martedì 2 maggio 2017

Uno stronzo a forma di serpente, sì, ma non solo

Si trattasse solo della sua parabola umana, potremmo anche fare a meno di occuparcene, perché quella di Matteo Renzi è del genere che non offre alcun interesse particolare. Noto il fuoco, nota la direttrice, nota la formula che ne genera la curva, noti i valori che ne determinano il profilo, quale che sia il piano sul quale possiamo andare a considerarla come percorso personale, apologo morale o caso clinico, è parabola che sappiamo come sale e che sappiamo come scende. Lungo tutta la salita, d’altronde, abbiamo visto confermati tutti i caratteri di questo genere di curva, mentre dal 4 dicembre ad oggi, in questo primo tratto di discesa, ne abbiamo puntualmente avuto il riscontro atteso.
Potremmo, insomma, lasciar perdere Matteo Renzi, dedicandoci a questioni più interessanti, per limitarci a metterci una pietra sopra quando tra tre o quattro anni sarà tornato da dovera partito, ma coperto di merda. E invece occorre occuparcene, perché alla sua parabola umana sembra ormai indissolubilmente legata quella di una parte del paese.
A scanso di equivoci, però, chiariamo: Matteo Renzi non nasce dal nulla per legare indissolubilmente a sé il Pd con chissà quale fatale e subdolo sortilegio. Senza voler affatto sottovalutare gli strumenti che gli hanno permesso di trasformarlo in un partito personale, è il caso di aprire gli occhi su ciò che il Pd era fin dalla sua nascita, e che spesso pare sia rimosso, per piegare alla vulgata della «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista.
Il rimosso è che, almeno in nuce, il Pci aveva, fin dal 1975, acquisito i tratti di quel partito socialista borghese (cfr. Gian Franco Venè, La borghesia comunista, SugarCo 1976), che «corrisponde al suo proprio carattere solo quando diventa pura figura retorica» (Karl Marx/Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, 3, 2). Di questa figura retorica del socialismo era riuscito a conservare i tratti fin dopo la Svolta della Bolognina, quando, peraltro senza alcuna elaborazione critica del suo più prossimo e recente passato, cominciava a dirsi socialdemocratico, per diventare sempre più solido cooperante della trasformazione cui intanto il capitale andava incontro, a fronte del processo di globalizzazione del mercato. Restava solo la blairizzazione del partito in cui il Pci-Pds-Ds andava a confluire, per dare pienamente conto delle politiche sempre meno «di sinistra» del Pd, e tuttavia rivendicate come tali, con una temeraria faccia di culo. [Per citare solo due dei più recenti tentativi di accreditare come partito «di sinistra» quello che ormai sarebbe il caso di ribattezzare PdR (Partito di Renzi), bastino quelli di Francesco Cundari con «Lottimismo è di sinistra (e pure marxista)» (Left Wing, 17.1.2017) e «Una Leopolda gramsciana» (lUnità, 14.3.2017), che è difficile dire se più irritanti o esilaranti.]
Il fatto che Matteo Renzi vinca le primarie del Pd con il 68% nel 2013 e con il 71% nel 2017, dunque, non è da interpretare come investimento sulluomo che promette di dare al partito una salda e duratura egemonia culturale e politica, costi quel che costi, fosse pure il rendere sempre più problematico poterlo dire (anche solo in parte, e per «pura figura retorica») «di sinistra». Al contrario, rivela in una consistente parte di quell’elettorato che cominciò a votare il Pci dal 1975 in poi, per rimanervi fedele mentre diventava Pds, e poi Ds, fino a confluire nel Pd, un acquistato disinteresse per quella «pura figura retorica» del socialismo che prima sembrava indispensabile a far da velo a un partito borghese, dunque sostanzialmente prono alla logica del capitale.
Un punto, tuttavia, resta da chiarire sul perché, e sul come, sia venuta a mancare la preoccupazione di salvare almeno le apparenze, fino a sentire rivendicare quasi con orgoglio una sostanziale neutralità ideologica nell’analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni. [È il caso, per esempio, delle politiche riguardanti il flusso di migranti dalle coste africane verso quelle italiane: dopo aver affermato che «il problema della sicurezza non è di destra, né di sinistra», si è passati a rivendicare come senza dubbio «di sinistra» la soluzione dei Cpr avanzata da Marco Minniti in forza della sola ragione che sarebbero più efficienti dei Cie, così come definiti nel 2008 dal governo allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con Roberto Maroni agli Interni: stessa logica concentrazionaria, ma – appunto – più efficace, e senza alcuna rottura rispetto al modo in cui il centrodestra concepiva e affrontava il problema.]
