giovedì 24 dicembre 2020

Lettera aperta

 

[Difficilmente su queste pagine parlo da medico, ma oggi vorrei fare uneccezione per dire quanto segue al dottor Luca Lorini, primario di non so cosa in quel di Bergamo, in forma di lettera aperta.]


Gentile collega, nel corso di una puntata di Che tempo che fa (Raitre) lho sentita affermare testualmente: «Non vuoi vaccinarti? Ok. Ma se ho un posto libero in reparto, lo do a chi crede nel vaccino». Ora, sorvolando sul fatto che i posti in reparto non sono di sua proprietà, e che dunque lei non può disporne a suo piacimento, non le sembra di merda la logica che informa la sua affermazione? In un reparto di oncologia polmonare dovrebbero essere ricoverati solo i non fumatori? Se al momento dellincidente il motociclista non indossava i casco e lautomobilista non aveva la cintura allacciata, dovremmo negar loro un posto in terapia intensiva? Dovremmo dare assistenza solo ai diabetici che non sgarrano con la dieta? Provi a darmi una valutazione deontologica del diabetologo che al paziente con un piede in gangrena dica: «Eh, sì, andrebbe amputato, ma non se ne fa nulla: sappiamo che lei mangia cioccolatini». Bene, io non so chi labbia messa a dirigere il reparto di cui è primario, ma la prego di inoltrargli metà del disprezzo che qui riservo a lei, patetico e ridicolo ancorché efferato moralistucolo dei miei stivali.


venerdì 18 dicembre 2020

Dinanzi alla morte

 

Nel 2019, in Italia, ci sono stati poco più di 647.000 decessi, che fa una media di circa 1.770 morti al giorno: morti appena nati e morti di vecchiaia, suicidi e morti ammazzati, morti per cancro, infarto, ictus e altre patologie, fra le quali quelle infettive, non di rado contratte in ospedale (non ho i dati relativi al 2019, ma nel 2016 i morti per malattie infettive contratte nel corso di un ricovero ospedaliero sono stati più di 45.000), e poi morti nel sonno o schiacciati sotto una pressa, caduti da unimpalcatura o fatti secchi da un’overdose, travolti da un tir o in seguito ad incidenti occorsi in rischiose pratiche sessuali.

L’anno che sta per chiudersi ha avuto un andamento un po’ diverso, perché al consueto numero di cause di morte s’è aggiunta quella della polmonite interstiziale da Sars-Cov-2, che, a detta di chi coi numeri ci sa fare, al prossimo 31 dicembre dovrebbe/potrebbe portare i decessi da/con Covid-19 a poco più di 70.000. Per quest’anno, insomma, c’è da attendersi che il totale dei decessi in Italia possa superare di poco i 710.000, sicché la media di morti al giorno salirebbe da 1.770 a 1.940, o giù di lì: rispetto all’anno scorso, ben 170 morti al giorno morti in più. Superfluo dire che la cosa non può lasciare impassibili.

Certo, la morte è morte, sempre, e con la morte di chiunque, anche se ci è sconosciuto, muore sempre anche qualcosa di noi, dico bene? Vero è che forse di noi muore qualcosina in più se il morto ci è parente o amico, se a morire è un bambino, se più in generale la morte prende ingiustamente un giusto o colpevolmente un innocente, se il modo in cui si muore è atroce, se il cadavere è eccellente, se siamo presenti al momento in cui il morituro muore, se a morirne sono 1.940 che non 1.770, ma credo che non sia il caso di star qui a sottilizzare: ci addolora un pochino anche la morte di uno sconosciuto ultracentenario spentosi serenamente nel sonno agli antipodi di dove noi viviamo, dico bene? Vi prego, non mi deludete, dite di sì, sennò non posso andare avanti: dico bene? Ok, procediamo.

Brutta cosa, la morte. Sempre. E tuttavia, concorderete, se non ci ferisce negli affetti personali o non ci è messa sotto gli occhi, essa si limita a far da sottofondo al nostro vivere: sappiamo che prima o poi toccherà anche a noi, è ovvio, sappiamo che, prima di toccarci, ci sfiorerà prendendo il nonno, il babbo, lo zio, l’amico, il conoscente, il calciatore che ci ha estasiato coi suoi dribbling, lo scrittore che ci ha fatto battere il cuore, il fruttivendolo sotto casa, ma dal sottofondo emerge rendendosi visibile, e dunque perturbante, dandoci ansia, angoscia o anche soltanto la sensazione di finitudine che ci dà un attimo di smarrimento, di irrequietezza e di impotente resistenza all’ineludibile, in proporzione alle sue dimensioni, in ragione della sua presenza, nella misura della rappresentazione che ci è offerta.

