L’assunto
che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente conferisce un
carattere ieratico al filosofo, allo scienziato e all’artista, sicché il lavoro
intellettuale assume gli attributi di un sacro ufficio. È da questo assunto che
muove l’accusa di Julien Benda agli intellettuali: da qualche tempo – scrive
nel 1927 – «non solo non svolgono più il
ruolo che spetta loro, ma ne svolgono uno contrario», «rompono violentemente la loro tradizione», «esaltano l’attaccamento al particolare e alle cose pratiche e
stigmatizzano il senso dell’universale e l’amore delle cose spirituali»,
fino a scendere nell’agone politico in sostegno di una fazione. Chierici che
hanno tradito, dunque, perché l’intellettuale, quando è fedele alla propria
missione, «non persegue fini pratici, ma,
cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della
speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice
in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”».
Ammesso
e non concesso che tale modello di intellettuale sia quello ideale, occorre, in
primo luogo, chiarire la natura di una «soddisfazione»
che dovrebbe essere aliena da «fini
pratici». Se si trattasse dell’intimo appagamento che si raggiunge nel
ritenere di aver colto il buono, il vero o il bello a un grado superiore di
quello ordinario, saremmo all’egotismo. Nemmeno Julien Benda sembra pensare che
un intellettuale debba accontentarsi di questo: ritiene, infatti, che tra i
suoi doveri vi sia quello di «invitare i
suoi simili a religioni diverse da quella del temporale». Che giocoforza implica una mira su «questo mondo» e configura un «fine pratico». In secondo luogo, c’è
un modello di chierico fedele cui l’intellettuale possa ispirarsi? Certo. Sarebbe
possibile «rintracciare nel corso della
storia una serie ininterrotta di filosofi, religiosi, letterati, artisti,
scienziati il cui atteggiamento è di formale opposizione al realismo delle
masse», ma gli esempi proposti sono a stento una dozzina, fra i quali
troviamo il Leonardo che progettò macchine militari per Ludovico il Moro e il
Goethe che fu consigliere ministeriale per gli affari militari e la pubblica
amministrazione a Weimar, mentre la passione politica procura a Dante l’inclusione nella lista dei «chierici
da comizio».
Ad
essere indulgenti, diremmo che gli argomenti prodotti da Julien Benda ci sembrano debolucci. Nessuna obiezione al fatto che usi «chierico» in luogo di «intellettuale», perché a lungo, in
occidente, fu il clero a detenere il pressoché esclusivo monopolio della
cultura, difendendolo strenuamente finché gli fu possibile, fino alla netta
opposizione all’istruzione di massa. E tuttavia, proprio perciò, come si può ignorare che anche quel clero serviva «fini
pratici»?
Più in generale, come si può ignorare, dopo Marx e dopo Weber, che
l’intellettuale è un prodotto sociale anche quando assume connotati antisociali? Infine, come si può porre il problema di una trahison des clercs come questione che assume rilevanza solo nel Novecento?
Sul
ruolo dell’intellettuale nella società si è discusso da sempre, perché «il tema – osserva sennatamente Norberto Bobbio – non è altro che un aspetto di uno dei problemi
centrali della filosofia, quello del rapporto fra teoria e prassi (o tra
pensiero e azione), in termini ancora più generali e filosoficamente ancor
più tradizionali, fra ragione e volontà, quando sia trattato dal punto di vista
di coloro che a partire da un determinato periodo storico e in determinate
circostanze di tempo e di luogo sono considerati i soggetti cui si attribuisce
di fatto o di diritto il compito specifico di elaborare e trasmettere
conoscenze, teorie, dottrine, ideologie, concezioni del mondo o semplici
opinioni, che vanno a costituire le idee o i sistemi di idee di una determinata
epoca e di una determinata società […] I vari atteggiamenti che gli
intellettuali possono assumere di fronte al compito loro spettante nella vita
sociale corrispondono esattamente ai vari modi con cui nei secoli le diverse
scuole filosofiche hanno cercato di dare una soluzione al problema del rapporto
fra le opere dell’intelletto o della mente o dello spirito e il mondo delle
azioni […] In forma più specifica, il problema degli intellettuali è il problema
del rapporto fra costoro, con tutto quello che rappresentano di idee, opinioni,
visioni del mondo, programmi di vita, opere dell’arte, dell’ingegno, della
scienza, e il potere politico». Un problema che per Julien Benda, nel 1927, va ponendosi solo «da cinquant’anni a questa parte».
