giovedì 29 aprile 2021

«Per così dire»

 

Un anno fa, su queste pagine, segnalavo i mezzucci retorici di cui una «pattuglia di gente tecnicamente squinternata» (definizione data da Edmondo Berselli ai redattori e ai collaboratori de Il Foglio) si era servita per mistificare quanto Giorgio Agamben aveva scritto riguardo a Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata (il manifesto, 26.2.2020), ma, a scanso di equivoci, tenevo a precisare: «Non vorrei che il mio lettore pensasse che aver preso le difese di Agamben voglia dire ch’io ne condivida il pensiero [perché] molto nella sua riflessione filosofica mi pare discutibile». Oggi vorrei appunto intrattenermi su uno degli aspetti che mi paiono più discutibili, e che allo stesso tempo è centrale nella sua riflessione filosofica, quello relativo al concetto di «nuda vita». Mi dà spunto a parlarne un post col quale diciottobrumaio la definisce «unastrazione», come se, per ciò stesso, possa essere liquidata come un niente, alla stregua di un significante privo di un significato. Di fatto, invece, lastrazione non è altro che la procedura logica cui si fa comunemente ricorso quando da elementi sensibili del reale si estrae un concetto che li accomuna e li qualifica: «tesi», «antitesi» e «sintesi», ad esempio, sono astrazioni, ma diciottobrumaio si azzarderebbe mai a considerarle parole vuote? Non credo: cosa rimarrebbe del suo materialismo dialettico? Se si vuole, dunque, contestare a Giorgio Agamben lo strumento concettuale di «nuda vita» – e io ritengo che questo sia possibile – occorre dimostrare che è strumento improprio.

Non si può fare a meno, in tal caso, di considerare, in primo luogo, che non è stato Agamben a usare per la prima volta questa locuzione: in Zur Kritik der Gewalt (1921), uno degli scritti più densi e più complessi di Walter Benjamin, compare dove si legge che «con la nuda vita [«bloße Leben»] cessa il dominio del diritto sul vivente». Con ciò comincia a delinearsi cosa intenda definire il concetto di «nuda vita», soprattutto se si vuol far propria, comè nel programma che Agamben espone a premessa della sua ricerca, la tesi di Michel Foucault riguardo alla trasformazione della politica in biopolitica: «Per millenni, luomo è rimasto quello che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica; luomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (La volontà di sapere, 1976). «Se qualcosa caratterizza, dunque, la democrazia moderna rispetto a quella classica – chiosa Agamben – è che essa si presenta fin dallinizio come una rivendicazione e una liberazione della ζωή, che cerca costantemente di trasformare la stessa nuda vita in forma di vita e di trovare, per così dire, il βίος della ζωή» (Homo sacer I, pag. 23). È necessario fare attenzione a questo «per così dire» che cerca di dar ragione di quello che in tutta evidenza è un paradosso, perché, se, come vedremo, una «του βίου ζωή» può avere un senso, sebbene solo figurato, si fa fatica a capire dove un «βίος della ζωή» possa trovarne uno qualsiasi. Ma qui diventa necessaria una digressione.

Nel Timeo di Platone cè un inciso («χωλήν του βίου διαπορευθείς ζωήν», 44C) che incrina la lapidaria distinzione che a ζωή dà il significato di vita come essenza comune a tutti gli esseri viventi, e per la quale essi vivono (qua illi vivunt), e a βίος quello del genere di vita che essi vivono (quam illi vivunt), anche assai variamente peculiare da specie a specie e, nel caso della specie umana, pure da individuo a individuo. In questo inciso, infatti, troviamo una «του βίου ζωή», che letteralmente sarebbe una «vita della vita», e che, in virtù del fatto che qui la «ζωή» è «χωλή», e cioè «storpia», «zoppa», non ha mai dato troppi problemi ai traduttori, che le hanno conferito il senso figurato di «percorso», «strada», «itinerario»: Francesco Acri rende linciso con un «menata vita sciancata» (Naucksche Buchdruckerei, 1865); Giuseppe Fraccaroli con un «percorrendo a pie zoppo il cammino della vita» (Fratelli Bocca Editori, 1906); Giovanni Reale con un «dopo aver percorso un tragitto di vita dissennato» (Bompiani, 2000). En passant, occorre rilevare che, fin dalla prima edizione del suo celeberrimo Vocabolario greco-latino, Lorenzo Rocci suggerisce di leggere il «του βίου ζωή» del Timeo come «lo spazio della vita» (Società Editrice Dante Alighieri, 1939). Né troppo diversa è stata la scelta nel tradurre il testo originale in inglese, visto che tutte le versioni del Timeo fin qui date alle stampe fanno propria la soluzione di Richard D. Archer-Hind col suo «[if] he passes the days of his life halt and maimed» (Mac Millan and Co., 1888), dove una nota a pie di pagina avverte che con «βίου ζωή» deve intendersi «the conscious existence of his life-time»: la sola differenza, qui, sta nel fatto che, invece dello spazio («percorso», «strada», «itinerario»), troviamo il tempo («life-time»), e tuttavia anche qui ζωή continua ad avere senso figurato.