Certo, abbiamo pietas da vendere e anche una fogliolina che dal verde vira al giallo sul ramo del bonsai ci fa star male, perfino la zanzara spiaccicata sul muro ci dice che tutto ciò che organico è destinato a diventare inorganico, e questo evoca il destino che accomuna tutti i viventi, ma un po di più ci scuote dentro vedere sull’asfalto lo sconcio che uno pneumatico ha fatto d’un topo, e un po’ di più se a finirci sotto sono stati un gatto o un cane, un po’ di più se ridotti a poltiglia. Quanti ne muoiono ogni giorno nel tentativo di attraversare la carreggiata, lo sappiamo, ma vederne i cadaverini riversi ai suoi bordi ci stringe il cuore e, se maciullati, ce lo strazia. Stessa cosa a sapere che è morto quel tizio, altra però è dal saperlo chiuso in quella bara, e altra ancora è vederlo lì dentro quando ancora è scoperchiata.

Brutta cosa, la morte, sempre, chiunque muoia, ma dico una bestialità se affermo che ci appare più o meno brutta in relazione a certe variabili? Cosa ferisce di più la nostra sensibilità, il fiore che appassisce nel vaso o la mosca che agonizza sulla carta moschicida? L’agonia del topo che ha ingerito l’esca al bromadiolone o quella del cavallo che s’è schiantato nella Curva di San Martino al Palio di Siena? La morte del ragazzino leucemico o quella del novantenne enfisematoso? Ma se il novantenne enfisematoso è il nonno che da bambini ci leggeva la fiaba di Pollicino e il ragazzino leucemico è un impercettibile e anonimo puntino sulla curva repentinamente decrescente che ci illustra gli strabilianti successi delle odierne terapie antileucemiche? Mi pare evidente che le variabili siano assai complesse.

Direi tutto dipenda da quanta e quale morte ci è messa dinanzi, e in che modo, e a quale distanza, dove quest’ultimo parametro non è riducibile a un mero dato spaziale o temporale. Perché i 2.977 morti nel crollo delle Twin Towers del 2001 feriscono indubbiamente la nostra sensibilità più dei 39 che morirono allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985, ma quanto rispetto agli oltre 800.000 tutsi massacrati in Ruanda nel 1994? È evidente, perciò, che le variabili cui facevo cenno prima siano tutte estremamente elastiche: la morte di un orango ci ferisce assai più di quella di un gatto, non però se il gatto è George, il nostro gatto; il video della migrante che si dispera perché il suo bambino di sei mesi è affogato a largo di Lampedusa ci schianta, ma la foto del bambino di tre anni riverso a faccia in giù sul bagnasciuga di una costa turca ci distrugge; i sei milioni di morti della Shoah ci sembrano il male assoluto, ma sugli otto milioni dell’Holomodor sappiamo relativizzare come dovuto ; sentirci dire, in piena epidemia, che «questo martedì ne sono morti 985» è una mazzata, ma apprendere da un report dell’Istat che il tal giovedì del 2013 ne son morti 1.015, o il tal lunedì del 2010 ne son morti 1.089, fa male, certo, ma – come dire – si nasce, si vive, si muore, e in fondo tocca a tutti, a chi prima e a chi dopo, pazienza!

Dio mio, cosa mi è scappato di bocca? Ho detto proprio «pazienza!»? Chiedo scusa, non so come sia potuto accadere. E mi auguro che non vogliate accostare il mio «pazienza!» a quello che si è lasciato scappare Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, a commento dei 170 morti al giorno in più che avremo questanno rispetto allanno scorso, daltronde la differenza è lampante: a me il «pazienza!» è scappato dinanzi a morti stagionati, morti misti, morti alla spicciolata, morti in silenzio, a riflettori spenti; lui no, lui è una carogna, perché lha detto dinanzi a salme ancora calde, senza rendere lomaggio che il vivente deve al morente, che poi, tenuto conto dellestrema elasticità delle variabili che regolano il nostro altissimo sentire, è lo stesso genere di omaggio che il vizio deve alla virtù.

martedì 1 dicembre 2020

Walter Veltroni – Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020

 

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati...». Le vittime erano state depezzate: «straziati», che sta per «lacerati», «martoriati», «torturati», è l’aggettivo più adeguato per corpi che non hanno subìto niente del genere? Se si rinuncia a dire «indagine», optando per «faccenda», soprattutto mettendoci d’accanto uno «sbrigare» che fa tanto hard boiled, guastava tanto un «fatti a pezzi»? Vabbè, vediamo come va avanti.

