mercoledì 16 settembre 2020

Raffaele Alberto Ventura, Radical choc, Einaudi 2020





«... probabilmente questa volta è davvero troppo tardi...»
(pag. 308)

Ho avuto modo di leggere a fine luglio lultima fatica di Raffaele Alberto Ventura (Radical choc – Einaudi, 2020), da ieri in libreria, perché, via email, lautore me ne ha inviato una copia in coda a un breve scambio di battute riguardo a quanto avevo scritto negli otto post apparsi su queste pagine tra aprile e maggio sotto il titolo «nulla sarà più come prima»/«tutto sarà come prima». Ho avuto anche modo di rileggerlo, dunque, e per ben quattro volte, perché, al netto delle critiche che qui saranno mosse a Radical choc – e anticipo che saranno critiche assai severe – occorre innanzitutto riconoscergli un pregio che di questi tempi non è da poco: si presenta come un saggio, e lo è davvero. In ciò è, senza dubbio, lavoro assai più serio dei suoi precedenti due, Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017) e La guerra di tutti (minimum fax, 2019), che in modo anche fin troppo autocompiaciuto si adeguavano alla logica dell’intrattenimento che oggi sembra essere imperante nella saggistica italiana, e che, nel recensire il secondo dei due volumi, mi ha fatto scrivere: «Nessuna articolazione, nessuna tesi, dunque neppure lonere dellargomentazione: immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni, suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma, scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che oggi è un must per l’intellettuale à la page» (Malvino, 18.7.2019). Forse troppo duro, concedo, ma è che ne La guerra di tutti ho visto, come scrivevo, nientaltro che «una glossa a Le ultime avventure di Gummo», un thriller metafisico tra il visionario e il grottesco dato alle stampe nel 2005, in cui, trasfigurato in Violent Unknown Event, già faceva capolino leschaton che poi sarebbe diventato il chiodo fisso di Ventura.
Sia chiaro, a buon diritto egli può sostenere che, con gli altri due volumi, Radical choc chiude (chissà perché, però, scrive «apre») una trilogia, ma ciò che era atmosfera in Teoria della classe disagiata, e posa ne La guerra di tutti, qui è finalmente discorso. Non so dire quanto questa progressione sia stata scientemente programmata, ma, dovessi ricorrere a unimmagine, direi che con Radical choc siamo al «vieni, ti farò vedere le cose che devono accadere» (Ap 4, 1), mentre in Teoria della classe disagiata tutto era sospeso in un assai ambiguo «quel tempo è vicino» (Ap 1, 3), e ne La guerra di tutti cera il monito alle sette chiese della post-modernità (Ap 2, 1 – 3, 22). Importante precisare, però, che, sulle «cose che devono accadere», Radical choc ci offre due finali. LApocalisse di Ventura, insomma, è interattiva col lettore, lasciandogli la scelta dello scenario che più sattagli al suo umore. Ma di questo si dirà poi.

Si presenta come un saggio, dicevo, e lo è davvero. Non rinuncia, tuttavia, a qualche gigionismo che oggi pare indispensabile a catturare lattenzione del lettore, in primis quel mix di alto e basso che da qualche tempo sembra un dovere di chi sente la premura di stornare il sospetto di accademismo, ma in gran parte le citazioni non sono esornative, una tesi che non sia data alla personale interpretazione del lettore cè e, se pure con qualche forzatura in due o tre passaggi, cè pure unarticolazione argomentativa. Resta il problema di quel «ton apocalyptique adopté naguère en philosophie», come definito da Jacques Derrida (1983) nel suo commento al Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie di Immanuel Kant (1796).
Derrida scrive: «Kant è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono qualche beneficio […] Quale beneficio? Quale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono far paura? Vogliono far piacere? A chi e come? […] In vista di quali interessi, a quali fini vogliono arrivare con queste proclamazioni accese sulla fine imminente o sulla fine già avvenuta?»; e, facendo propria lanalisi di Kant, sostiene che si tratta di «mistagogia escatologica»: «Lescatologico dice leschaton, la fine, o piuttosto lestremo, il limite, il termine, lultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia […] Questa gente si colloca fuori dal comune, ma ha in comune questo: dice se stessa in un rapporto immediato e intuitivo con aria di mistero. […] Kant prende in considerazione tutta una lista differenziale e una linea storica di questi mistagoghi; ma riconosce a tutti loro un tratto comune: essi non mancano mai di considerarsi dei signori, degli esseri di élite, soggetti superiori, distinti, e a parte nella società».
Perché essi siano credibili, tuttavia, occorre che i segni della prossima fine (di un mondo, se non) del mondo siano altrettanto credibili. A tal fine, la forzatura è inevitabile, ma in fondo è da sempre che si fanno prognosi facendo violenza ai sintomi. Da quanto tempo i testimoni di Geova annunciano la seconda venuta del Messia e la fine dei tempi? Da quanto tempo i marxisti annunciano che le contraddizioni interne del capitalismo stanno per farlo implodere? Leschaton, daltronde, non dà costantemente ragione della sua urgenza nei momenti di crisi, seppure nella sua versione light (quel «nulla sarà più come prima» ormai diventato un luogo comune che pare appropriato pure ad ogni taglio di capelli)? Questa urgenza impone che il sintomo venga interpretato – insieme – come inedito e fatale. Sicché la seduzione o lintimidazione che lannuncio della catastrofe attende come premio implica una sorta di complicità da parte del lettore (quello che Ratzinger ha definito «anticipo di simpatia»), che non ho dubbi Ventura otterrà dal lettore che da sempre è il più comune, e cioè quello che non ha ragion dessere fuori dalla sua contemporaneità. 