Senza addentrarci troppo nelle dinamiche socio-economiche che hanno cambiato corpo e faccia al ceto medio negli ultimi trentanni (con una sensibile accelerazione negli ultimi venti, diventata convulsa negli ultimi dieci), potremmo semplificare dicendo che la crisi in cui è precipitato sul piano economico, prima, e su quello culturale, dopo, ha sottratto il lusso di poter essere «di sinistra» a buona parte di quellelettorato che dal 1975 in poi ha preso a votare Pci-Pds-Ds-Pd, finendo infine per toglierle anche il lusso di onorarne almeno la «pura figura retorica».
In buona sostanza, parliamo di quella «aristocrazia operaia» che non è affatto da intendere come la parte degli operai meglio pagati, ma come quelleterogeneo insieme di dirigenti e di funzionari di partito e di sindacato, di intellettuali (giornalisti, scrittori, ecc.) in maniera diretta o indiretta orbitanti attorno al Pci, prima, e al Pd, poi, e dei parlamentari, dei consiglieri regionali, provinciali e comunali in rappresentanza nazionale o locale del partito (cui ovviamente vanno aggiunti i componenti dei loro staff e quantaltri adibiti in pianta stabile alle attività di propaganda sovvenzionate dal partito).
Per il progetto di «egemonia culturale» perseguito dal Pci fin dai primi anni dellultimo dopoguerra, quando gli accordi di Yalta sbarrarono la strada ad ogni soluzione violenta per la presa del potere in Italia, questa «aristocrazia operaia» è venuta a rappresentare una consistente porzione della base elettorale comunista, ampliandosi nei numeri proprio grazie alle politiche sociali promosse dal Pci nel regime di sostanziale consociativismo pattuito con la Dc.
Scrive Venè nel lavoro già citato: «La borghesia comunista è composta da borghesi che, con il loro voto, hannofatto del Pci un partito candidato ad entrare nellarea del potere. Quali interessi e quali prospettive può avere un borghese per offrire il proprio suffragio a una forza politica che, per propria natura, dovrebbe essere “antiborghese” e “anticapitalista”? […] Tutto ciò pone il Pci di fronte a una serie di scelte essenziali, delle quali si cerca di non parlare mai, e meno che mai nellimminenza delle elezioni. Quale atteggiamento può assumere, concretamente, un partito che nasce dal movimento operaio nei confronti dei milioni di borghesi che si sono giovati delle lotte sindacali per mantenere i propri privilegi parassitari partecipando allo sfruttamento della classe operaia? In base a quali criteri il Pci può selezionare, allinterno degli strati borghesi, i voti realmente utili alla formazione di una nuova società da quelli suggeriti dallopportunismo o da una semplice fiducia nelle riforme “tecniche” proposte dagli efficienti quadri di partito? E soprattutto: a quali voti “borghesi” il Pci dovrebbe rinunciare per tener fede ai suoi programmi di rinnovamento?».
È da correggere, dunque, lidea che in questi ultimi anni si è fatta strada anche nelle analisi dei commentatori politici più acuti: con il PdR non siamo dinanzi alla «mutazione genetica» che un post-democristiano avrebbe indotto in un partito che al momento della fondazione era almeno per tre quarti post-comunista, ma alla chiusura di quel lento processo che ha portato con successo la «borghesia comunista» a marginalizzare la base elettorale tradizionalmente «di sinistra», per renderla dapprima solo esornativa, quasi esclusivamente epidittica nella narrazione del partito «di (centro)sinistra», fino a espellerla di fatto dal partito. Basti pensare che da tempo in Parlamento non siede un solo operaio sui banchi del Pd, mentre abbondano figure dell«aristocrazia operaia», insieme a imprenditori e notabili di questo o quel potentato. Matteo Renzi non ha democristianizzato il Pd: è la democristianizzazione del Pci iniziata nel 1975 ad essersi finalmente palesata in modo inequivoco, per finire col non avere nemmeno più bisogno di essere dissimulata.
Ecco perché la parabola di Matteo Renzi riveste un interesse che va ben oltre lo studio dellennesimo stronzo a forma di serpente, soprattutto adesso che il pieno controllo del Pd gli consente di non avere altri freni lungo la discesa. È chiaro che, per assecondare la sua malata smania, non potrà che stringere un patto col centrodestra un minuto dopo aver incassato il risultato delle prossime elezioni politiche, e alla perdita di consensi cui lo porterà la frettolosa rimozione della lezione del 4 dicembre si aggiungerà quella ulteriore conseguente alla grande coalizione che stringerà con Silvio Berlusconi, la cui vita non si prospetta facile, né lunga, a fronte delle spinte che verranno da un paese ormai avvitato in un declino dal quale potrebbe venir fuori solo con politiche sgradite tanto allelettorato del centrodestra quanto a quello del Pd, per quel che ormai è diventato. Matteo Renzi non consegnerà lItalia al M5S nel 2018, ma nel 2020 o nel 2021 senza meno.
È solo lì che la sua parabola toccherà il punto più basso, e quasi certamente gli risulterà assai più doloroso di quanto oggi sia in grado di immaginare, perché il «buon selvaggio» di Rousseau, contrariamente a quanto riteneva Rousseau, sa essere candidamente cattivo, praticamente una bestia.

