La
famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica,
e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare
problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di
causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo
caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta
«moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una
successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore»
ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad
una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza
che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a
ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i
conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi
come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce
come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura»
è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro
coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un
dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto
una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione
della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato
il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una
«legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla
misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno
trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre
emerge il conformista.
Un
esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad
illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì
4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista
Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di
pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan
Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody
Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare
di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere
solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo
relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody
Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad
ammetterlo: «Se non mi
vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine
al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non
insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di
insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente
moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti,
un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale»
(qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non
merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a
un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo
sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio
ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al
«relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare
pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico.
Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale»
sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di
pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa
fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa
posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo
logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la
pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il
cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia
normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano
Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto
alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che
dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.
ah, il Malvino che preferisco!!!
RispondiEliminaMi riesce difficile da capire perché uno debba avercela con Woody Allen. Per "avercela" intendo quel modus operandi per cui si cerca pretestuosamente di denigrare un nemico, quando gli stessi fatti si perdonano a un amico. E' un modus operandi, ma anche e soprattutto un modo di essere. Nella fattispecie, capisco avercela con Benigni, che l'ipocrisia la porta sullo schermo. Ma W.A., ammesso che sia ipocrita, l'ipocrisia la lascia fuori del set. E allora? Non sarebbe il caso che di lui si occupasse, eventuamente, il district attorney, e non i moralisti italiani?
RispondiEliminaDotto', quand'è stata l'ultima volta che ha promesso che basta, che di Ferrara non avrebbe più parlato mai e poi mai, qualunque e qualsivoglia cosa dicesse o facesse?
RispondiEliminaE perché ci ricasca sempre?
Potrei cavarci tre post al giorno da tutte le cazzate che scrive, mi limito a segnalare quelle che, di là dalla persona, sono esemplari di una tipologia di mistificatore.
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