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati – nulla di straordinario, in fondo lo pagavano per questo –, il commissario Buonvino era tornato alla sua routine. Aveva una medaglia sul petto, di questo era consapevole. Il caso che era riuscito a sbrogliare aveva un elevato grado di complessità, e l’impatto sull’opinione pubblica – si trattava pur sempre di un’efferata storia di sangue – era stato davvero devastante. Con la cattura dei colpevoli, Buonvino aveva fatto strike, togliendo tutti dai guai. E per questo, come sempre accade a chi vince, era improvvisamente circondato da una rispettosa deferenza. Ma i guai, la vita gliel’aveva insegnato, sono come le caramelle…»

Basta, pietà, basta! «Nulla di straordinario» e neanche tre righe dopo «un elevato grado di complessità» che sembra tirato via da un pezzo di Napolitano su un numero di Rinascita dei primi anni Ottanta; il «caso» che viene «sbrogliato»; la «storia di sangue» che è – e come vuoi che sia? – «efferata»; l’«opinione pubblica» – partiva per essere un Francesco Ingravallo e in niente mi diventa una Kay Scarpetta – che ne risulta «impattata»; «aveva fatto strike», ripeto: «aveva fatto strike»; e come vuoi che sia la «deferenza»? Per un pleonasmo direi che «rispettosa» sia il minimo. Poi ecco il magistrale colpo di reni per non cadere dallo  sciatto all’ovvio: per il proverbiale «una tira laltra», via le ciliegie, passate a Walter delle «caramelle».

Non sono riuscito ad andar oltre la prima pagina dell’ultimo giallo di Veltroni (Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020), e dunque qui vanno deluse le aspettative del simpatico stronzone («Spero che Malvino recensisca Buonvino»che via email me ne ha inviato copia in formato ePub.

mercoledì 25 novembre 2020

Sulla popperiana Fälschungsmöglichkeit

 


Già due o tre volte, su queste pagine, ho scritto che, a mio modesto avviso, il termine «falsificabilità» può generare gravi fraintendimenti in luogo della «Fälschungsmöglichkeit» che Karl Popper formula come criterio per separare l’ambito delle teorie assoggettabili al metodo scientifico da quello delle teorie che non lo sono, e tuttavia non ho mai compiutamente argomentato sul perché. È quanto mi riprometto con questa pagina, che giocoforza mi rimanda a Logik der Forschung, l’opera di Popper in cui la «Fälschungsmöglichkeit» fa capolino per la prima volta fin dalle prime pagine (I, 4), e proprio come elemento per stabilire una demarcazione (Abgrenzungs) tra i due ambiti.

In quale campo si muovono le teorie non assoggettabili al metodo scientifico, se quelle che invece lo sono si muovono in quello «empirico»? Popper lo chiama «metafisico». Senza sapere perché ricorre a questo termine, la cosa avrà senzalcun dubbio il sapore di una semplificazione un po’ troppo grossolana: forse che le teorie formulate nell’ambito della cosiddetta soft science, che include scienze umane, come la psicologia, e quelle sociali, come l’economia, prescindono da qualsiasi dato empirico? No, di certo. Pretendono, per caso, lo statuto di scienza della «natura ultima e assoluta della realtà» (Treccani), che è quello della metafisica propriamente detta? Men che meno. E come possiamo, allora, considerare «metafisiche» le teorie di Freud o quelle di Marx? Come possiamo considerare «metafisiche» le costruzioni di Wittgenstein, Weber, Schmitt, Kelsen e Saussure? La loro, certo, non sarà una hard science, come invece lo sono la chimica o la fisica, ma questo ci consente di definire «metafisico» il campo in cui si muovono le loro teorie? In modo propriamente detto, no. Daltronde pare che anche Popper senta inadeguato il termine, perché in due o tre punti lo mette tra virgolette. E allora perché vi ricorre?