Ma accade qualcosa del genere con βίος? Abbiamo, cioè, da qualche parte un «τής ζωής βίος», una «vita della vita», in cui sia il βίος a esprimere l’estensione spaziale o temporale della ζωή? No. Per meglio dire: non fino a Giorgio Agamben, e al suo «per così dire», che, se sta per «in un certo qual modo», non ci chiarisce il «modo». Come può, infatti, la peculiarità del βίος, darsi a misura spaziale o temporale del generale che è della ζωή? È chiaro che il «modo» non può essere quello figurato. Ma, se escludiamo che un «τής ζωής βίος» possa avere un senso figurato, quale altro senso può avere? La risposta sta nellÜberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (1932) di Rudolf Carnap, dove si parla di quella metafisica che regge su «pseudoproposizioni», le quali «consistono di parole che hanno un significato, ma sono composte da queste parole in un modo tale che non ne risulta alcun senso»: «il βίος della ζωή» di Agamben è giustappunto un concetto metafisico: Agamben ridà alla storia quanto di metafisico Foucault le ha tolto: Agamben sottrae a Foucault la sua dirompente carica eversiva, lo normalizza reinscrivendolo nella linea di pensiero della tradizione di cui Foucault ha dimostrato i limiti. Che è un po come se Feuerbach venisse dopo Marx.   

domenica 18 aprile 2021

«La sua risata era quella del diavolo»

 


«A trentasette anni dalla sua morte – scrive Raffaele Alberto Ventura (Domani, 17.4.2021) – Michel Foucault è ovunque. Nei grandi dibattiti del nostro tempo aleggia linfluenza del filosofo francese: su sesso e genere innanzitutto, ma anche sulla medicina e in generale sui rapporti tra scienza e potere». Verissimo, e questo, prima di ogni altra considerazione sul suo pensiero, ci obbliga a chiederci di quanti pensatori del Novecento si possa dire altrettanto: quanti di essi, a decenni dalla loro morte, restano centrali nelle discussioni che oggi ci impegnano, e che sono stati proprio loro ad aprire? Prima ancora di pronunciarci sulle tesi di Foucault, accoglierle o rigettarle, come non riconoscere che le ha formulate in termini che oggi sono imprescindibili? È possibile, oggi, un discorso sul potere o sul sapere, sulla società o sulla sessualità, senza dover fare i conti con ciò che Foucault ne ha scritto?

Primancora, però: era un filosofo? Sociologo, senza dubbio. E storico, naturalmente: storico delle culture e delle scienze. Antropologo, potremmo aggiungere, naturalmene duna specie assai diversa da quella dei Frazer, dei Malinowski e dei Levi Strauss. E scrittore. Anzi, in virtù di una scrittura sfavillante, mi azzarderei a dire: straordinario scrittore. Ma filosofo? Ventura è tra quanti credono lo fosse, e proprio nellattualità di Foucault vede smentita lopinione di chi ritiene che «la filosofia è inutile, morta, resa obsoleta dal trionfo delle scienze quantitative», perché «alla fine le questioni di cui passiamo più tempo a discutere, e che poi determinano gli orientamenti politici, sono di ordine valoriale: visioni del mondo, interpretazioni della storia e progetti di futuro», sicché – deduce – «la filosofia non è mai stata così attuale».