In
forza del titolo che divenne subito un’espressione a effetto, La trahison des clercs è sempre stato un
libro più citato che letto. In realtà basta leggerlo per capire che deve la sua
fortuna unicamente al titolo. A oltre trent’anni dalla sua prima edizione in
italiano (1976), Einaudi l’ha recentemente riproposto nella collana PBE,
consentendoci di fare finalmente i conti col tic di un certo pour parler che spesso è un parler sans savoir de quoi nous parlons.
Capita spesso, infatti, che a far propria la condanna di Julien Benda ai clercs qui ont trahi sia chi in fondo addebita
loro non già l’aver rinunciato a quell’autonomia che dovrebbe esserne virtù
peculiare, e che in ogni epoca storica è sempre stata un’eccezione piuttosto
che la regola, ma di aver preso partito avverso a quello di chi lancia l’accusa
di trahison. In pratica, il chierico
tradisce sempre e solo le aspettative di chi lo avrebbe voluto schierato in favore
delle proprie idee. Anche per questo, come rileva Davide Cadeddu nella prefazione a quest’ultima edizione in italiano (2012), a Julien Benda
«da subito si attribuì il contrario del suo pensiero». Non era solo effetto di un uso strumentale della sua tesi:
«paladino della figura di intellettuale storicamente disincarnato e astratto, al di sopra di qualsiasi atteggiamento settario, prese coraggiosamente posizione nelle grandi questioni che divisero il suo tempo» (Fernando Savater, La sconfitta di Julien Benda, Laterza 2000), fin dall’affaire Dreyfus, che non fu dibattuto precisamente in una turris eburnea.
Ma il segno più evidente delle obiezioni che una tale tesi è destinata a sollevare, oggi non meno che nel 1927, è nel fatto che per l’edizione del 1946 l’autore fu costretto ad una prefazione lunga quasi la metà dell’opera licenziata un ventennio prima, nella quale riesce ad essere anche meno convincente. È che per rimanere fermo sul punto sostenuto un ventennio prima deve rimodulare la definizione di clerc, che ora non tradisce la sua missione nell’astratta fattispecie del farsi «milizia spirituale del potere temporale» (1927), ma in quella assai più concreta, e temporalmente assai più circoscritta, del servaggio alle fazioni in lotta alla caduta dei totalitarismi, alle quali si riesce a dare un nome solo sciogliendo le perifrasi in cui vengono avviluppate. Così, non siamo più dinanzi a una trahison del ruolo, ma solo di alcuni fini cui il ruolo dovrebbe tendere in nome della «libertà della persona», e che sarebbero traditi in nome dell’«ordine» («Stato monolitico», «famiglia come organismo globale», «corporativismo»),
del «dinamismo»
(«materialismo dialettico», «ragione elastica», «perpetuo divenire della scienza»,
«dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei principi razionali», «tesi secondo cui la ragione [...] deve cambiare non di comportamento ma di natura»), dell’«impegno» (inteso come
«presa di posizione nell’attuale in quanto attuale»),
dell’«amore» (come elemento di opposizione alla giustizia, come nel caso di appelli in favore di amnistie), della negazione di una «morale superiore» (in nome del relativismo etico, potremmo dire): il chierico, insomma, a differenza che nel 1927, non tradisce più col semplice scendere in campo, ma solo quando vi scende in nome di queste aberrazioni, che non si fa fatica ad individuare nelle posizioni, fra gli altri, di Jacques Maritain, e di Henri Bergson. A ragione potremmo dedurne che un clerc ne trahi pas solo se vi scende per contrastarle. E qui, a esempio del citare il libro di Julien Benda senza averlo letto, sovviene il caso di chi lo cita facendo propria la sua denuncia, ma nel contempo ha Maritain e Bergson nel proprio Pantheon, e
una vera e propria fissa per l’amnistia.
Ogni riferimento al 'pensiero' del Dettomarco, supportato da una pervicace e continuativa astensione da qualsivoglia lettura, è assolutamente voluto.
RispondiEliminaPaginetta preziosa. Grazie
RispondiEliminaMarco Antognozzi