Perché vi è costretto dalla polemica che lo oppone ai positivisti. Questi ritengono che sia il metodo induttivo a caratterizzare le scienze empiriche, ma Popper non è d’accordo, perché, «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi» (I, 1). Più in dettaglio: «Di solito i positivisti interpretano il problema della demarcazione […] come se si trattasse di un problema di scienza naturale. […] Essi credono di aver scoperto, tra scienza empirica da un lato e metafisica dall’altro, una differenza che esiste, per così dire, nella natura delle cose. Tentano costantemente di provare che per sua stessa natura la metafisica non è altro che una chiacchiera insensata […] Se con le parole “insensato” o “insignificante” non vogliamo esprimere nientaltro [...] che “non appartenente alla scienza empirica”, allora la caratterizzazione della metafisica come non-senso insignificante è assolutamente ovvia […] Ma [...] i positivisti credono di poter dire, intorno alla metafisica, molto di più che non che alcune delle sue asserzioni sono non-empiriche. […] Ciò che i positivisti vogliono veramente non è tanto una efficace demarcazione quanto piuttosto lo scalzamento e l’annichilimento definitivi della metafisica […] [E tuttavia] ogni qual volta i positivisti hanno tentato di dire con maggior chiarezza che cosa significhi “significante”, il loro tentativo ha condotto allo stesso risultato [e cioè] a una definizione di “enunciato significante” (distinto da “pseudo-enunciato insignificante”) che reiterava il criterio di demarcazione della loro logica induttiva. […] Ciò mostra come il criterio induttivistico di demarcazione non riesca a tracciare una linea di divisione tra sistemi scientifici e sistemi metafisici. […] Invece di sradicare la metafisica dalla scienza empirica, il positivismo conduce allirruzione della metafisica nel dominio della scienza» (I, 4). E poco oltre: «Il problema di demarcazione inerente alla logica induttiva, e cioè il dogma positivistico del significato [da segnalare il fatto che lo definisca «dogma»], è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni “significanti”) debbano essere [...] passibili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità» (I, 6). Ma come può essere conclusiva lasserzione che «tutti i cigni sono bianchi», cui mi ha condotto la logica induttiva, quando anche un solo cigno nero la smentisce? E cosa mi rivelerà che un sistema empirico di osservazione dei cigni è veramente scientifico o no? «Per essere scientifico, un sistema empirico deve poter essere confutato dallesperienza» (I, 6); e qui è da segnalare che, dove il corsivo intende dare rilevanza al testo, Popper non scrive «falsificato» (gefälscht), ma «confutato» (widerlegt).

Ma il reale senso da dare alla popperiana «Fälschungsmöglichkeit» appare ancor più evidente nel punto in cui si fa distinzione tra «falsificabilità e falsificazione» (il virgolettato dà titolo al paragrafo che tratta la questione – IV, 22), dove leggiamo: «Dobbiamo fare una netta distinzione tra falsificabilità e falsificazione. Abbiamo introdotto la falsificabilità soltanto come criterio per stabilire il carattere empirico di un sistema di asserzioni». Ciò che tuttavia rende solare, di là da ogni dubbio, che la teoria «falsificabile» non debba intensa come teoria «che si può falsificare», ma come teoria «passibile di essere confutata», è il passaggio della Prefazione all’edizione italiana (Penn, Buckinghamshire, marzo 1970) in cui Popper scrive: «Non c’è induzione: il nostro ragionamento non procede mai da fatti a teorie, se non per confutazioni o “falsificazioni”», dove «o» sta per «ovvero», «ossia», e dove il termine che si avverte possa essere frainteso è messo tra virgolette. Poche righe più in basso, daltra parte, il termine riappare, e stavolta è in corsivo e contrapposto a «verificazione», che di certo non sta per «inverare», ma per «confermare», «comprovare», «riscontrare»: è consentito inferire che, come la «verificazione» presume di comprovare la verità di una teoria, non già di renderla vera, così la «falsificazione» di una teoria non sta nelladulterarla, ma nel dimostrare che è confutabile. Per inciso, occorre rilevare che la tesi illustrata da Logik der Forschung è già in nuce nella famosa lettera di Albert Einstein a Max Born di otto anni prima (4 dicembre 1926), in cui si legge: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione, ma un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».

