6. Più
che del Covid-19, qui ho discusso di come se n’è discusso. La cosa
era nuova, se ne sapeva poco o niente, era prevedibile che offrisse
i suoi aspetti oscuri alle interpretazioni, che per loro natura sono
bellicose, e di fronte al nuovo si bipolarizzano, scendendo in campo
intenzionate a vincere o a morire, e dunque non ammettono di essere
indebolite da dubbi o critiche: ciò che è nuovo, e oscuro, è in sé
e per sé fatale, e dunque, quando arriva, «nulla
sarà più come prima» (nulla
deve essere come prima), perché ogni destinazione è destino; oppure
no, perché il fatale è solo l’artefatto della sorpresa dinanzi
all’imprevisto, che a posteriori risulta sempre prevedibile,
perché, dimentica del passato, la storia procede di sorpresa in
sorpresa e dunque «tutto
sarà come prima» (tutto
deve essere come prima). Armate dei loro più taglienti argomenti e
chiuse nelle loro più luccicanti corazze etico-estetiche, abbiamo
visto queste due posizioni, referenti dei rispettivi umori, menarsi
di brutto.
Al momento, è la prima che sembra avere la meglio, ma
d’altronde va sempre a questo modo, all’inizio. E ve n’era
indizio prim’ancora che si venisse alle mani, perché, quando i
morti da Covid-19 erano ancor meno di 1.000, già serpeggiava nei
talk show la vulgata del fatale come destino sociale: non tutto verrà
per nuocere – si mormorava fuori dai denti – la competenza
riprenderà la persa autorità, l’emergenza ripristinerà la
sacrosanta catena di comando, le plebi torneranno a chiedere pane
senza pretendere anche rose, e la guerra ci farà riscoprire l’amor
patrio, avremo qualche eroe che illustrerà le smarrite virtù, e
«nulla
sarà più come prima»,
nel senso che tutto sarà com’era prima del prima. Cionondimeno,
come d’altronde regolarmente segue, il prima del prima fa fatica a
diventare il dopo, e alla fetecchia che ci consigliava di leggere le
pagine che il Manzoni dedica alla peste già s’appresta la
fetecchia che ci consiglia di passare alle pagine che il Manzoni
dedica all’assalto dei forni.
Quando non si hanno interessi in
gioco in questo genere di guerre (e non parlo solo di interessi
materiali, ma anche di quelli psicologici, quelli che lo psicologo
pudicamente chiama fattori motivazionali), non si può scendere in
campo senza casacca, perché ogni schieramento ti considera far parte
di quello opposto, e in più vilmente camuffato da neutrale. A nulla
vale esordire, come ho fatto con un tweet del 5 marzo: «State
esagerando. Tutti. State esagerando».
Guai, poi, a far presente allo schieramento che prende l’iniziale
sopravvento che, col trattare il Covid-19 come qualcosa di mai visto
prima, «la
soluzione diventa problema»
(tweet dell’8 marzo). Peggio ancora chiedersi ad alta voce, come ho
fatto col primo dei post di questa serie, «perché
il Covid-19 sta
godendo
di una copertura mediatica tanto spropositata?».
Domanda posta male, convengo, perché col crescere del numero dei
contagiati (noti) e dei morti (da/con), e ancor più col farne
oggetto di unica questione degna di attenzione, era inevitabile
offrire il fianco all’obiezione cui qui do voce con le parole di un
amico che lascio nell’anonimato: «Continui
a credere che sia poco più di un’influenza?».
Gli amici sono amici e non si possono mandare a fare in culo, occorre
un minimo di gentilezza anche quando ti mettono in bocca cose che non
hai mai detto: «E
dove l’ho mai scritto? Io mi son chiesto solo perché 8.000 morti
per/con influenza ogni anno non abbiamo mai avuto tanta attenzione. E
poi, con Dawkins, con Debord, con Jenkins, con Perniola e con
Rothkopf, ho cercato di capire le ragioni del perché, ma soprattutto
del come, l’attenzione sul Covid-19 si stia prendendo più vite del
Covid-19 stesso».
Così dove, riguardo al punto in cui dicevo che il Covid-19
impone(sse) misure di contenimento, sì, ma non autorizza(sse)
all’isteria, né a provvedimenti che, per evitare 5-10-20-30.000
morti, possono far morire di fame mezza Italia, un altro amico mi
scriveva: «Potevi
dirlo in un altro modo, vedrai che quel “morire di fame” ti
procurerà noie».