Il piglio è di chi sembra crederlo davvero, ma largomentazione regge? Solo nella temeraria convinzione che storia, politica, economia, psicologia, sociologia, linguistica non si siano già conquistate, e da almeno due secoli, la piena autonomia di materiali e metodo. In realtà, la figura cui Ventura fa dire che «la filosofia è inutile, morta, resa obsoleta dal trionfo delle scienze quantitative», è caricaturale: di fatto, lunica filosofia ancora possibile a fronte dello sviluppo delle scienze umane e di quelle sociali, per non parlare della matematica e della fisica, e per molti aspetti perfino della logica formale, è quella teoretica. In quanto al filosofo come costruttore di un sistema, le cose stanno messe pure peggio: non diremmo mai di un critico musicale o di uno storico della musica che è un musicista, ma chiamiamo filosofo chi fa storia della filosofia o tuttal più oggi riflette sulle riflessioni fatte su chi ha riflettuto su questo o quel filosofo una, due o tre generazioni fa: glosse di glosse di glosse. Daltronde sono state proprio le scienze umane e quelle sociali a spiegarci perché ogni sistematizzazione del pensiero non può aspirare ad altro che offrire un modello, sempre parziale, sempre effimero. Se poi guardiamo alla filosofia come campo delle «questioni di ordine valoriale», definire Foucault filosofo arriva ad essere addirittura paradossale, perché la sua lezione è quella di un corso superiore di Scuola del Sospetto: dopo i corsi propedeutici di Nietzsche, che ci ha spiegato la genealogia della morale, di Marx, che ci ha mostrato quali siano i reali interessi che stanno dietro le verità di volta in volta dichiarate incontestabili, di Freud, che ci ha dissuaso a ritenere lIo, e dunque il soggetto, lautore, lattore, non altrimenti che come luogo del conflitto tra pulsioni, ecco che arriva in aula Foucault e ci dice che un valore non è altro che un punto di vista, inteso come postazione: sta lì a farsi valere, non vuole altro che valere. Foucault demistifica le «questioni di ordine valoriale», e in tal senso, dunque, è anti-filosofo per eccellenza, e in ciò sapparenta a Carnap: dove Carnap compie lÜberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, Foucault rivela la natura irriducibilmente relativa della morale; col primo, i cieli cadono, e si frantumano a terra; col secondo, la terra trema, e cadono gli edifici, mostrando nude le loro fondamenta.

Avevamo sotto gli occhi che la morale non parla che di mores, che letica sta tutta nellethos, che «ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri» (Lordine del discorso – Einaudi, 1972), e dunque non dovevamo essere troppo alloscuro riguardo allinscindibile relazione tra sapere e potere, perché l’esercizio del potere dà costantemente vita a nuove forme di sapere, mentre il sapere implica sempre effetti di potere, ma facevamo fatica a trarne le conseguenze: Foucault ci ha costretti a farlo, e si capisce perciò perché si sia procurato tanto odio, come accade a chiunque osi il pensiero estremo. Tanto più intensamente odiato oggi, da morto, di quanto lo sia stato ieri, quandera ancora in vita, perché oggi assai più di ieri il suo pensiero interroga e perturba, e soprattutto non è eludibile.

Di qui il bisogno di demonizzarlo, di cui la pagina di Giulio Meotti (Processo al mostro sacroIl Foglio, 17.4.2021) è un esemplare saggio, per metà spesa a rilanciare la calunnia di pedofilia, già ampiamente destituita dogni fondamento, sicché, seppure a malincuore, ci si accontenta di poter dire che «la vicenda non è dunque affatto chiara» (siamo tanto abituati a queste schifezzuole retoriche, il più caratteristico marchio di fabbrica de Il Foglio, che neanche più un refolo di indignazione ci sfiora: leggiamo, la pena vince la nausea e proseguiamo). Laltra metà della pagina, invece, raccoglie gli sbocchi di bile di un tale Robert Redeker, che Wikipedia ci informa essere stato insegnante di filosofia in un liceo e autore di sei o sette saggi, lultimo dei quali del 2010, e che Meotti ci presenta come «filosofo e saggista francese» facendoci sentire un po in colpa per non averne mai sentito parlare prima. Redeker dice che «quello di Foucault è un pensiero che lancia un no radicale alla società e alle istituzioni, con l’obiettivo di liberare la barbarie. Parliamo di un nichilismo attivo rivolto contro la forma occidentale di società e civiltà. È un pensiero che spalanca le porte alla violenza, purché provenga dal basso, nella speranza che questa violenza sia uno tsunami che travolge ogni cosa sul suo cammino. […] Tutta l’opera di Foucault è permeata di odio assoluto, odio portato al suo livello assoluto, contro ogni forma di istituzione. […] Ogni giorno doveva andare oltre nella dissoluzione del vecchio mondo. Dei suoi valori. Delle sue istituzioni. Delle sue strutture. L’ospedale, il manicomio, la prigione, la scuola, l’esercito, la polizia, l’occidente, il bianco borghese euroamericano dovevano essere distrutti». Rideva, Foucalt, rideva spesso, e Redeker trova che la sua era «la risata del diavolo». «Ha appiccato il grande incendio in occidente – aggiunge – quello che ancora brucia attraverso la tirannia del politicamente corretto».