Per chiudere questa premessa, che ritengo indispensabile per avvicinarsi al reale senso di un termine chiarendo il contesto in cui compare per la prima volta a designare un concetto fin lì inedito, ritengo utile segnalare che la «Fälschungsmöglichkeit» che troviamo in Logik der Forschung (1934) diventa la «falsification» che troviamo in The Logic of Scientific Discovery (1959) solo a un quarto di secolo di distanza. Nella Nota dellautore alla traduzione inglese leggiamo: «La traduzione fu preparata dallautore con laiuto di Julius e Lan Freed»; e i nomi dei due fratelli co-traduttori ritornano nei Ringraziamenti in coda a Realism and the Aim of Science from the Postscript to the Logic of Scientific Discovery, che è del 1956, dove si esprime loro gratitudine per aver «dato moltissimi suggerimenti per migliorare lo stile», mentre una nota dell’editore, tra parentesi, avverte: «Sono morti entrambi molti anni prima della sua pubblicazione». Molti anni prima del 1956, dunque.

Ora Popper arriva nel Regno Unito nel 1946 dalla Nuova Zelanda, dove ha riparato nel 1937 in seguito all’avvento del nazismo; nel Regno Unito ha però già stazionato per qualche tempo, tra il 1935 e il 1936, per un ciclo di conferenze. Si può ragionevomente desumere che la traduzione in inglese di Logik der Forschung debba essere iniziata non più tardi del suo definitivo trasferirsi nel Regno Unito, e che i fratelli Freed abbiano potuto assisterlo per due, tre, al massimo quattro anni. Sta di fatto che nella sua «autobiografia intellettuale», in The Library of Living Philosophers (1974), parlando della stesura di The Poverty of Historicism, che esce nel 1957, scrive: «Il mio primo guaio era soprattutto di doverlo scrivere in un inglese accettabile», segno che almeno per linglese scritto per lui rimanevano serie difficoltà a oltre ventanni dallessersi definitivamente stabilito a Londra. «Prima di allora – prosegue – avevo già scritto qualche cosa, ma dal punto linguistico era scritto veramente male». Ma «prima di allora» aveva tradotto dal tedesco allinglese la sua Logica della scoperta scientifica, e con laiuto dei Freed: «scritta male» anche quella? E per quale difficoltà intrinseca legata alla diversa natura delle due lingue? Il problema, per esempio, era più sintattico o lessicale? Soprattutto lessicale, a quanto pare: «Nessun lettore tedesco, per esempio, bada ai polisillabi. In inglese, invece, si deve imparare ad averne repulsione». Un polisillabo come «Fälschungsmöglichkeit» può aver dato qualche problema di resa in inglese? Sarebbe stato possibile renderlo con una perifrasi, certo, ma doveva esprimere un concetto cardine della tesi popperiana: era necessario fosse reso da una sola parola. La «possibilità» che in tedesco è espressa da «-möglich» riesce ad essere adeguatamente espressa in inglese da «-able»? E allora, via, «Fälschungsmöglichkeit» diventa «falsifiability». Ma, una volta che avrò dimostrato «falsch» una teoria, sarò stato io ad averla «gefälscht»? Certo che no. Potrò dunque dire che lho «falsified» se non ho fatto altro che dimostrarla «false»? Altrettanto certamente, no. Qual è il senso che allora devo dare allaffermazione che, per esser veramente tale, una teoria scientifica deve (poter) essere «falsificabile»? Non cè dubbio: deve (poter) essere inficiabile, confutabile, smentibile. Ma quanto è inficiata, confutata, smentita, dirla «falsificata» non implica che qualcuno l’abbia adulterata ab initio? Quando, poi, un brav’uomo come Mario Trinchero, incaricato dalla Einaudi di tradurre in italiano The Logic of Scientific Discovery, prova ad essere quanto più fedele possibile a un testo inglese tradotto con qualche affanno dal tedesco, cosa volete che ne possa venir fuori? 


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Difficile stringere tutto questo nei 280 caratteri di un tweet, ma ci ho provato, e a commento della segnalazione che Antonio Polito ha fatto del suo articolo sul Corriere della Sera di martedì 24 novembre (Serve la fiducia per costruire una comunità: anche sui vaccini), nel quale scriveva che «nel campo della scienza, ce l’ha insegnato Popper, non si può mai dire una volta e per sempre che un’affermazione sia vera, ma si può sottoporla a così tanti e severi tentativi di falsificazione da poterlo ragionevolmente presumere», ho twittato: «So che lo fanno tutti – la mia è una battaglia persa in partenza – ma tradurre la popperiana “Fälschungsmöglichkeit” con “falsificabilità” ingenera notevoli fraintendimenti: si tratta di “inficiabilità”, i dati scientifici sono inficiabili (quando falsificati, è truffa)». In prima battuta, mi ha risposto: «Hai ragione», ma poi la discussione è proseguita in privato. Qui mi ha fatto presente che «dimostrare falsa una teoria è qualcosa in più che inficiarla», al che ho risposto che «inficiarla significa dimostrare che non è valida» (sul piano della fondatezza fa qualche differenza tra «falso» e «invalido»?) e che «dire che una teoria è “falsificabile” implica che può nascere intenzionalmente falsa ab initio, mentre dire che è “inficiabile” implica che a posteriori se ne può dimostrare la non validità». Allora mi è stato proposto un compromesso: «“Fallibilità”: più di “inficiabilità”, meno di “falsificabilità”». Potevo rifiutare lofferta di un gentiluomo?