20 commenti:


  1. post molto mediocre. Il PCI è stato sempre nei fatti un partito socialdemocratico, anche prima del 1975. D'altronde non si vede cosa altro avrebbe potuto essere (e non certo per colpa di Yalta). Per il resto,lasciamo perdere. Con la crisi economica, il futuro inevitabile dissolvimento dell' euro, e con il generale discredito in cui sono cadute le elite politiche tradizionali in tutto il mondo, restare sulla cresta dell'onda per 4-5 anni rappresenterebbe per uno come Renzi un ottimo risultato politico e personale. E lei gongola per il dolore che proverà ? Quello che può provare uno studente che ha copiato all'esame dal più bravo della classe e a cui venga però dato 95 invece che 100. Capirai che dolore...

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    1. Io non gongolo, mi limito ad ammonire per tempo che sarà inopportuno esortare ad averne pietà. In quanto al suo giudizio sul post, mediterò. Nel caso, converrò. Al momento, lo ritengo eccessivamente severo.

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    2. socialdemocratico, si, a parte i ricchioni

      @Anonimo
      il dissolvimento dell'euro è già stato annunciato con l'intenzione d'introduzione delle due velocità, una per i socialdemocratici e l'altra per i ricchioni

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  2. Beh, l'"inevitabile dissolvimento dell'euro". Vabbe'

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  3. L’analisi, apprezzabile come tentativo di sintesi, manca a mio avviso su un punto essenziale, che al più resta sottointeso: le trasformazioni economiche e sociali intervenute in Italia nel quadro di quelle generali e globali che hanno messo in crisi non solo la socialdemocrazia ma la sostanza stessa della rappresentanza politica nella formazione economico-sociale capitalistica. La metamorfosi perversa che muta i partiti in apparati di regolazione e normalizzazione dei movimenti sociali non poteva che coinvolgere anche le organizzazioni storiche del movimento operaio. Certo, si fa cenno all’abbandono di ogni linea di classe nel risucchio dei ceti borghesi, ma ciò risale, come programma, a tempi remoti (Gramsci), quale ne fosse la coscienza dei protagonisti. La vocazione interclassista del PCI è di vecchia data, se proprio di questo vogliamo parlare. E se si vuole rintracciare un momento decisivo della “svolta” bisogna rifarsi al fatidico 1956, dopo il XX congresso del PCUS, quando vengono gettate le premesse teoriche e programmatiche degli anni successivi, laddove si concretizza l’idea togliattiana del “partito di massa” con la trasformazione del referente di classe del partito e il cambiamento anche a livello dei quadri dirigenti. È già da lì che cominciano a scomparire dai ruoli della gerarchia i dirigenti operai (nel 1975 sono scomparsi da lunga pezza) e si affermano i quadri dirigenti di origine piccolo borghese. Questo dimostra quale sia il punto di approdo di chi pretenda di “far politica” entro i limiti imposti dalla “logica” democratica. E ciò non vale solo per il PCI-PD ma anche per tutto ciò che viene politicamente oggi a prefigurarsi. L’accostamento tra Gian Franco Venè e una mezza frasetta di Marx non poteva condurre lontano. È sempre la “sovrastruttura” in questo tipo di analisi a prevalere sulla “struttura”, il fenomeno sulla causa.

