In
Platone è «pseudoargomento
filosofico»,
ma non ha ancora la specifica connotazione di categoria retorica che
in Aristotele troverà la specie del «sillogismo
eristico»
e il modo della «ignoratio
elenchi» (αγνοια
ελεγχου),
che poi sarebbe l’errore del presumere di confutare un’affermazione
senza avere «esatta
conoscenza dei motivi, materiali o formali, che possano determinare
tale confutazione» (Guido
Calogero, Storia
della logica antica).
Parlo di quello che è più comunemente conosciuto come «ragionamento
a cazzo di cane»,
di cui abbiamo avuto in questi giorni un saggio nello pseudoargomento di chi contesta la
condanna in primo grado che Silvio Berlusconi aggiunge alla sua
collezione, perché
«tanto andrà tutto in prescrizione»,
con ciò intendendo suggerire (ma in taluni casi arrivando ad
affermarlo esplicitamente) che il processo neanche andasse celebrato,
e che quindi, se s’è
celebrato, l’accusa
non voleva far giustizia, ma solo molestare un povero cristo.
È qui
che la definizione di «ragionamento
a cazzo di cane»
rivela quanto sia impropria. Se, infatti, un argomento può darsi in
paragone a un cazzo, quello del cane non rappresenta in modo congruo
questo pseudoargomento: più appropriata l’immagine
del pene umano affetto da induratio
penis plastica
(morbo di La Peyronie). Giacché «tanto
andrà tutto in prescrizione»,
il magistrato avrebbe dovuto archiviare? Non arrivano a dirlo perché sanno bene che non sarebbe stato possibile, dunque è il caso di illustrare i
motivi materiali e formali che in questo caso rendono risibile la
contestazione quanto la pretesa di mandare la pallina in rete per finire a pisciarsi sui piedi?
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