martedì 2 ottobre 2018

Sia consentito l’eufemismo


1. Ho incontrato per la prima volta la politica nei primi anni Sessanta, quando nelle passeggiate pomeridiane con mio nonno si finiva regolarmente ai tavolini di un bar, io a leccare il mio gelato a limone e lui – sia consentito l’eufemismo – a chiacchierare con i «nemici del popolo», come regolarmente finiva per stigmatizzarli quando doveva chiudere la discussione, perché dopo il terzo gelato al limone mostravo – sia consentito l’eufemismo, qui con puntina di lirismo – un aurorale disìo di casa.
Dal vago dei ricordi, oggi, emergono con qualche più nitida immagine le sue tirate contro Saragat, che in quanto socialdemocratico risultava dunque «nemico del popolo» due volte, com’era evidente dai sette anni di vitto e alloggio al Quirinale con cui la borghesia gli aveva liquidato il tradimento della classe operaia.
È che il buon Peppino Carneglia era uscito – sia consentito l’eufemismo – un po’ esacerbato da vent’anni di fascismo: un mezzo litro di olio di ricino nel ’27, continue seccature sul lavoro, un anno e mezzo di «villeggiatura» a Ponza. Né trovò mai pace dopo, perché la Resistenza che doveva dare alla luce una gloriosa dittatura del proletariato aveva prodotto l’aborto di una misera repubblichetta democristiana.
Ecco cosa mi sembrò, la politica, le prime volte che la incrociai: una variante del pugilato in cui i bicipiti, però, non erano decisivi. Non necessariamente, almeno. In quanto al resto, per ciò che ancora mi toccava apprendere, nessuna differenza: pubblico eccitato dal sangue, puzza di sudore e olio canforato, scommesse vinte o perse.
Con questo genere di inprinting era inevitabile che finissi per diventare un ragazzino più interessato a Tribuna politica che a Chissà chi lo sa?, con quanto doveva conseguirne per l’adolescente, l’adulto e l’anziano: impossibile il disinteresse – sia consentito l’eufemismo – per ogni incontro, che si trattasse di pesi piuma o di pesi massimi.
Da un certo punto in poi, inoltre, a questa non saltuaria né pigra consuetudine di spettatore s’aggiunse – pure qui sia consentito l’eufemismo – il prender nota, in una sorta di diario, imbottito di ritagli di giornali. Un blog cartaceo, diciamo. Il primo post – quindici righe su un foglio a quadretti – reca la data del 26 maggio 1970, a commento di quel che alla tv, la sera prima, aveva detto un semisconosciuto Almirante, che lanciava il suo appello a quanti non avessero intenzione di «farsi comunistizzare»...

A che pro, nell’economia dell’argomentazione, questa premessa autobiografica? Per millantare un po’ di auctoritas – confesso – e facendolo nel modo più disonesto, che è quello di far scivolare suggestioni tra aneddoti. Il maestro indiscusso di questo trucchetto era Andreotti: partiva sempre da un aneddoto che datava trenta, quaranta, cinquant’anni addietro, nessuno poteva smentirlo, i personaggi erano tutti morti, rimaneva solo lui a testimoniare che fosse andata veramente come raccontava, sicché l’aneddoto era – insieme – memoria e messaggio, storia e metafora, deposito e trincea.
Insomma, avrei potuto farla meno lunga, e soprattutto più pulita, dicendo «è da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane», e subito arrivare al punto, ma a quel punto il punto non sarebbe stato fermo al punto cui volevo fissarlo: infilandoci Saragat e Almirante, nonno e tv in bianco e nero – avevo pensato di infilarci pure papà che a quattro anni mi insegna a leggere sui titoli de lUnità, poi mi è sembrato troppo – volevo darle un peso che forse non ha, perché in fondo l’età non fa merito in nulla, comunque non di questi tempi, e insomma, niente, facciamo come quando il blog era cartaceo: un tratto di penna sopra, e tutto daccapo.