Ma sai quanto me ne fotte, caro mio, mai stato sul mercato delle
idee, mai avuto bisogno di rendere appetibili le mie e, quando supero
i 5.000 lettori a post, comincio a sospettare di aver scritto
cazzate.
Tanto stia a premessa di quanto, in questo e nel successivo
paragrafo, starà a tentativo di tirare i fili e chiudere col
Covid-19 (conto di dedicarmi al saggio su Messerschmidt che sta a
stagionare nelle bozze da dieci anni). Qui affronterò due o tre
questioni marginali, ma poi nemmeno tanto, relative a termini che
userò del settimo e ultimo paragrafo, e sui quali non vorrei
passasse qualche fraintendimento. E dunque.
La
catastrofe come disegno
Nel
«complottista»,
che è «chi
tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un
complotto»
(Devoto-Oli), v’è un’implicita professione di fede
nell’esistenza di intelligenze umane in grado di ordine piani che,
nel caso dei «complotti»
(da «complicitum»
→
«complictum»,
che alla lettera è «viluppo»,
e in senso figurato rimanda a ciò che è «oscuro»),
sono sempre assai «complessi»
(da «complexum»,
che alla lettera è «intreccio»,
ed estensivamente «trama»),
come d’altronde si rileva dal considerare che nell’avvolgere di
«cum-plico»
e nell’intrecciare di «cum-plecto»
sta un gran bel togliere linearità a ciò che è «planum».
Avrei potuto chiamarla convinzione, ma, se ho preferito parlare di
fede, è per la stretta parentela che v’è tra il complottista e il
credente. Per entrambi, infatti, tutto ciò che accade («ogni
evento»)
non sarebbe altro che
la realizzazione di un disegno destinato a rimanere imperscrutabile a
chiunque neghi l’esistenza
dell’intelligenza
che lo ha concepito. Intelligenza superiore (poco importa se
superiore a quella umana, nel caso del credente, o alla gran parte
degli umani, nel caso del complottista), perché in entrambi i casi
si tratta di un’intelligenza
in
grado di veder sempre realizzato il suo disegno (in virtù della sua
onnipotenza, in un caso, o di un potere comunque efficace,
nell’altro).
Si obietterà, e a ragione, che il
buon fine cui mira chi ordisce un complotto non ha nulla a che vedere
col «buono»
che Dio vede in quel che ha creato (per sette volte, nel Genesi,
«e
vide che era cosa buona»),
il che non toglie, tuttavia, che il complottista e il credente vivono
entrambi in una realtà che si sono costruiti («ogni
evento»,
l’uno, il Creato, l’altro), ma che ritengono sia stata costruita
per loro, e che in entrambi i casi (paranoia, in uno, fede,
nell’altro) è inattaccabile. Costruzioni in tutto simili, fatta
eccezione per una differenza che però non è da poco: «paranoia
is faith with a minus sign in front» (Derick
Parsons, Cognitive
Behavioral Therapy vs Neurolinguistic Programming,
2019). Nella fede ci si sente sempre al sicuro; nella paranoia, mai.
Su Dio puoi fare affidamento sempre (volendo, ovviamente), anche
quando ti sottopone a prove tremende; sospetto e diffidenza, invece,
non devono mai abbandonarti dentro la trama in cui ti muovi, anche
quando in apparenza non mostra pericoli (meno ne mostra, più ne ha:
non si ha complotto senza una vittima). E tuttavia il delirio
persecutorio non è esclusivo della paranoia del complottista: se
alteri l’ordine del suo Creato, Dio ti punisce con diluvi,
carestie, cavallette e peste. È il meme della catastrofe naturale
per punizione divina, di cui parlavo nel terzo paragrafo. Se, però,
il complottista non è stato in grado di offrirci un disegno in cui
la pandemia fosse decisa da una Spectre del terrore (non è riuscito
ad andare oltre l’incidente del virus costruito in laboratorio per
essere impiegato in una guerra batteriologica), il credente (qui
inteso come chi allo status quo conferisce gli attributi di Dio e/o
della Natura) è stato in grado imporre la vulgata del Covid-19 come
evento metasanitario, come polmonite virale che ci parlasse di tutti
i nostri mali, e in primo luogo di quelli sociali.