Ventura sostiene che questo è falso, perché «il filosofo [aridàje!] mostra quanta poca simpatia abbia per ogni disciplina del linguaggio nella sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1971: in ogni epoca, secondo lui, “la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure con la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli”»; e aggiunge che «a essere distante dalla sensibilità libertaria di Foucault […] è proprio ogni aspirazione a tracciare nuove linee di demarcazione tra norma e deviazione, fossanche a fin di bene»; il che ci appare assai più sennato di un buttarla lì a cazzo di cane come fa Redeker. Dove invece Ventura non convince è quando afferma che il «corpus foucaultiano, a forza di essere bagnato dalla schiuma delle interpretazioni, ha assunto la consistenza del mare». Metafora infelice, cui è evidentemente spinto dal sentirsi in dovere di chiudere larticolo con una belluria: ha detto che «Foucault scriveva che luomo è uninvenzione che forse finirà per cancellarsi come un volto di sabbia sul bagnasciuga» e lì per lì non deve aver trovato di meglio. Si può chiudere un occhio sulla forma, non sulla sostanza. Perché, al netto dei fraintendimenti colposi o dolosi di quanto ha scritto, Foucault parla chiaro, ed è destinato a durare, non fossaltro per la sua riflessione sul potere, che attraversa tutte le sue opere. Riflessione copernicana.

Per Foucault, «il potere non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare» (Microfisica del potere – Einaudi, 1977); e «si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione fra un punto e un altro» (La volontà di sapere – Feltrinelli, 1978), perché è «coestensivo al corpo sociale» (Poteri e strategie – Mimesis, 2014). Questa «microfisica del potere» non cerca alcuna integrazione in una «teoria del tutto» con la «macrofisica» marxiana, e tuttavia, nel chiarire il concetto di «plebe», Foucault riscrive Il manifesto del partito comunista: per lui, la «plebe» è «il fondo costante della storia, l’obiettivo finale di ogni assoggettamento, il focolaio mai del tutto spento di ogni rivolta. Non c’è assolutamente realtà sociologica nella plebe. Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non esiste “la” plebe, c’è “della” plebe. C’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia» (ibidem, 2014). Di qui, una lettura della storia – anchessa copernicana – come carotaggio geologico delle stratificazioni di violenza e resistenza: una storia che, attraverso il conflitto, costruisce corpi, desideri, moventi. È in questo senso che la storia «inventa» luomo, è in questo senso che la politica è sempre «biopolitica», è in questo senso che il potere non è da intendere come entità onnisciente e onnipotente, ma come «campo relazionale» in cui la resistenza è immanente al potere.

Si diceva del bisogno di demonizzare Foucault, che però rivela limpotenza dinanzi al suo pensiero. Più furbo chi, appena un anno dopo luscita del primo volume de La volontà di sapere, esortava, in Francia, a Oublier Foucault (Editions Galilée, 1977) e, qui da noi, in Italia, a Dimenticare Foucault (Cappelli, 1977). Chi? Non ricordo.


lunedì 12 aprile 2021

Sulla tolleranza

 

Nel discorso che tenne il 4 marzo 1801, inaugurando il suo primo mandato presidenziale, Thomas Jefferson esortò chi lo aveva sostenuto nella corsa alla White House a tollerare quanti di lì in poi avessero inteso avvelenare i pozzi dellopinione pubblica al fine di sovvertire le istituzioni democratiche: «Let them stand undisturbed – disse – as monuments of the safety with which error of opinion may be tolerated where reason is left free to combat it».

Di tutta evidenza si trattava di una tolleranza che traeva forza da un temerario atto di fede nella ragione, ma tornerà utile rammentare che la campagna elettorale dalla quale usciva vincitore aveva visto i suoi oppositori far largo impiego di quanto oggi diremmo fakenews, hatespeech, shitstorming: diciamo che quando vince la ragione – la tua ragione – ti viene facile concedere che «the minority possess their equal rights, which equal law must protect, and to violate would be oppression».