Radical choc apre con una parafrasi dellincipit del Capitale di Karl Marx: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi». Una furbata o una cosa seria? Lasciamo scorrere il testo: «Viviamo in un mondo popolato da rischi. Nel corso della sua storia, la civiltà moderna si è data come obiettivo di controllare l’incertezza delegando sempre maggiori funzioni a una minoranza di individui specializzati che detiene il monopolio dei mezzi di produzione cognitiva: funzionari, tecnici, manager, intellettuali, scienziati, magistrati, periti...». Ma questo vale solo per la «civiltà moderna»? Non è così da sempre? Per le esondazioni del Nilo nell’Antico Egitto, per la peste di Atene, per decidere a Roma cosa fosse fas e cosa nefas, per interrogare le stelle sul raccolto a Tenochtitlàn, per sondare gli umori degli spiriti che aleggiavano sulla prateria navajo o sulla foresta del Borneo, il compito non era delegato a sacerdoti, oracoli, aruspici, sciamani, detentori del monopolio dei mezzi di produzione cognitiva? «Il Novecento ha segnato il trionfo di questa tecnostruttura, mostrando la sua capacità eccezionale di garantire sicurezza ma anche sviluppo: perché nella dinamica della modernizzazione la sicurezza è condizione dello sviluppo e lo sviluppo condizione della sicurezza». Questa relazione è esclusiva della «dinamica della modernizzazione»? In quale fase della storia umana si è avuto sviluppo senza sicurezza o viceversa? E quale Novecento ha segnato il «trionfo di questa tecnostruttura»? Non il primo Novecento, che in meno di trent’anni ha concentrato due immani massacri e una crisi economica senza precedenti. «Non avrebbe senso scrivere un libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili; lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare». E cosa c’è di nuovo? «Oggi il sistema tecnologico sembra fare fatica a riprodurre, in quantità e qualità sufficiente, quella stessa competenza di cui ha creato il bisogno». Oggi? Questo argomentare regge solo a ritenere loggi gravido di quell’inedito e di quel fatale che sarebbero stati sconosciuti all’ieri e all’altrieri. Solo così si può configurare come inedito e fatale lo scenario in cui, «a fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno competente nella pratica di quanto dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati: chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della minoranza istruita quella del popolo, e ai radical chic un radical choc». Scenario che, in realtà, fatale quanto si voglia, non è affatto inedito, né tantomeno ha la modernità come precondizione. Vabbè che oggi ogni acquazzone è una «bomba dacqua», ma duecentomila ghigliottinati tra il 1789 e il 1793 non sono un bello choc? Si direbbe che ogni sintomo che per Ventura fa prognosi di catastrofe imminente ci riesca solo a non riconoscerlo come ricorrente nel corso della storia, galleria di apocalissi annunciate tra aneliti palingenetici e pulsioni catartiche, tra conati chiliastici e orgasmi distopici, con un eschaton dietro l’angolo e un catechon a spostarlo dietro l’angolo successivo. Così, sì, vada per il «riflettere sulle condizioni di riproduzione e legittimazione di una specifica classe che usa la “conoscenza” come strumento di potere», ma quale classe dominante è stata in grado di potervi rinunciare?
E dunque? «La tesi sull’ascesa e la caduta dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti che verranno sviluppati nel libro. Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo così uno stiramento. Il terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione “populista”». Più che una tesi, dunque, una presa d’atto. E tuttavia egregiamente presentata come ipotesi da verificare. Può addirittura passare come onestà intellettuale, via. Poi c’è che, rispetto a tanta aria fritta che di questi tempi ci rifila la Premiata Rosticceria Einaudi, questa di Ventura almeno ha un po’ di gusto e consistenza: tempura di lessico marxiano, direi. «Proponendo un esame della contraddizione fondamentale del ciclo della modernizzazione...», e indubbiamente cè del croccante.