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    1. Per combattere l'ideologia comunista due sono le tattiche: o fai credere al proletario di essere un borghese (Renzi, Berlusconi) oppure fai credere a tutte le classi sociali di appartenere a un generico 'popolo' (Salvini, M5S) con istanze comuni.
      La lotta di classe l'è bella che defunta: basta sostituire tra le parentesi formazioni politiche di altri paesi per poter applicare quella formula a qualunque nazione ormai.

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  4. Secondo me, invece, l'analisi di Malvino e Venè è acuta e pregnante. Ardisco solo osservare, assai sommessamente, che il succo che se ne trae, il senso ultimo del post è ciò che io - proletario schietto senza mai aver creduto, neanche per un attimo, al comunismo e ai comunisti, nel mio piccolissimo angoletto - sostengo da molto tempo, ormai: come per i topi serve il murex, per i borghesi (non per i comunisti, non è quello il punto) servono gogna e ghigliottina. In special modo per i borghesi italiani, piccoli al 95%, pescecani al 5%, pressoché tutti sinistrorsi, parassiti del sistema per vocazione, buoni (nel senso di "buonisti", come dicono i loro amici berlusconiani) e solidali per finta, col clisterone di acido muriatico sempre pronto. No, non dico che gli italiani siano tutti loro. No, altrimenti chi li manterrebbe a slowfood, a eatily, a filetti e tartufi km zero, a loden, a clark's, a Capalbi, a moleskine fighette e a tutti gli altri cazzi con cui usano trastullarsi mentre gli altri sono al lavoro (quando magari ne trovano uno a chiamata di tre ore) o cercano di sbarcare il lunario onestamente? Occorre una rivoluzione vera, insomma, con tanto di carneficine. Ma se lo stomaco non la reggesse, possiamo tranquillamente (ma non troppo) continuare a ciucciarci lo stronzettone, con il suo partito di parassiti e i suoi alleati fascisti. Come già e per decenni ci ciucciammo Andreotti (che però, ora lo sappiamo, era molto meglio). Fino a quando (nel giro di 3-4 anni) finirà dolorissimamente in fondo al barile. Perché poi, come al solito, toccherà a noi scavarlo.
    A proposito di comunisti indefessi faticatori: è morto Valentino Parlato. Pace all'anima di un classico comunista italiano, uno cioè che non avrebbe distinto una chiave inglese da una vanga o una pianta di melanzana da un fico.

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    1. Sono io troppo lapidario, o parlar così bene non è un proletario ?

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    2. a lapida', epperò allora o ce metti 'na a o ce levi un un. sinnò nun vordì un ber pezzo de manico de la panza.

      (io odio i grammarnazi di solito, ma visto che se parla de parla'...)

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    3. A Giù ... Ma che se uno se'mpara a mette quattro parole de fila, smette d'èsse proletario? Io so' proletario perché so'ffijo de proletari, e tanto bbasta. E' n'marchio, che mme piaccia o mmeno e checché se ne dica. E se nun bastasse te dico che so'ppure 'n mortodefame. Chiaro mo'?

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  5. Probabilmente anche Marx non avrebbe distinto una pianta di melanzana da un fico.

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    1. Bè, sì. Ma lui viveva in luoghi dove di piante di melazana e di fichi non è che se ne vedessero ad ogni piè sospinto. Diciamo che anche lui non distingueva una chiave inglese da un cavolo, ecco

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  6. Cercare gli antecedenti e' utile -- anche se con la storia d'Italia il problema e' dove fermarsi: al Comunismo? Ai Guelfi? A Giulio Cesare? Ma qui non ce n'e' bisogno. Anche a un osservatore distratto la parabola del PCI-PD e' riconoscibilissima, riproducendo la parabola di tanta sinista europea. Qualcuno doveva fare la parte ed e' toccato a Renzi. Ho pure simpatia per quelli che lo considerano un Giuda. Pero' ha ragione Malvino: se e' un Giuda lo e' nel senso del racconto di Borges, dove alla fine il traditore e'
    riconosciuto essere identico al Tradito.
    Marco

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  7. Ma perché, sarebbe un male imborghesirsi? Il borghese è un proletario che ce l'ha fatta.

