Dev’esserci
asperrima tenzone per il titolo di «massimo
specialista di Croce oggi in Italia»,
perché
passa continuamente di mano: fino a due giorni fa, pareva saldamente
in pugno a Corrado Ocone, oggi La
Stampa,
per la firma di Federico Vercellone, dice che è la volta di Paolo
D’Angelo,
di cui fino a ieri – nostra
culpa, nostra maxima culpa –
ignoravamo pure l’esistenza.
Per i tipi di Quodlibet,
il nuovo «massimo
specialista di Croce oggi in Italia»
manda in libreria un volume che s’intitola
Il
problema Croce,
che il quotidiano torinese si precipita a recensire, ed è qui che
scopriamo che il problema sussiste, non tanto perché qualcuno sia
infine capace di dirci a cosa serva più un sistema filosofico che
faceva già acqua quando Croce era in vita, quanto perché non viene
meno la lena di chi tenta disperatamente di tappare i mille buchi.
«Abbiamo
a che fare –
leggiamo – con
il nume che ha dominato la cultura italiana per decenni, che fatica
ora a profilarsi nella nostra memoria culturale come quel grande
olimpico classico che fu invece in vita».
Si tratta di un grazioso bouquet di eufemismi: Croce era un
camorrista che faceva e disfaceva carriere muovendo il solo mignolo,
e l’unico
criterio a guidarlo era la venerazione dimostrata nei suoi confronti.
Doveva essere assoluta, incapace di concepire critica, anche se da
lui intravista solo in trasparenza. In quanto alla fatica a
profilarsi oggi nella nostra memoria culturale eccetera, vorrei
vedere: tutta la naftalina in cui l’hanno
amorevolmente tenuto le figlie è finita, lo Stato non sgancia più
un soldo.
«Il
suo sistema appare obsoleto e arretrato il suo atteggiamento
culturale anche in forza del polemico atteggiamento nei confronti di
discipline come la sociologia e la psicoanalisi».
Tutto proprio come «appare»: di fronte a Croce perfino Bergson e Comte sembrano moderni. Che
resta? «Alla
base della ricezione attuale di Croce resta in fondo l’Estetica
del
1902»,
nella quale non si fa mistero che «Croce
liquida, con un quasi oltraggioso colpo di spugna, tutti le grandi
categorie che avevano pervaso la tradizione. A fronte del dominio
assoluto della bellezza da lui sostenuta, venivano messi da parte il
comico, il sublime, il patetico, il tragico, l’umoristico, e poi la
partizione delle arti e i loro principi specifici. E il critico,
privato dei ferri del mestiere, sembrava di colpo indotto ad
affidarsi alla sola intuizione per esercitare il proprio mestiere».
C’è
di più, e non è carino ometterlo: l’intuizione
unicamente valida a stabilire dove vi fosse bellezza assoluta, e dove
no, doveva essere la sua.
Per evitare che tutte le copie vadano
vendute appena messe sugli scaffali, domani correremo in libreria ad
acquistare il volume di Paolo D’Angelo,
poi vedremo se lì dentro c’è qualcos’altro a salvare Croce oltre al solito «antifascista
che seppe dialogare con i vertici della cultura europea in tempi
quanto mai difficili, e resistere, da grande e onesto aristocratico,
al conformismo della società italiana dell’epoca»,
lipsanoteca che conserva i resti di uno che sul fascismo espresse
ottimi giudizi fino al 1925, e a cui il fascismo consentì di scrivere
e pubblicare mentre ad altri antifascisti non consentì neppure di respirare.
Trovo assai divertente che vi sia un asperrima tenzone per un filosofo a proposito del quale il giornale che ospita l'articolo pertinente dice che "forse non tutto di Croce è da dimenticare".
RispondiEliminaIn ogni caso, a naso direi che il massimo esperto vivente di Croce oggi è ancora il vecchio Gennaro Sasso, simile all'abruzzese per opinione di sé, ma a lui superiore quanto a finezza e acribia.
per farsi un'idea concreta di quanto sia tronfio (e utile alla falsificazione) il Croce:
RispondiEliminahttp://diciottobrumaio.blogspot.it/2013/11/linavvedutezza-di-marx.html
Volpi . Ascoltai una recensione su Radio Radicale nella puntata del 18 dicembre 2015 della rubrica "Critica e militanti" .
RispondiEliminaEd io che credevo che fosse Galasso
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