Daniele
Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì
cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando
piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno
questa sembra l’operazione che affida a Bloom
(Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un
Omero che si riprende il suo Ulisse dal
plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben
fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente
incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde
neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su
bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di
un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario
di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della
metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele
Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere
stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che
abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al
testo e in 103 voci bibliografiche.
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