Concessione, questa, che potremmo dire «liberale», dove le virgolette qui invitano a cogliere il termine nella nudità delletimo, spoglio dogni accezione politica, in quel prepolitico «liberalis» che sta per «generoso dei propri averi», e che non a caso troviamo spesso a dar misura dellofferta sacrificale con la quale si esprime gratitudine alla divinità che ha accordato il suo favore alla riuscita dellimpresa: «oblatio liberalis», qui, alla Dea Ragione.

Non cè da dubitare, tuttavia, che se gli accoliti di John Adams – «the minority» – si fossero azzardati a tradurre in atti sovversivi il loro «error of opinion», le cose si sarebbero messe in modo assai diverso. Infatti, a dissuadere costoro anche dal solo provarci, e a tranquillizzare quanti ritenessero che «this Government is not strong enough» per potersi permettere tanta liberalità, Thomas Jefferson fece presente che, si fosse mai passato dalle parole ai fatti, «every man, at the call of the law, would fly to the standard of the law, and would meet invasions of the public order as his own personal concern». Un altro atto di fede, in buona sostanza, e altrettanto temerario, perché, se «every man» avesse egual concetto di «reason» e di «error», le guerre civili non avrebbero ragion dessere.

Lesempio di tolleranza che qui si è preso in considerazione dà piena copertura a tutte le opinioni, anche a quelle che possono mettere in discussione lo «standard of the law» che impone la tolleranza verso quelle altrui. Così, un secolo e mezzo dopo il discorso di Thomas Jefferson, accade che Karl Popper colga un grave limite in questa «unlimited tolerance»: «If we are not prepared to defend a tolerant society against the onslaught of the intolerant, then the tolerant will be destroyed, and tolerance with them».

Ma fin dove può legittimamente spingersi l’intolleranza verso gli intolleranti? Per dare a questa domanda una risposta che abbia senso, occorre far chiarezza su quanto fin qui è restato nel vago, per non dire nellambiguo. In primo luogo, cosa vuol dire «legittimamente»? E cioè: donde discende la legittimità che consente ai tolleranti di essere intolleranti verso gli intolleranti? E in quali «legittimi» modi essi possono agire contro gli intolleranti?

In secondo luogo, quando diventa «legittimamente» intollerabile, per i tolleranti, il «mettere in discussione» lo «standard of the law» che impone la tolleranza verso tutte le opinioni? Per Jefferson, abbiamo visto, diventa «legittimamente» intollerabile solo se e quando la messa in discussione passa dalle parole alle azioni. Ora è chiaro che le parole usate per formulare ingiurie, calunnie o minacce sono anchesse azioni, ma è evidente che per esse non ci sia alcun bisogno di scomodare il «paradosso della tolleranza», perché sempre penalmente rilevanti. Altra cosa, invece, sono le parole usate per formulare opinioni che non implichino ingiuria, calunnia o minaccia: quando diventa legittimo sanzionarle? Per meglio dire: se con Jefferson il limite è ben chiaro, ed è posto tra parole e azioni, dove queste ultime includono le parole usate per formulare ingiurie, calunnie o minacce, qual è il limite posto da Popper? In The Open Society and Its Enemies (1945), che è lopera da cui abbiamo tratto il succitato brano, il limite non è affatto chiaro.

Da un lato, infatti, egli afferma: «We should claim that any movement preaching intolerance places itself outside the law and we should consider incitement to intolerance and persecution as criminal, in the same way as we should consider incitement to murder, or to kidnapping, or to the revival of the slave trade, as criminal»; e questo sembrerebbe rendere legittimo sanzionare solo le opinioni che implichino unistigazione a delinquere.

Dallaltro, invece, afferma: «I do not imply, for instance, that we should always suppress the utterance of intolerant philosophies; as long as we can counter them by rational argument and keep them in check by public opinion, suppression would certainly be most unwise. But we should claim the right to suppress them if necessary even by force; for it may easily turn out that they are not prepared to meet us on the level of rational argument, but begin by denouncing all argument; they may forbid their followers to listen to rational argument, because it is deceptive, and teach them to answer arguments by the use of their fists or pistols».

Laddove sia realmente presente unincitamento alluso di «fists or pistols», è chiaro che ancora una volta saremmo dinanzi a un caso di istigazione a delinquere: legittima, in questo caso, lintolleranza dei tolleranti verso gli intolleranti. Ma quanto continua ad essere legittimo «the right to suppress them if necessary even by force», non già per il solo fatto che «they are not prepared to meet us on the level of rational argument», ma perché «they may forbid their followers to listen to rational argument»? In buona sostanza, chi fa da garante che un «argument» sia realmente «rational»? Si sarebbe tentati a credere che sia necessario ricorrere ad una autorità in grado di accertarlo volta per volta. Superfluo dire che, in tal caso, detta autorità dovrebbe avere massima competenza nel campo della logica.


