domenica 21 settembre 2014

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Uno dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti, arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative, perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa, discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga o all’Inps abbiamo qualche amico?».

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