domenica 22 novembre 2020

Un souvenir

 


L’intervista che la scorsa settimana il fumettista, illustratore e regista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, ha concesso a Esquire offre innumerevoli spunti di riflessione, ma qui ne svilupperò solo due o tre, cominciando col prendere in considerazione il brano relativo alle ragioni che hanno portato Gipi alla decisione di abbandonare i social network, che pare stia diventando un classico nel repertorio di molte nostre primedonne. Come un tempo, bevendo del cognac accanto al caminetto mentre il levriero sonnecchiava, ci appassionavamo su chi fosse stata miglior interprete dell’«ebben ne andrò lontana» che sta ne La Wally del Catalani, se la Callas o la Tebaldi, è il caso che domani, nella mensa dell’ospizio, sotto l’occhio vigile di una suora senegalese, discuteremo davanti a un brodino, con la stessa passione, se sia stato più toccante l’abbandono di Twitter da parte di Gipi o da parte di Mentana.

Perché ha abbandonato i social network, Gipi? Dall’intervista emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto, che poi è il punto in cui essi riproducono pressoché in tutto le dinamiche relazionali di quella che definisce «tribalità», e che dice essere «il problema della nostra società». E in cosa consiste, questa «tribalità»? «Nessuno riesce a fare un ragionamento autonomo. E non nel senso di pensare con la propria testa, del credere in se stesso o altre puttanate simili. Nel senso di sottoporre ad un esame spietato ogni proprio pensiero. Ogni convinzione. Per esempio: queste idee, questi principi, sono davvero miei? Li ho capiti? O mi sono stati solo trasmessi da qualcun altro? Dalla mia famiglia, dal mio giro, dalla mia cerchia di conoscenze?». Per esempio? «Se quello che ha parlato appartiene alla mia tribù, al mio giro, al mio gruppo, sono d’accordo. Se non fa parte della mia tribù, allora lo disprezzo. Indipendentemente dall’argomento o dal pensiero espresso. […] A me viene da pormi una domanda: è davvero possibile che nessuno, in nessuna delle due parti, dica mai qualcosa di logico agli occhi e alle orecchie della parte avversa? È possibile che non accada mai che qualcuno a destra riconosca la possibile ragionevolezza di una frase detta dalla sinistra e viceversa?».

La mano è senza dubbio assai naïf, ma la psicopatologia così ritratta da Gipi è la stessa che ritroviamo nei lavori di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive – Boringhieri, 1981), di John Levine e Mark Pavelchak (Psicologia sociale – Armando, 1986), di Geneviève Paicheler (Psicologia delle influenze sociali – Liguori, 1987), di Robert Cialdini (Le armi della propaganda – Giunti, 1995), di Angelica Mucchi Faina (L’influenza sociale – Il Mulino, 1996) e di Otto Kernberg (Le relazioni nei gruppi – Raffaello Cortina, 1998), tanto per citare gli autori che ho sullo scaffale più vicino. Psicopatologia sostanzialmente identica a se stessa da sempre, ma che, rispetto ai tempi in cui ancora il web non c’era, oggi sembra non avere più alcun bisogno di camuffarsi da militanza politica: faziosità, dogmatismo, doppia morale, spirito gregario si sono liberati dalle greppie di questa o quella ideologia, per diventare meri distintivi di appartenenza alla «tribù», che di ideologico d’altronde non ha più niente, ridotta com’è ad aggregato mobile, non di rado estemporaneo, di giri grossi e piccini, bolle dentro bolle, consorterie più o meno verniciate di prestigio, robette e robone tenute insieme da impasti più meno labili di simpatie e interessi, da politiche dell’amicizia che hanno lo scadenzario dei tour promozionali dell’ultima novità editoriale.