[segue]

venerdì 9 aprile 2021

L’analogia

 

Chaїm Perelman afferma che, «nei settori in cui il ricorso a metodi empirici risulta impossibile, l’analogia rimane ineliminabile, e l’argomentazione utilizzata tenderà soprattutto ad appoggiarla, a dimostrare che essa è adeguata» (L’empire rhétorique, 1977). Ma adeguata a cosa? A «chiarire il tema mediante il foro», e cioè a persuadere che sia ragionevole avere unanime parere su qualcosa che è controverso, perché quel qualcosa è analogo a qualcos’altro su cui un unanime parere è già acquisito e consolidato. Sì, vabbè, ma analogo vuol dire uguale? No, «è necessario interpretare l’analogia in funzione al suo senso etimologico di proporzione [che] differisce dalla proporzione puramente matematica in quanto non pone l’uguaglianza di due rapporti ma afferma una somiglianza di rapporti» (ibidem). Per esempio?

Per esempio, c’è un’epidemia, e su questa epidemia ci sono pareri discordi – su cosa esattamente sia, su come debba essere più opportunamente affrontata, su quale atteggiamento imponga, ecc. – ma ecco che per alcuni c’è un’analogia che può mettere tutti d’accordo: bisogna guardare all’epidemia come a una guerra. Cominciamo, dunque, col cantare dai balconi l’Inno di Mameli e a dirci che «andrà tutto bene». Poi, ficchiamoci bene in testa che una guerra è una guerra, con quanto ne consegue in sacrificio personale e collettivo. È uno stato d’eccezione, e come tale impone la sospensione di certi diritti, una catena di comando celere, svincolata dalle ordinarie procedure democratiche, in capo alla quale è opportuno stia il meglio della competenza tecnica, il meglio della gestione tattica e della visione strategica.

Se si accetta l’analogia con la guerra, sollevare dubbi sulle decisioni prese per contrastare l’epidemia è disfattismo, avanzare critiche è boicottaggio, disobbedire è tradimento. Neppure è lecito nutrire perplessità riguardo al modo in cui la guerra è narrata ai cittadini dagli organi d’informazione istituzionale, perché, quando si è in guerra, gli strumenti della propaganda sono indispensabili: l’analogia deve essere enfatica e martellante, non deve lasciar spazio al dubbio, di modo che già il metterla in discussione come argomento sia visto come disfattismo, boicottaggio, tradimento.

Ora, per dirla con Roger Money-Kyrle, «la propaganda sembra spesso un metodo per indurre una serie di psicosi temporanee, che spesso cominciano con la depressione e che, attraverso la paranoia, arrivano a uno stadio di beatitudine maniacale» (The Psychology of Propaganda, 1941). Nel caso di un’epidemia che deve essere sentita come una guerra, dirsi che «nulla sarà più come prima» torna indispensabile da depressi e da maniaci, nell’angoscia dinanzi a uno scenario di distruzione e morte e nella speranza che da quell’incubo si uscirà migliori, perché temprati dalla sofferenza e dalla rinuncia. Dar mostra di essere disposti alla sofferenza e alla rinuncia, allora, sarà segno di serietà e di responsabilità; al contrario, ogni indugio, nutrito dal dubbio che l’analogia non sia valida come argomento, sarà indizio, se non prova, di scarso attaccamento al bene comune, autorizzando al sospetto che negare che sia in corso una guerra sia solo un vile espediente per sottrarsi al dovere cui è tenuto ogni buon cittadino. Tanto enfatica e martellante è la propaganda, d’altra parte, che non subirne gli effetti rivela una resistenza che può trovare ragione solo in un cieco egoismo: la validità dell’analogia come argomento sarà comprovata dal fatto che solo un vizio morale può osare negarla.


giovedì 25 marzo 2021

Corrispondenze

 


Un lettore estremamente attento a ciò che scrivo su queste pagine mi ha fatto notare che da qualche tempo insisto molto su un concetto che mi limito a enunciare come se fosse autoevidente, senza sentire alcun bisogno di dimostrarne la solidità, ma soprattutto senza considerarne le ultime conseguenze (non arriva all’imputazione di nichilismo, ma insomma...).