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1. È da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane, ma non ho mai visto un governo cui i sondaggi attribuissero tanto consenso e che – insieme – godesse di tanta cattiva stampa.
Chiariamoci. So bene che i sondaggi sono spesso inattendibili, e che ancor più lo è il prestare ascolto alle chiacchiere colte al volo su un mezzo di trasporto pubblico o alla cassa di un supermercato, che peraltro possono cambiar di segno nel giro di pochi mesi, visto che la plebe è plebe, e sul fatto che lo sia nessuno nutre dubbi, soprattutto se non sente di farne parte. Io che da sempre me ne sento fuori, e che da sempre trovo plebei anche molti patrizi, porgo l’orecchio a queste voci ed è in esse, assai più che in quelle di Di Maio e di Salvini, che trovo l’embrione di una dittatura: leghisti e grillini hanno il consenso che di solito la plebe dà a chi incarica di far riscatto, previa vendetta.
Le ho sentite, in questo mezzo secolo, le voci di consenso a Fanfani e a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, ma in esse già c’era la crepa che apriva al dopo, all’ennesimo riscatto, previa vendetta. Stavolta, no. Stavolta è il consenso disperato che si dà all’ultima speranza, come se dopo non ci fosse più niente di seppur vagamente somigliante alla democrazia. Perciò credo che, se questo governo dovesse cadere troppo presto, ne vedremmo delle brutte, ma brutte davvero, perché un’opposizione in grado di farlo cadere non c’è, e quindi a farlo potrebbe essere solo chi sarebbe comunque sentito come «nemico del popolo», innescando una reazione a catena dagli esiti imprevedibili, ma comunque esiziali. Credo che l’unico ad averlo capito sia Mattarella, che non è mai riuscito a mandar giù il rospo uscito dalle urne, ma si muove con molta più circospezione del suo predecessore, conscio che a sputarlo fuori dovrebbe ingoiarlo di nuovo: cerca di digerirlo, ma si vede che è digestione difficile.
Gli altri – Pd in primis – scommettono sul default, contano su Bruxelles, sperano che salti l’intesa tra leghisti e grillini, stanno agguerriti sull’omesso congiuntivo, sulla felpa cafona, sul tweet improvvido. C’è da compiangerli, poveretti, non hanno capito niente: sperare che lo spread salga, facendo finta di disperare; chiamare in soccorso l’esercito straniero, che non soccorre mai a gratis; seminare zizzania tra due anime diverse, certo, ma ormai saldate da un inaudito consenso popolare, disponibili a dissaldarsi solo per lo spazio di una nuova campagna elettorale; segnalare quanto siano zotici e ignoranti questi parvenu al governo, e segnalarlo a un popolo che in gran parte è zotico e ignorante; questo, e il resto, si traduce nello sterile e ormai logoro esercizio di parlare a se stessi, chiudendosi in assedio. Non hanno capito niente, e si può capire, sennò non dimezzavano i voti in un lustro: cretini e arroganti, incapaci non meno di chi accusano d’incapacità, non si rendono conto che è impossibile recuperare consenso, che sono bruciati più di Berlusconi.
Anche volendo dar per certo che il consenso attribuito a questo governo dai sondaggi sia assai sovrastimato, però, c’è di incontestabile che tv e giornali non sono mai stati tanto ostili ad un governo che dalla sua formazione ad oggi, invece, non mai visto flettere il consenso all’unione delle forze che lo sostengono in Parlamento; e «tv e giornali» è da intendere in senso estensivo, con quanto ci gira dentro e intorno, ed è questo che dà la più evidente misura della distanza tra l’opinione pubblica e quello che dovrebbe rappresentarla (eventualmente formarla), perché questa variegata gens che campa di intrattenimento e arti varie sconta il peccato originario d’essere stata sempre a libro-paga di chi investiva nell’informazione a copertura di ben più seri cazzi propri, e ora vive il disorientamento di chi è a corto di marchette.
Mai tanta ostilità a un governo da parte di tv e giornali: sul piano quantitativo, giacché le voci che gli sono a favore si contano davvero sulle dita di una mano, e parlo delle voci che godono di qualche autorevolezza, perché quelle dei social network sono aristocrazia della plebe, ma pur sempre plebe (diciamo che il bandwagon del 4 marzo fa fatica a imbarcare vip); ma pure su quello qualitativo, perché neppure con Berlusconi a Palazzo Chigi ho visto tanto accanimento, la cui misura sta nella qualità degli argomenti, con intelligenze che fino a poco tempo fa davano prove di raro acume e oggi, contro i giallo-verdi, producono argomenti davvero patetici, che finiscono per andare a loro favore...