Dall’intervista – dicevamo – emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto. La decisione di Gipi, infatti, sembra non esaurirsi nella cancellazione di qualche account, ma nel chiamarsi fuori dalla logica della «tribalità», che il web si limita solo ad esasperare. Sembra che Gipi voglia farci credere che i social network l’abbiano fatto cadere in quella logica, che però non è mai stata la sua. E «ho molta vergogna per quello che ho fatto», dice, ma non sta parlando solo di questo o quel tweet, perché aggiunge «non potrei più andare in tv a fare battute su Salvini». Quando, dunque, dice «facevo parte di un meccanismo tribale», aggiungendo un «non ero abbastanza consapevole» quasi a volersene scusare, a parlare non è semplicemente @gipi, ma proprio Gian Alfonso Pacinotti, una delle punte di lancia di Propaganda live per esempio, che non è solo la trasmissione che piace alla gente che piace, ma anche il tempio in cui ogni venerdì sera una ben nota «tribù» celebra i suoi fasti. Bene, prendiamo atto, ma in sostanza cosa è accaduto? «Probabilmente mi sono sempre considerato di sinistra per caso – ci dice Gipi – accettando una serie di dogmi che adesso rifiuto». Risposta elusiva, caro Gipi, riformuliamo in altro modo la domanda: cosa te ne ha fatto rendere conto?

Domanda destinata a cadere nel vuoto, purtroppo non eravamo noi a intervistare Gipi. C’è da supporre, tuttavia, che a fargli rendere conto di dove si fosse andato a infilare sia stata la vicenda di cui è stato coprotagonista lo scorso gennaio. Ne ha parlato, non c’è bisogno d’altro che ridargli voce: «È successo questo: il mio amico Massimiliano Parente ha scritto un pezzo per il Giornale che ha fatto incazzare un sacco di gente. Nel pezzo, a un certo punto, dice che gioca a Call of Duty con me. Le persone che si sono incazzate con Massimiliano mi chiedono di “prendere le distanze”, di “dissociarmi”. Altri sono “sbigottiti” dal fatto che io possa essere amico di una tanto orribile creatura. A tutte le persone che hanno espresso il loro sbigottimento, voglio dirvelo: preferirò sempre le più storte, ignobili, irresponsabili, maldestre, infelici creature di questo mondo a questa nuova generazione di preti che mi ritrovo intorno e alla quale fate a gara per appartenere. Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato. Ma non sto dalla vostra parte. Non ci sono mai stato. Non ci starò mai» (Corriere della Sera, 9.1.2020). È stato questo a motivare la sua decisione di uscire dal «meccanismo tribale» o almeno ad innescare la riflessione che l’ha maturata? Non lo sapremo mai. Non ci resta che tornare all’intervista nel tentativo di cogliere qualche indizio che possa dar più forza alla nostra supposizione.

Ahinoi, ne troviamo uno che la indebolisce nel punto in cui leggiamo: «Tendevo a discutere con chiunque, anche con chi non lo meritava». Ora, io ho pieno diritto di dire a chicchessia che non ho voglia di discutere con lui. Non ha importanza quali siano le ragioni. Peraltro non sono neppure tenuto a dargliene conto. Non voglio discutere con lui e non ci discuto, punto. Il motivo? Basta, non mi va di dare spiegazioni. Comunque mi si giudichi, nessuno può costringermi a discutere con lui, né a dire perché non voglio. Altra cosa, però, è decidere di non discutere con lui, adducendo a ragione il fatto che «non mi merita», perché il «merito» è quanto «costituisce giusto motivo di stima, lode, riconoscimento, ecc.» (De Mauro): con la ragione addotta, io mi faccio metro di ciò che è «giusto», e cioè di ciò che è legittimo e fondato ben al di sopra di ogni valutazione tutta personale. Nel dire, insomma, a chicchessia che «non merita» ch’io discuta con lui, io avanzo una pretesa che esorbita dal mio diritto: pretendo che a una valutazione tutta personale vengano conferiti i crismi dell’inconfutabilità e dell’incontrovertibilità di ciò che tutti – lui compreso – sono tenuti a ritenere «giusto». È evidente che l’eventuale discussione non avrebbe avuto alcun senso, se non quella di farmi stabilire se il mio interlocutore fosse o no degno di «stima, lode, riconoscimento, ecc.», e cioè del «merito» che gli avrei riconosciuto continuando a discutere con lui. Sia chiaro, avrei potuto ricoscergli quel «merito» anche se nella discussione avessimo avuto posizioni diverse, ma è ovvio che, spettando a me il riconoscerglielo, gliel’avrei potuto negare in ogni momento. Nemmeno sarebbe stata una discussione, via, tutt’al più un esame a cui lui si sarebbe sottoposto per sapere con quanta benevolenza io fossi disposto a giudicarlo. Possiamo tranquillamente sorvolare su cosa ciò dica di me sul piano psicoanalitico, basti quanto è stato scritto da più autori sulla frase «tu non mi meriti» con la quale il narcisista mette fine a una relazione amorosa: uno per tutti, il già citato Otto Kernberg, però stavolta in Relazioni d’amore (Raffaello Cortina, 1995). Sul piano retorico, però, non si può sorvolare: io pretendo che il foro esterno sia tenuto a far proprie le ragioni del mio foro interno. Una pretesa che sta a corollario di quella di superiorità morale che è uno dei segni distintivi della «tribù» da cui Gipi è scappato. Diremmo che ne è scappato portandosene via un souvenir.