«Non credi sia apodittico – mi scrive – affermare, come fai tu, che il bene comune sia sempre fondato su “un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui”? […] Tu fai discendere questo dal fatto che “buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali e eterni”, per dirli “sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali...”, ma “funzionali” a cosa? Funzionali, dici, alla difesa di “un interesse che è riuscito ad affermarsi come generale in seguito a un conflitto tra differenti, se non opposti, interessi particolari”. […] Non so se te ne avvedi, ma questo implica qualcosa che io credo sia dirompente: non esisterebbero valori condivisibili al di sopra degli interessi di parte, non vi sarebbe modo di costruire una convivenza su basi valoriali universalmente condivisibili, ma in fondo neppure basi valoriali per una qualsiasi forma di pacifica convivenza. Pensaci un attimo: negando di fatto che esistano valori realmente condivisibili da tutti, che fine fa la società? Se quello che una società dichiara essere bene comune nasconde sempre in realtà l’interesse particolare della classe che in quella società è riuscita a riuscita a imporsi come egemone, ogni patto sociale stipulato su valori condivisi è da considerare sempre un atto di resa che i perdenti hanno siglato in favore dei vincenti. [...] Questo a me pare un incubo: come se ne esce?».

Non se ne esce, caro R., semplicemente non se ne esce. D’altronde, cos’è che ti fa sembrare un incubo una realtà priva di valori che possano essere condivisi senza dover essere imposti? Semplice: è l’idea che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni; in più, è un’idea di storia intesa come processo teso a dare su di essi un accordo equanime e unanime, come meta ultima dell’umana autocomprensione; in sostanza, è un vagheggiamento di uscita dalla storia, ma l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che l’incubo vero è proprio lì fuori, nel luogo dove buono, vero e bello sono dichiarati indiscutibili, e dunque non più motivo di conflitto. In realtà, l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che anche uscire dalla storia è impossibile.

Mi limito, qui, a considerare gli ultimi due tentativi fatti, tralasciando quelli effettuati nel corso dei secoli passati: il primo è stato quello di pensare a una società senza classi; il secondo è stato quello di pensare a un uomo senza gravami identitari. Nel primo caso, è parso ovvio che, senza classi, fossero impossibili interessi di classe: bastava abolirle e il bene comune si sarebbe fatto strada da solo. Nel secondo caso, è parso altrettanto ovvio che, liberato dai particolarismi identitari, l’uomo non avrebbe avuto più alcuna difficoltà nello scoprire in sé un’umanità che accomunava i suoi interessi a quelli di ogni altro suo simile. Il primo tentativo, come è noto, si è rivelato fallimentare: una società senza classi doveva comunque avere una guida, e la guida ha finito sempre per farsi classe, rivelando interessi non sempre coincidenti con quelli delle masse che era stata chiamata a guidare, almeno a giudicare dal rapido venir meno del consenso che esse le avevano inizialmente dato. Chi continua a sostenere la bontà del fine, peraltro, non riesce a offrire una soluzione soddisfacente per ovviare a quello che pare essere un insuperabile limite del mezzo: a tutt’oggi, infatti, non si ha esperienza di un tentativo di abolizione delle classi che non sia esitato nella formazione di un ceto dirigente la cui idea di bene comune non dovesse di regola essere brutalmente imposta.

Non diversamente pare stia andando col secondo tentativo, che è tuttora in atto: sembrano avere indubbio peso, infatti, le resistenze alla cosiddetta globalizzazione, che, attraverso il mercato unico mondiale, mira a imporre come indiscutibili dei valori che si ritiene non possano non essere condivisibili perché il mercato regga. Sembra, tuttavia, che il tozzo di pane offerto a miliardi di essere umani che fino a poco tempo fa morivano letteralmente di fame non basti a rendere accettabili i valori che fanno da companatico: il morto di fame si piglia il tozzo di pane, ma pare non sia disposto a rinunciare al proprio kit identitario. Superfluo dire che anche qui il conflitto torna a fare storia.

Ti dovrebbe esser chiaro, caro R., che la questione sta tutta in ciò che chiamiamo «valore». E qui, come ho già scritto in altre due o tre occasioni, io mi sento di dover dar ragione a quella bestia nera di Carl Schmitt, che in suo scritto minore, densissimo ancorché assai breve (Die Tyrannei del Werte, 1959-1960; in italiano lo trovi edito da Adelphi, 2008, col titolo La tirannia dei valori), sulla questione mi pare assai convincente.