venerdì 31 luglio 2020

Normalità (La Grande Sineddoche / 3)


Un mese fa, via Twitter, Pier Luigi Castagnetti ci comunicò ch’era deluso: neanche la pandemia era stata in grado di cambiare «il modo di pensare degli italiani». L’aveva sperato, evidentemente. Ma invano.
Ora qui potremmo discettare a lungo se esista, o meno, un modo di pensare degli italiani e, se sì, quale sia. Fatto sta che «modo di pensare» è «atteggiamento mentale» (Devoto-Oli), «insieme di principi e di convinzioni caratteristico di qcn.» (De Mauro), e che «italiani» implica una generalizzazione che resta tale anche nel caso in cui Castagnetti avesse inteso dire, come è assai probabile, «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani», ecc. Discettarne, insomma, imporrebbe innanzitutto chiederci quanto sia corretto ridurre milioni di persone a un «qcn.».
Io credo sia corretto solo a voler concedere che esista quel «carattere nazionale» che invece per molti autorevoli studiosi di scienze sociali è mera costruzione letteraria: considerare posture, gusti, inclinazioni, tic, che peraltro lesperienza quotidiana ci mostra diffratti in infinite varianti, come fedeli e coerenti espressioni di principi e convinzioni, per sussumerli in un organico sistema etico-estetico, quello dell«eccezionalismo negativo», che, come ormai ampiamente dimostrato, è uno stereotipo da sempre funzionale a una polemica ad andamento carsico.
Su queste pagine, riprendendo la riflessione che sulla questione fu sviluppata quasi trentanni fa da Giulio Bollati (Litaliano – Einaudi, 1983), mi sono intrattenuto già due o tre volte su questo stereotipo, di cui oggi due storici, Francesco Benigno e Igor Mineo, ricostruiscono la genesi (LItalia come storia. Primato, decadenza, eccezione – Viella, 2020), a partire da Giacomo Leopardi («il più cinico de popolacci»), passando per Giuseppe Prezzolini («i cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi»), per Pier Paolo Pasolini («paese ridicolo e sinistro»), fino all«amoral familism» di Edward Banfield, in una scia di scorata denuncia di franco tenore moralistico, che spesso ha dato il segno dessere l’ultima risorsa di chi aveva perso una partita culturale e politica: era un limite antropologico a rendere gli italiani – «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani» – refrattari al superiore modello etico-estetico offerto loro dall’eroico ingegnere sociale di turno o dallintellettuale tanto più «antitaliano» quanto più innamorato dellItalia.
Storia di una lunga frustrazione, dunque, quella sintetizzata dal tweet di Castagnetti: «il modo di pensare degli italiani» non gli piace; aveva sperato che almeno la pandemia potesse cambiarlo; e in meglio, naturalmente, giacché non si dà speranza che non sia di segno ritenuto positivo da chi spera; un «meglio», che rimanda esplicitamente a una scala di valori, sulla quale «il modo di pensare degli italiani» ha da stare giocoforza di almeno una tacca sotto al modo di pensare di Castagnetti (o comunque a un modo di pensare che Castagnetti ritiene migliore). Ma abbiamo modo di sapere quale sia il modo di pensare che Castagnetti ritiene gli stia sopra di almeno una tacca? Nel tweet non vi fa cenno, dovremmo inferirlo da quanto di lui ci è noto, che – ahinoi! – è troppo poco. Pur essendo persona pubblica da molti decenni, infatti, Castagnetti è incolore come uno straccio milleusi dopo mille e un uso. Io, per esempio, ho memoria solo della volta in cui disse: «Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il Papa» (Corriere della Sera, 25.3.2009), che come «atteggiamento» mi è chiaro, ma mi lascia assai nel vago in quanto ai «principi» e alle «convinzioni». Di quale natura possono essere, per esempio, i tuoi principi e le tue convinzioni, quando devi obbedienza a un Papa che ti dice che candidarti alle elezioni non expedit, ma pure a quello che gli succede, e che invece dice che expedit, expedit eccome?
Sorvoliamo anche su questo punto, dunque, e limitiamoci piuttosto a considerare questo desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», da cui, a onor del vero, nessun essere umano è totalmente immune, ma che nell’uomo politico assume forme prossime alla smania. Comprensibilmente, sia chiaro, perché l’uomo politico – ogni uomo politico – letteralmente vive del consenso che riesce ad ottenere. Un maggioritario «modo di pensare» coincidente al suo, infatti, è la premessa indispensabile ad assicurargli che gli sia affidato il governo della cosa pubblica. Comprensibile la smania, dunque.