domenica 15 novembre 2020

Rap


Lo scorso giovedì – giovedì 12 novembre – La7 ha rinunciato per la prima volta a drammatizzare qualsiasi cosa abbia a che fare anche marginalmente con la pandemia da Covid-19 perché il quadro dinsieme sia massimamente spettacolarizzato. Voglio dire che un infarto di Crisanti in diretta avrebbe fatto una gran bella audience, e invece, niente, quando Formigli gli ha detto: «Senta, il governatore della Campania, De Luca, la vuole querelare, lo sa?», Crisanti si è limitato a cagarsi addosso, e questo, di drammatico, ha dato poco o niente. Diciamo che nel terrificante insieme di un Inferno assai simile a quello di Bosch, dove un orrido uccellaccio mangia tutti i sieropositivi e, dopo un veloce transito per unazzurrina bolla di terapia intensiva, plof, plof, plof, li defeca nel pozzo nero spalancato sotto il suo trono, Crisanti ci ha rimediato la figura del dannato col flauto ficcato in culo. In realtà, per quel nasale che ne caratterizza il timbro, in culo a Crisanti starebbe meglio un oboe, ma qui non è il caso di star troppo a sottilizzare. Ora, sia chiaro, un infarto in diretta sarebbe stato il massimo, ma pretenderlo da Crisanti neppure sarebbe stato giusto. In segno di gratitudine per tutta la visibilità che la La7 gli ha dato, però, Crisanti poteva almeno prodursi in uno svenimento. Niente, manco quello: «Ah, beh... uhm... uhm... ma perché... mi sorprende questo... comunque... vabbè... che lo facesse... non penso di aver detto... non penso...». Non parliamo di Formigli, poi, che, per chi adesso non lo avesse presente, è quello che «la realtà è la nostra passione». La realtà era che, di querela, De Luca aveva minacciato Ricciardi. Ora, dico io, con tutta questa passione che hai per la realtà, la tratti a questo modo? Errare humanum est, direte voi, e certo, dirò io, però, quando un lancinante «ahia!» della realtà ti fa capire che un eccesso di passione ti ha fatto sbagliare buco, che fai, abbozzi un sorrisuccio dimbarazzo, dici «pardon!», e continui a fottere? «Ah, no, scusi, non contro di lei, ma contro Ricciardi. Ho fatto confusione perché dopo di lei ci sarà il professor Ricciardi. Lo chiederò a lui, allora...». Eccheccazzo, Formi, drammatizzi tutto, drammatizza pure linfortunio. Quellingrato di Crisanti rifiuta dinfartuarsi in diretta, e manco sviene, e tutto sta per precipitare nel ridicolo, spezzando la tensione creata dal servizio mandato poc’anzi in onda, che tostissimo, tutto sommato, non era, ma che la musica di sottofondo rendeva straziante quanto basta a dare lo share giusto per enfatizzarmi lo spot degli assorbenti per le «gocce della risata», e tu mi smosci tutto a questo modo? Ma blocca tutto, cazzarola, e metti in scena un autodafé di quelli come Dio comanda: togli la camicia, prendi il flagello e fatti tutto lacerocontuso, schizza di sangue il megaschermo. Manco tanto perché tra due minuti dovrai definire «tragicomica» la figura di Cotticelli, ma per sostenermi il climax della trasmissione.