, comunque, è importante chiarire che «comunicazione» e «spettacolo» non sono coincidenti, perché l’una è forma e l’altro è contenuto, come ci illustra il § 24 de La Société du Spectacle: «Se lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata».
Altrettanto importante è aver chiara la sostanziale univocità degli elementi che in tale contesto sembrano diversificarsi e perfino contrapporsi nell’offrirsi come ventaglio di opzioni: «La falsa scelta nel campo dell’abbondanza spettacolare, scelta che risiede nella giustapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli (principalmente significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente esclusivi e ramificati, si sviluppa in lotte di qualità fantomatiche, destinate ad appassionare l’adesione alla trivialità quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei regionalismi o dei razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità delle posizioni gerarchiche nel consumo. Così si ricompone l’interminabile serie dei contrasti derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle elezioni. Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le cose che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse» (§ 62).
Ancor meglio nei Commentaires sur la Société di Spectacle: «Il potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario, centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno una politica-spettacolo, una giustizia-spettacolo, una medicina-spettacolo o tanti altri “eccessi mediali” così sorprendenti. […] Con una certa frequenza, i padroni della società affermano di essere serviti male dai loro dipendenti mediali; più spesso rimproverano alla plebe degli spettatori la tendenza ad abbandonarsi senza ritegno, in modo quasi bestiale, ai piaceri dei mass media. In questo modo si nasconderà, dietro una moltitudine virtualmente infinita di presunte divergenze mediali, quello che è al contrario il risultato di una convergenza spettacolare voluta con notevole tenacia» (III).
Ma per il prossimo paragrafo, dove vedremo come tutto questo si fa esemplare nella gestione mediatica dell’epidemia di Covid-19, torna utile anche un altro punto: «Si sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che l’economia ha cominciato a fare apertamente guerra agli umani. […] Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo, ha soppresso le ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche dell’attività dei “ricercatori”. Non si chiede più alla scienza di capire il mondo o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa» (XIV). In questo frangente, come la monaca di Monza, «la sventurata rispose»