Questione più delicata, invece, quella relativa agli strumenti solitamente impiegati dall’uomo politico nel tentativo di ottenere un cambiamento del maggioritario «modo di pensare», che, esclusi i casi in cui voglia ricorrere alla violenza fisica, sono quelli coi quali solitamente si mette in atto il tentativo di persuadere o di convincere «qcn.» (sul fatto che tra le due cose vi sia una differenza rimando a quanto ne ho scritto qualche tempo fa, qui). Retwittando il tweet di Castagnetti, lho commentato a questo modo: «Un altro che ci aveva fatto un pensierino, e ora è deluso. Non hanno argomenti per “cambiare il modo di pensare” al prossimo, ma ne hanno una smania incontenibile: se la carota non basta, se il bastone non si può più, speriamo in un’epidemia». In un tweet, si sa, ci va tutto e niente. Dal mio restava fuori quanto qui proverò a spiegare relativamente a quel desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», che ho concesso sia di ogni essere umano, e che in qualche misura dà ragione dell’assunto che fa di ogni uomo un aristotelico πολιτικόν ζώον. Io credo che il desiderio si trasformi necessariamente in smania quando la πολιτική come forma di cittadinanza, di partecipazione alla vita della πόλις, si trasforma in Politik als Beruf. Il riferimento al saggio di Weber, qui, sta a chiarirci che «professionista della politica» non è solo l’uomo di governo, il dirigente di partito, il parlamentare o qualsiasi altro eletto a questa o quella carica, ma, in senso lato, chiunque, «seppur in posizioni modeste dal punto di vista formale», eserciti (o aspiri ad esercitare) «unazione sugli uomini», partecipi (o aspiri a partecipare) «al potere che li domina», e soprattutto abbia «il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana».
«Sentimento» assai più comune di quanto si potrebbe credere, perché tratto distintivo di quella variegata schiera di intellettuali che è sul mercato altrettanto variegato delle consulenze, delle partecipazioni a task force di varia natura e varia finalità, che non a caso sembra registrare un gran traffico in tempi segnati da una patente crisi della politica. Difficile dire se questa crisi sia causa o effetto dell’odierna povertà di riflessione intellettuale nel paese, perché da sempre qui in Italia, come daltronde altrove, lintellettuale ha avuto qualcosa di serio da dire solo quando in favore o contro il Principe, e quando il Principe era tanto forte da potergli offrire vantaggi o minacciarne lesistenza, quando insomma Politik als Beruf e Wissenschaft als Beruf si articolavano in modo dialettico. Più in generale, cè da rilevare che, col tempo (il punto di rottura può essere identificato con la fine della Seconda Guerra Mondiale), la soluzione all«eccezionalismo negativo» ha smesso di essere il recupero dell«eccezionalismo positivo» sul modello dei fasti del passato, ma la conquista di una «normalità» che come punto di riferimento aveva le società nordeuropee, quelle di cultura anglosassone, ecc. È questa «normalità» che probabilmente era nelle deluse speranze di Castagnetti, e riprendere in mano Un paese normale di Massimo DAlema (Mondadori, 1995) può essere utile ad averne unidea, ma anche a capire quanto essa fosse in franca antitesi alla «normalità» di sempre, quella dell«eccezionalismo negativo», cui da poco Silvio Berlusconi aveva dato piena legittimità, liberandola da ogni senso di colpa, e addirittura dandole ragioni di autocompiacimento. Due «normalità» in contrapposizione da sempre, l’una dell’Italia com’è, l’altra di come dovrebbe essere. Di come poteva cambiare grazie alla pandemia, di come pare che neppure la pandemia è stata in grado di cambiare.
Un articolo apparso su Il Post lo scorso 26 luglio è la glossa più eloquente al tweet di Castagnetti: «Ora che l’emergenza si è attenuata eccola di nuovo di fronte a noi l’idea della normalità. Non più la normalità ridotta e condizionata dal coronavirus, ma quella aumentata, baldanzosa, quella che prova a superare la pandemia di slancio. Così oggi si scontrano, spesso con grande violenza, due idee per il prossimo futuro. Da un lato una normalità che aspira a una tranquillizzante restitutio ad integrum. [...] Dall’altro l’idea di una nuova normalità, che nasce e cresce come inedita occasione. Una normalità dai tratti rivoluzionari: diventare migliori grazie al coronavirus, controbatterne gli effetti distruttivi trasformando quello che ci è capitato in una possibilità». Parrebbe esserci, così, una residuale speranza, ma «sembra piuttosto evidente che la nostra nuova normalità […] sarà molto simile a quella vecchia, e per i giovani di questo Paese la soluzione migliore continuerà ad essere quella di andarsene. Per provare a salvarsi in qualche modo. Per garantirsi una vita finalmente normale».
Ho chiuso lultimo paragrafo de La Grande Sineddoche dicendo che «il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che l’esito può esserne previsto dall’andamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi». Col ricorso ad una locuzione come restitutio ad integrum, che in medicina sta per completa guarigione, pare evidente la vocazione a uscire dal conflitto con le ossa rotte.