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    1. Io direi, puttosto, che un borghese è un proletario che ha smesso di farsi il culo per qualcun altro e ha imparato l'arte di campare del culo altrui, aderendo comunque ad un'attività molto più redditizia, a volte del tutto ingiustificatamente, o almeno ingiustamente. Il fatto poi che egli debba la sua mutazione alla propria solerzia o al proprio egosimo, alla propria intelligenza o alla propria furbizia, alle proprie capacità innate o alla fortuna, alla propria spregiudicatezza o al proprio idealismo non cambia una virgola di questa realtà. Che tuttavia non è l'aspetto peggiore della borghesia (magari lo fosse!), la quale anzi tende sempre più ad assottigliarsi, a smarrire sempre più le ragioni sociali dei suoi secolari privilegi e a farsi casta, piuttosto che consentire nuovi ingressi che invece rivitalizzerebbero il suo ruolo, la ragione sociale del suo esistere. Ciò va accadendo a cominciare dalla più importante categoria della borghesia, la classe politica, già oggi fine solo a se stessa..

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    2. La vedo un po' stereotipata come immagine del borghese, per me anche Malvino è un borghese (stai attento Luigi che qui tira una brutta aria, ti tirano il collo).

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    3. un borghese è un tizio che, tenendo ai propri soldi (cosa naturalmente sacrosanta e comune a tutti gli uomini), si vergogna però di ammetterlo e tira fuori storielle grottesche come quella del contribuente o quella della libertà economica. A fare il borghese non è il patrimonio né la cultura, è l'ipocrisia.

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    4. Naturalmente non sostengo certo che i borghesi siano immancabilmente ed esattamente tutti così. Credo, più semplicemente, che questi siano i caratteri sempre più diffusi e connotanti della borghesia di oggi. Non della borghesia in genere, che in altri tempi e magari ancora oggi in altri luoghi ha avuto ed ha dei meriti di grande e indubbia importanza. E penso anche che questi caratteri siano di natura perniciosa per la società, come per la sopravvivenza della stessa borghesia come la si è intesa finora e alla quale la borghesia attuale somiglia ogni giorno di meno. Per spiegarmi provo ad aggiungerle qualche altra considerazione in questo senso. Le farei cioè notare come:
      1) la nostra borghesia vada sempre più contaminandosi di indifferenza, privilegio e malaffare, sempre meno compenetrandosi nei ruoli, che rendono tradizionalmente borghesia la borghesia, di intelligenza, guida e coscienza della società nel suo complesso;
      2) gli odierni cosiddetti borghesi si vadano dedicando ad attività sempre più insulse e fondamentalmente inutili, nel senso di fini a se stesse (sebbene spesso redditizie, grazie al privilegio), quando non (nell'ordine) parassitarie, immorali o illegali (non sto a farle esempi, perché lei mi pare abbastanza intelligente da capire a cosa io mi riferisca);
      3) i medici, categoria che lei porta ad esempio, specie quelli più giovani, fatichino sempre di più a potersi una buona volta annoverare nella classe borghese;
      4) schiere di intellettuali, di età media oramai ben più che giovanile, intendo ingegneri, giuristi, storici, biologi, archeologi, laureati e dottori di ogni genere, ecc., si dimenino per anni e anni, il più delle volte a vita, nel pantano che ristagna ai piedi dei "palazzi borghesi", condividendo i loro interessi, le loro umili speranze, le loro preoccupazioni e le loro tremende incertezze con folle di altra gente che né io né lei esiteremmo a definire "proletariato" del nostro secolo, in quel pantano potendo al massimo aspirare a ruoli che per subordinazione, sottomissione e sfruttamento fanno rimpiangere a calde lacrime quelli propri degli ormai inarrivabili travet del secolo scorso.
      Venti-trent'anni fa ci si meravilgiava del laureato tunisino o senegalese immigrato qui da noi, a lavare i parabrezza o a fare il "vucunprà". Oggi non più, perché da anni occupazioni non meno indegne le svolgono anche i nostri giovani e i nostri 40-50enni
      Eh, che dire, se non che erano davvero bei tempi, quelli di Fantozzi e Filini.

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  8. classi, borghesia. comunismo ....
    ancoraaaaaaa?
    ma posate il fiasco, qui l'unico lucido è dr oid

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