Lo
spettacolo della catastrofe
Anche senza voler far propria l’ipotesi debordiana dello spettacolo
come «Weltanschauung
divenuta effettiva, materialmente tradotta»,
«visione
del mondo che si è oggettivata»,
«momento
storico che ci contiene», non
sfuggirà a nessuno che la rappresentazione del Covid-19 ha sembrato
tendervi fin dall’inizio,
e in buona sostanza vi è riuscita.
Infatti, il virus c’è; e c’è
un’enorme quantità di contagiati (cosa ragionevolmente desumibile
fin dall’inizio, ma per fortuna arriva un Imperial College per
dirci con estrema precisione che i positivi, in Italia, sono tra il
3,2% e il 26%, tra 1.850.000 e 15.500.000, e ora la desunzione ha
solidità scientifica – sì, bravi, è sarcasmo); e ovviamente
questo implica che la stragrande maggioranza sia asintomatica, e mai
saprà se è positiva o meno al Sars-coV-2 (pochi tamponi, servivano
ai calciatori e alle loro signore – sì, bravi, sto insistendo col
sarcasmo); e però ci sono i morti, e tanti, ancorché in stragrande
maggioranza molto anziani e molto malati (niente sarcasmo, qui,
perché bisogna pur morire di qualcosa, ma che si muoia di vecchiaia
passi, e passi pure che si muoia di diabete, di acciacchi
cardiovascolari e di insufficienza polmonare cronica, ma di
vecchiaia, diabete, acciacchi cardiovascolari, insufficienza
polmonare e Covid-19 dispiace assai di più; poi, bel bello, arriva
il presidente dell’Istat
e ci dice che le morti per malattie respiratorie «nel
marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220»
e che «incidentalmente
si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per
Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020»,
che francamente si poteva pure dire prima); e per evitare che gli
asintomatici, che non sanno di essere positivi, vadano in giro ad
ungere, aumentando il numero dei morti, sono necessarie misure di
contenimento, a pareggiare i conti con quelli che si sono beccati il
virus nel pronto soccorso preso d’assalto al primo serpeggiar del
panico; e per tappare i buchi di una sanità pubblica, fatti dai
tagli dei passati governi di centrodestra e di centrosinistra,
qualsiasi governo – di centrodestra, di centrosinistra o
di-a-da-in-con-su-per-tra-fra – può solo minacciare lanciafiamme e
multe da 3.000 euro a chi passeggia in solitudine, ma senza valido
motivo; e tutto questo offre notevoli spunti anche al più sfessato
degli sceneggiatori; se tutto questo, insomma, è nei fatti, è
naturale che la sua rappresentazione prenda, includa, assorba, ci
faccia partecipi come platea, ci chiami in scena a guardare lo
spettacolo in cui siamo comparse mute o tutt’al più rumoreggianti
sui social, basso continuo della colonna sonora che scorre sotto gli
scazzi tra il Burioni e la Gismondi, sotto l’annuncio
dell’Apocalisse di don Fanzaga e la speranza di Francesco che il
picco della curva si abbia al Venerdì Santo e a Pasqua abbia un
miracoloso crollo ad accenderci in testa una pentecostale fiammella
di conoscenza.
Un bel nastro di Moebius, non c’è che dire: fatti e
interpretazioni hanno la stessa faccia, siamo lo spettacolo che
guardiamo, omogeneo a dispetto delle sue contraddizioni interne,
perché tutte funzionali al teatro del terrorismo (Jenkins) e
all’infodemia
del fatale (Rothkopf).
Quanto di questo spettacolo non siamo spettatori, ma comparse che per
giunta lavorano a gratis, ce lo illustra la famosa circolare
aziendale in video di Urbano Cairo, che dello spettacolo non è il
regista, ma attore, perché mera rotellina del sistema che embrica
informazione-intrattenimento, con pubblicità-consumo e con
produzione-capitale. Guardando quel video dovrebbe esser chiaro: c’è
una tv che, risparmiando in spese per lustrini, può vivere 24 ore al
giorno di giornalisti che intervistano giornalisti sulla questione
che ha maggiore appeal.
Mia
moglie mi sfotte
Mia moglie mi sfotte, dice: «Se
ti becchi il virus, e muori, sicuramente arriveranno un sacco di
prese per il culo a commento dell’ultimo
pippone che avrai postato: che faccio, le cestino o le edito?».
Hai voglia a dirle che non sono Don Ferrante, che la peste c’è,
e la vedo (e dico proprio «peste»,
così le mostro tutta la mia comprensione per la sua astinenza da
coiffeur e pilates).
E ora – come dicevo – cerchiamo di tirare i
fili e chiudere.