Non
ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario
Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui
oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale
mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che
probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in
causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei
prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha
offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora,
a mo’
di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci
su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo
centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già
affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico –
aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla
magistratura l’accusa
di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati
dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi
auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che
la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore
perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha
licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte
esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella
disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti
dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle
conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.
1.
I problemi posti dall’«interpretazione»
sono già tutti impliciti nell’incertezza
che a tutt’oggi
resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per
«tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso
cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe
«negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a
περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe
«esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per
«mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri
significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo»,
«medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione
della notevole plasticità che assume il significato
dell’«interpretare»,
al pari di ciò che accade col «tradurre»,
termine che gli è affine sia nell’accezione che fa
dell’«interprete»
colui cui spetta «trans-ducere»
un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa
l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è
nel caso di una commedia o di un brano
musicale. Quest’affinità
tra «interpretazione»
e «traduzione»
spiega perché all’«interprete»
e al «traduttore»
venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per
colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare»
e a «tradurre».
È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata,
perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo
avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità:
Johann
Sebastian Bach
è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto
dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue
composizioni;
per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga
più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove
potesse, d’altra
parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua
italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti
d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne
richiama questo o quell’articolo
manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas
Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per
provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a
ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale
affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni
dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel
caso di una legge, per esempio, quest’autorità
è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il
criterio di «interpretazione», indispensabile all’applicazione
della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi:
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore».
Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun
contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da
«interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione
del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel
testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è
affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a
«interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come
la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di
dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza,
perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con
una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui
«significato proprio», «secondo la connessione di esse», può
risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso
voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni
possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una
«interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve
la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una
lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha
uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del
principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo
dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si
può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto
così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi l’ha
scritto avrebbe preteso fosse.
[segue]
Beh già i latini col "summum ius, summa iniuria" negavano la possibilità che una norma, per quanto ben scritta e assolutamente cristallina, venisse interpretata in maniera letterale e non secondo i principi che ne avevano portato la stesura. Figurarsi quando è un po' fumosa.
RispondiEliminaUn caso 'buono' è quello della stepchild adoption: i magistrati se ne sbattono le palle di Alfano e di Adinolfi, se l'interesse è quello del bambino interpretano le norme come meglio credono. Un caso 'cattivo' è il matrimonio tra persone dello stesso sesso: nonostante sulla Costituzione ci sia scritto "coniugi" senza nominare moglie o marito, la Cassazione, se non sbaglio qualche anno fa, ha stabilito che siccome ai tempi della stesura la parola 'matrimonio' indicava senza dubbio un'unione eterosessuale, così deve intendersi fino all'intervento del legislatore (e questo intervento l'hanno anche richiesto più volte).
"Ritengo – commenta l'avvocato Luigi Castaldi, difensore dei fratelli Vicedomini - che il Giudice abbia pienamente individuato i fatti storici per come si sono verificati. C'è poco da dire sulla formula delle assoluzioni".
RispondiEliminaOmonimia?
LB
Non sono io.
EliminaIn pratica il legislatore dovrebbe idealmente essere quallo che Umberto Eco chiama l'Autore Modello: il testo della legge dovrebbe essere organizzato in modo da sollecitare solo alcune interpretazioni fra tutte quelle possibili. E il magistrato dovrebbe identificarsi con il Lettore Modello: quello che sa dare l'interpretazione corretta raccogliendo gli indizi disseminati nel testo dall'Autore Modello, confrontandoli e organizzandoli in un sistema coerente. L'alternativa è il decostruzionismo: non esiste un significato oggettivo di un testo, ogni interpretazione è fraintendimento.
RispondiEliminaÈ lo stesso problema di quando due omosessuali si vogliono sposare
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