Prima di entrare nel merito di ciò che Schmitt afferma, però, ritengo utile aprire una parentesi su un’altra questione, che a quella dei valori è strettamente collegata, e che pure ho già affrontato su queste pagine: la convenzione che divide i diritti tra «umani» e «civili», convenzione che regge sullo stesso assunto che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni. Quelli «umani», infatti, sarebbero diritti che nascono insieme all’uomo, mentre quelli «civili» sarebbero acquisiti. In realtà, la storia insegna che tutti i diritti sono acquisiti e quelli che chiamiamo «diritti umani» sono semplicemente quelli acquisiti da molto più tempo, da tanto più tempo che ormai ci paiono imprescindibili dall’uomo, al punto che quelli di più assai recente acquisisione, e che pure ci paiono fondamentali, ci danno l’impressione di essere più scoperte che invenzioni: erano nati insieme all’uomo, ma fino a un certo punto non lo si sapeva ancora. Quando ne ho parlato, ho preso a esempio il diritto di migrare che dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 è messo tra quelli considerati «inalienabili», ma di cui non si ha traccia nel Bill of rights del 1789, né nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793. E qui, per dar conto di quanto il concetto di «valore» sia strettamente collegato a quello di «diritto umano», con ciò che implica il voler considerare, e a torto, trascendente ciò che in realtà è del tutto immanente, positivo, interamente immerso nella storia e nei conflitti dei quali essa non può fare a meno, occorre fare attenzione a una parolina che sembra assai innocente e invece è usata come un’arma per imporre come generale ogni interesse particolare, con ciò che ne consegue riguardo alla reale natura di quello che chiamiamo bene comune. Questa parolina è «dignità», che non a caso, nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, sta a ragione del doverli dichiarare tali: è nel loro rispetto che la dignità umana può dirsi piena. Sfugge ai più che il «dignus» della «dignitas» trae etimo, peraltro non del tutto certo, da un «dicere» e/o un «docere» che giocoforza implica un chi «dicit-docet» cosa valga e quanto, il quale non può farlo altrimenti che in veste di «dignitario», cioè di chi è investito del potere di conferire «valore» in nome e per conto di un’autorità costituita, che solitamente si dichiara interprete delle leggi di Dio o della Natura, che, quando cè da dare alluomo una dimensione creaturale, sostanzialmente coincidono.

Ovviamente Schmitt non perde tempo a interrogarsi sull’etimo dei termini in oggetto, va dritto al cuore della questione: «Il valore – scrive – non è, ma vale. […] Questo valere implica ovviamente un impulso tanto più forte alla realizzazione. Il valore aspira apertamene a essere messo in atto. Non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito». Ma come è riuscito a diventare indispensabile? Come è riuscito, il valore, che fino a un certo punto è stato attribuito solo a cose, a diventare misura della dignità delle persone? È accaduto col trionfo di «una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, [che è parso] minaccia[sse] la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo il regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno di valori come regno della validità ideale. Era un tentativo di affermare l’uomo come creatura libera e responsabile, non già in un essere, ma quantomeno nella validità di ciò che veniva chiamato valore. Un tentativo, questo, che può senz’altro essere definitito un surrogato positivistico del metafisico. La validità di valori si basa su atti di posizione. Ma chi è, qui, che pone i valori?». Qui, stranamente, Schmitt dice che la risposta più chiara a questa domanda è stata data da Max Weber, per il quale «a porre i valori è l’individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo. Egli si sottrae così alla avalutatività assoluta del positivismo scientifico, contrapponendo a esso la sua visione del mondo libera, cioè soggettiva. La libertà puramente soggettiva della posizione di valori conduce però a un eterno conflitto di valori e delle visioni del mondo». «E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita – conclude Weber (Wissenschaft als Beruf, 1918) – e precisamente per l’eternità»; dacché Schmitt chiosa: «Sono sempre i valori a fomentare la battaglia e a tener viva l’ostilità».

Ritengo si possa trarne quanto basta per affermare che una condivisione di valori sia sempre basata sulla momentanea sconfitta di altri valori, e che questa condizione corrisponda alla vittoria di un interesse particolare che è riuscito a imporsi come generale su altri interessi particolari. Tutto sembra pacifico, ma è una pace che segue a una guerra, che non di rado è stata feroce.

Ecco perché, caro R., dietro la locuzione «bene comune» io non riesco a vedere alcuna comune convenienza. Per meglio dire: ad un determinato «bene comune» si può arrivare a con-venire, ma in quel luogo cè chi arriva come convocante e chi arriva come convocato, se non come obbligatoriamente coscritto.