«Qualche
anno fa, non molti, era battaglia. Sulla vita, sui figli, sul significato di
paternità e maternità, sul criterio della selezione eugenetica o selezione
della razza, sul carattere umano, troppo umano, dell’imperfezione genetica, sul
diritto sempre periclitante a sapere di chi si sia figli... Qualche anno fa,
non molti, si discuteva accanitamente, e si votava in Italia in un referendum molto
combattuto, sulla natura dell’embrione concepito, sul suo corredo cromosomico,
sulla tutela biopolitica degli individui nella loro irripetibile singolarità, fissata
nelle costituzioni e nelle coscienze…».
È un andantino malinconico, quello di
Giuliano Ferrara su Il Foglio di giovedì 7 agosto, roba da far intenerire pure
una carogna, e infatti a me nel leggerlo il cuore si è tanto stretto che son
riuscito pure a chiudere un occhio su quel «si votava in Italia in un
referendum molto combattuto», perché a votare, certo, «si votava», ma bastò che
Ruini desse l’ordine e, a pochi giorni dal voto, Ferrara passò dal «no» all’astensione:
«era battaglia», certo, ma un pochino asimmetrica, diciamo. E come andò, si sa. Vinse l’astensione, e la legge 40, la legge più stronza e più crudele dell’era berlusconiana, non venne abrogata.
Che fine abbia fatto, si sa anche quello. Forte della maggioranza clericofascista che l’aveva partorita e resa ancor più forte dalla strafottenza di un popolo ridotto a plebe da decenni, non ha retto al vaglio di costituzionalità e da bandiera sventolante sul più cazzuto dei torrioni dei «principii non negoziabili» è diventata un cencio che neanche Beatrice Lorenzin riesce a rammendare con le sue linee guida.
E il povero Ferrara si dispera: «Che
cosa abbiamo fatto per meritarci lo scambio degli embrioni in ospedale a Roma,
la lite giudiziaria sinistra tra genitori biologici e genitori di gestazione, che
si decide a giorni nelle mani di un diritto flebile e prepotente e incurante
dei diritti di chi sopravviene, che ha ucciso in culla con 28 verdetti
attivistici una legge che ci erano voluti trent’anni per farla? Che cosa abbiamo
fatto per arrivare a un decreto del governo che pare cerchi di evitare, estrema
linea Maginot, le secche altrettanto sinistre della compatibilità genetica come
aggressivo diritto alla pelle chiara o agli occhi celesti nella fecondazione eterologa?
Che cosa abbiamo fatto per assistere al trionfo dei “centri” di desiderio immaturi
e degli esperti faustiani che negano anche questa blanda e aggirabile necessità
normativa, e teorizzano una capacità e opacità riproduttiva legibus soluta, anarchica,
fatta di una sicura predisposizione all’eugenetica cioè alla selezione della
razza?».
Con quale coraggio si può rimanere insensibili a tanto strazio? Io non ci riesco, una parola buona mi sembra d’obbligo, perché Ratzinger abdica, Ruini va in pensione, agli zuavi del centrodestra si raffredda la fregola bioetica, Ferrara si ritrova a fianco solo Adinolfi che strepita che vuole la mamma, e come non si può capire il brivido che gli corre lungo il groppone? E allora comincerei col dire al poverino che si inganna, le cose non sono andate come sono andate perché «la Chiesa ha abbandonato il campo di battaglia»: fosse rimasta lì, comunque non avrebbe vinto, e in breve sarebbe stata travolta, perché eludere un’obiezione che si solleva dal piano buonsenso con un assunto di principio, per giunta non negoziabile, può tornar comodo quando si battibecca, ma non è il massimo. E
dunque, sì, «l’abdicazione di Ratzinger è stata simbolicamente molto di più che
non la rinuncia al Soglio pontificio», ma è da leggere come una presa d’atto: la battaglia era persa in partenza e l’averla ingaggiata, essersi illusi di poterla vincere o, peggio, pensare di poter restare sul terreno conquistato comportava un rischio micidiale. Più saggio ritirarsi, lasciare il campo ai matti che amano le cause perse, per lo più abbracciate per l’uzzolo di sfidare il secolo. Romantici quanto si vuole, ma quelli, sì, matti davvero.
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