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venerdì 3 luglio 2020

La Grande Sineddoche / 2


L’accezione estensiva può portare un termine anche assai lontano dal suo significato proprio, e la procedura che opera questo allontanamento sfrutta sempre lo strumento di una figura retorica. Non ci sorprenderà, dunque, che metafora o metonimia, iperbole o litote, possano conferire a un termine un’accezione che distorce anche sensibilmente il significante. A posteriori, tuttavia, il significato dell’accezione estensiva sarà sempre riconoscibile come quiescente, potenziale, in quello proprio del termine.
Si prenda, per esempio, un termine come scrittura, che da mera «operazione dello scrivere» una figura retorica come l’antonomasia fa diventare Scrittura, e cioè «Parola di Dio». Al significante, che ci parla di cosa indubbiamente scripta, laccezione estensiva dà il significato di cosa eminentemente orale (Verbum), ma ci è chiaro che solo una «voce divina» può dettare un «testo sacro»: lorale quiesceva nello scritto, la figura retorica lo ha destato e reso attivo.
Quale figura retorica dà a senso, che viene da sensus, participio passato di sentire, che vuol dire percepire, e cioè cosa eminentemente soggettiva, laccezione estensiva di «contenuto logico oggettivamente valido» (Treccani), «criterio ultimo di giudizio» (De Mauro), «congruenza con un ordine logico, con la verosimiglianza, e anche con la realtà effettiva e attuale» (Devoto-Oli), con quella valenza di dato oggettivo che così spesso va a esprimere in locuzioni del tipo «il senso della vita», che da «quel che percepisco sia la vita» diventa «quel che la vita oggettivamente è», «il vero e inconfutabile significato della vita», ecc., con ciò conferendo oggettività a un termine che esprime la pura soggettività del sentire? La sineddoche – la figura retorica che ci dà la parte per il tutto – e questo accade anche per altre accezioni di senso, come quella di direzione («il senso di marcia»), quella di logicità («il senso di una proposizione») e quella di conformità («ai sensi della vigente normativa»): un vettore diventa orientamento, una congruenza diventa sistema, una corrispondenza diventa adeguamento.

Ho chiuso lultimo post dicendo che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ma – di sponda – lo diventa sempre. Bene, accade come per il senso, che da soggettivo percepire di una cosa riesce a imporsi come suo vero e inconfutabile significato: la «sponda» è la figura retorica. Potremmo azzardare, dunque, che tutte le forme di vita associata sono piani su cui si saggia lefficacia delle figure retoriche, selezionando quelle in grado di rendere generalmente accettabile la trasformazione del significato proprio di un significante in quello della sua accezione estensiva. Non mi si fraintenda, però. Non intendo insinuare che le dinamiche relazionali siano riducibili a quelle che nel foro pubblico decidono le sorti evoluzionistiche dei significanti, mi limito a suggerire che il successo e il fallimento delle operazioni messe in atto per rendere efficace questa o quella figura retorica siano la più trasparente sovrastruttura del conflitto sociale. Ne conseguirebbe che il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che lesito può esserne previsto dallandamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi.