No, neanche così va bene, sembra il delirio di chi goda del veder finalmente soddisfatto un personale desiderio di vendetta. Ha il sapore di un risentimento infine ristorato dalla tragedia. Peraltro non sa neppure farsi scudo di eufemismi: come se chi ha sempre considerato plebei tutti i patrizi che gli capitavano a tiro oggi sbottasse in un «vi meritate che la plebe vi sbrani: sono bestie, ma voi non siete diversi, e in più siete sempre stati prepotenti e supponenti». No, non va bene, che figura ci faccio? Tutto daccapo, via. 


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Direi che il paese sia di nuovo spaccato in due, ma stavolta la spaccatura non è verticale, tra destra e sinistra, ma orizzontale, tra basso e alto, e il fronte non divide due campi pressoché speculari, ma, dun lato, c’è un ventre che col tempo è diventato sempre più gonfio di rabbia e, dall’altro, un cervelluzzo rammollito da agi e privilegi. Così, quando si afferma che lo scontro oggi è tra popolo ed élite, e che questo prepara la catastrofe della democrazia, che invece può reggere solo sulla capacità dare legittimità all’élite che è capace di selezionare per darle la guida della società, io mi chiedo perché quella selezionata non sia riuscita a farlo a dovere, né a rinnovarsi per far fronte ai problemi insorgenti. Rinunciando all’eufemismo, che cazzo di élite era? E con quale diritto, dunque, oggi reclama l’autorevolezza di cui si sente essere stata spogliata con l’inganno e la violenza degli spregiudicati avventurieri che menano l’Italia alla rovina? Con quale credibilità ritiene di poter mettere in allarme il paese perché il Def dei giallo-verdi minaccia di aggravare un debito pubblico che è proprio lei ad aver portato al 132%?




3 commenti:

  1. Che dire, ha perfettamente ragione. Ma più che un post mi pare un referto autoptico. Alessandro

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  2. Gran bel pezzo che fa molto riflettere su tanto: anche su quello che non si condivide, soprattutto su quello che non si condivide.
    E sì, il clima rappresentato è proprio quello nel quale siamo immersi.

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  3. La funzione di un' élite non è quella di governare un paese ma di amministrarlo (cioè di garantire una certa indispensabile unitarietà politico-culturale-economica-mediatica). Governare significa decidere dove si va, amministrare significa fare in modo che, dovunque si vada, si faccia in ordine e insieme. Per assolvere a questa funzione è necessario che ogni élite si basi sulla condivisione di alcuni principi (decidete voi se chiamarli metafisici, morali, culturali o che so io ). Questi principi (quasi sempre taciti, cioè non posti come dati storici ma come leggi naturali) forniscono, al tempo stesso, i criteri di cooptazione e quelli di selezione. Per l' élite di cui nel post si parla questi principi erano tre:

    a) non esistono e non potranno più esistere le ideologie

    b) lo stato non può stampare moneta

    c ) la funzione principale dello stato è quella di aumentare il benessere materiale degli individui

    Questi principi fornivano, come sempre, sia i criteri di cooptazione (si veniva ammessi solo se si condividevano ), sia i criteri di selezione (tra chi li condivide primeggia chi riesce ad avere più consenso politico, indipendentemente dai mezzi usati per ottenerlo e dai contenuti, e chi vanta, in campo economico, credenziali accademiche o pratiche più appariscenti.

    Un'élite decade quando i principi su cui si basa e che sono la sua ragione d'essere entrano in una contraddizione insanabile. In questa caso un'élite non ha nessuna possibilità di salvarsi per due motivi. Primo perché, non esprimendo nessuna soggettività, è incapace di un' elaborazione critica autonoma. Secondo
    perché persone cooptate e selezionate sulla base di determinati principi difficilmente possono mettere in dubbio tali principi. Mai, in ogni caso,
    possono farlo pubblicamente.

    La decadenza di un'élite non significa però la fine della democrazia, significa che i vecchi principi verranno sostituiti, in tutto o in parte, da nuovi principi i quali, a loro volta, genereranno un'altra élite.

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