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sabato 27 giugno 2020

La Grande Sineddoche / 1




Neanche due ore erano passate dal bollettino col quale la Protezione civile ci aveva comunicato che i positivi erano 70.065, e 26.676 i ricoverati, 3.856 quelli in terapia intensiva, e che in isolamento domiciliare ce n’erano 39.533, e il numero dei morti erano arrivato a 10.023 – era il 28 marzo – quando, sprizzando euforia da ogni poro, Urbano Cairo comunicava ai suoi che il Covid-19 aveva aumentato del 30% gli ascolti de La7, e li spronava a moltiplicare le energie per cogliere appieno le grandi opportunità offerte dall’epidemia.
Con un palinsesto fatto per cinque settimi da talk show – Omnibus alle 8,00, Coffee break alle 9,40, L’aria che tira alle 11,00, Tagadà alle 14,15, Otto e mezzo alle 20,35, e poi in prima serata, per quattro giorni a settimana, Di martedì, Piazza pulita, Propaganda live e Non è l’arena (repliche su repliche di film visti e rivisti, negli altri tre) – una tv costa solo due soldi, ma 4-6 blocchi pubblicitari ogni ora ne fanno una gallina dalle uova d’oro, se c’è l’evento. E qui l’evento c’era, e sommamente spettacolarizzabile: pigiassero sul pedale dell’ansia e della commozione, quelli in studio, si dessero da fare a vendere spazi pubblicitari, quelli in ufficio.

Siamo onesti, chi poteva indignarsi per un calcolo del genere? Solo chi coltivasse l’assai datata idea di bene comune come bene di un corpo sociale organicisticamente inteso, dove la parte non può e non deve avere interesse diverso – non necessariamente opposto, anche solo difforme – da quello del tutto. Idea datata, e tuttavia ancora assai diffusa. Proprio nei talk show de La7, per esempio.
Cosa rendeva odioso, infatti, al pubblico fidelizzato dai talk show de La7, che qualcuno approfittasse dell’epidemia per maggiorare del 700% il prezzo dell’Amuchina? Credere nel bene comune come interesse generale rispetto al quale quello particolare non può e non deve avere segno diverso. È in nome di questo così inteso bene comune che a chi oggi traeva un utile dall’evento epidemico, come ieri da quello sismico, andava l’indignazione dei Formigli, delle Merlino, dei Floris, tutti, senza eccezione, ma se lutile veniva dallAmuchina. Non uno, infatti, riuscì a spiaccicare una sola parolina a commento della patente disparità di segno, nel contesto dell’epidemia, tra gli interessi del loro datore di lavoro e quelli del paese tutto. Qualche anno prima, sulle immagini delle macerie de L’Aquila avevano ritenuto necessario montare l’audio dell’intercettazione telefonica tra Francesco Piscicelli e Pierfrancesco Gagliardi, imprenditori edili euforici al pensiero dell’utile che avrebbero potuto trarre dalla ricostruzione. Coerenza non avrebbe voluto che sulla colonna di camion carichi di bare per le strade di Bergamo si montasse l’audio dell’euforico Urbano Cairo esortare i suoi a «darci dentro», a «stare in pista», perché «oggi abbiamo la grande opportunità di fare meglio dello scorso anno»?
Forse, ma non si poteva pretendere, come brillantemente ci spiegò il Mantellini, al quale – avrete compreso – qui ormai guardiamo come a un maître à penser: «Comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, così come la grande cautela di molti altri, quelli che forse ora da tali risorse non dipendono, ma chissà poi domani, che il mondo è piccolo ed è meglio stare cauti». Chi, allora, se non in nome del bene comune, almeno in nome dell’onestà intellettuale, era autorizzato a indignarsi? «Quelli che non hanno molto da perdere, perché abitano già la terza classe della nave semiaffondata della cultura italiana, sia che lavorino nei media, coi libri o sui giornali, o perché sono iscritti alla curva sud del più intransigente purismo culturale».
Dovremmo concludere che la coerenza, se non l’onestà intellettuale, è un lusso che possono permettersi solo i fanatici o gli sfigati? Tutto dipende dal credere o meno nel bene comune come la Grande Sineddoche che ci dà la parte per il tutto, e viceversa.

Qui, però, occorre rilevare qualche contraddizione. L’indignazione per la maggiorazione del prezzo dell’Amuchina, infatti, è senza dubbio un elemento di drammatizzazione dell’evento epidemico, che sul piano mediatico contribuisce a spettacolarizzarlo. Ecco che, allora, questa indignazione si mette al servizio di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto.
Stessa contraddizione rilevabile in chi considera «comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, ecc.», il che denota grande indulgenza nei confronti di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto (con implicita ammissione dell’aleatorietà della Grande Sineddoche), e nello stesso tempo si commuove dinanzi alla prova di senso civico data dagli «automobilisti che guidano da soli con la mascherina inutilmente indossata», che dunque potremmo definire coerenti nella fede del bene comune come bene del tutto, e cioè fanatici o sfigati. Qui, commoventi. Patetici, invece, quando indignati perché i conduttori dei talk show de La7 non si sono dimostrati equanimi nello stigmatizzare chiunque abbia lucrato sull’epidemia.
E però – sappiamo - «very well then I contradict myself / I am large, I contain multitudes». E allora la questione trascende i conduttori dei talk show de La7 (Alessandro Guerani ne ha dato una definizione tanto acuta quanto lapidaria: «la coscienza infelice della piccola borghesia») e anche il buon Mantellini, per mettere in discussione la titolarità di chi contains. In altri termini, di come e quanto la Grande Sineddoche possa reggere a fronte dell’evento epidemico. Ancora più esplicitamente: se esista veramente, o no, un bene comune che ci possa ridare il corpo sociale come unità organica. Perché a me pare evidente ci sia chi col lockdown non ha perso niente, anzi, ci ha persino guadagnato qualcosa. E non mi riferisco tanto a chi ci ha guadagnato in termini economici, ma a chi sta tentando di ricavarne una rendita morale (dove il termine qui rimanda ai mores, e cioè ai costumi che dettano etica). In un tweet ho parlato di «orfani dellepidemia», riferendomi a quanti nelle condizioni (im)poste dall’emergenza hanno trovato modo di poter candidare un interesse tutto personale a interesse generale. È chiaro che dovremo farci carico di queste vittime della fine dellepidemia con la stessa cura che riteniamo indispensabile per le vittime (sanitarie ed economiche) dellepidemia. Chiaro, altresì, che questo implicherà il prendere atto che il corpo sociale non è Uno. E questo potrà causarci qualche vertigine, come quando scoprimmo...

Quando scoprimmo che erano stati degli Elòhim a dire: «Sia la luce!» (Gen 1, 3), e non un Elòhah, il Librone quasi ci cadde di mano: Dio era sempre stato Uno, cos’era adesso questa novità?
Stessa vertigine di quando su Le Scienze leggemmo che l’Io era solo l’artefatto risultante da una complessa serie di funzioni cerebrali integrate: avevamo già concesso per tempo che fosse ambiguo, contraddittorio, sfuggente, ultimativamente insondabile, ma rinunciare al fatto che la prima persona singolare fosse quel bel Tutt’Uno cui eravamo abituati da millenni, con quanto a premessa e a conseguenza, onestamente era troppo.
Due mazzate micidiali, ma in qualche modo ci riprendemmo, perché, ok, Elòhim è plurale, ma plurale accrescitivo – ci spiegò il teologo – e dunque non sta in luogo degli dei pre-abramitici adorati dalle tribù che si affacciavano sul Giordano, ma di un unico Elòhah alla sua massima potenza, fa niente che poi questo Elòhah somigli in modo impressionante a Kemosh, quando si incazza, ad Astarte, quando è bonario, a Moloch, quando pretende sacrifici, ecc.
Anche queste neuroscienze, poi, che vogliono? Sapevamo già – ci spiegò il poeta – che «I contain moltitudes», ma chi resta il soggetto di «contain»? Sempre «I», no? E allora dov’è il problema? Sarà molto sfaccettato, ma l’Io resta monolite.
Venga pure la vertigine, dunque, dinanzi alla sorpresa che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ci riprenderemo col considerare che comune – di sponda – lo diventa sempre.

[segue]