1. Ho
incontrato per la prima volta la politica nei primi anni Sessanta,
quando nelle passeggiate pomeridiane con mio nonno si finiva
regolarmente ai tavolini di un bar, io a leccare il mio gelato a
limone e lui – sia consentito l’eufemismo – a chiacchierare con
i «nemici del popolo», come regolarmente finiva per stigmatizzarli
quando doveva chiudere la discussione, perché dopo il terzo gelato
al limone mostravo – sia consentito l’eufemismo, qui con puntina
di lirismo – un aurorale disìo di casa.
Dal
vago dei ricordi, oggi, emergono con qualche più nitida immagine le
sue tirate contro Saragat, che in quanto socialdemocratico risultava
dunque «nemico del popolo» due volte, com’era evidente dai sette
anni di vitto e alloggio al Quirinale con cui la borghesia gli aveva
liquidato il tradimento della classe operaia.
È che
il buon Peppino Carneglia era uscito – sia consentito l’eufemismo
– un po’ esacerbato da vent’anni di fascismo: un mezzo litro di
olio di ricino nel ’27, continue seccature sul lavoro, un anno e
mezzo di «villeggiatura» a Ponza. Né trovò mai pace dopo, perché
la Resistenza che doveva dare alla luce una gloriosa dittatura del
proletariato aveva prodotto l’aborto di una misera repubblichetta
democristiana.
Ecco
cosa mi sembrò, la politica, le prime volte che la incrociai: una
variante del pugilato in cui i bicipiti, però, non erano decisivi.
Non necessariamente, almeno. In quanto al resto, per ciò che ancora
mi toccava apprendere, nessuna differenza: pubblico eccitato dal
sangue, puzza di sudore e olio canforato, scommesse vinte o perse.
Con
questo genere di inprinting era inevitabile che finissi per diventare
un ragazzino più interessato a Tribuna politica che a Chissà
chi lo sa?, con quanto doveva conseguirne per l’adolescente,
l’adulto e l’anziano: impossibile il disinteresse – sia
consentito l’eufemismo – per ogni incontro, che si trattasse di
pesi piuma o di pesi massimi.
Da un
certo punto in poi, inoltre, a questa non saltuaria né pigra
consuetudine di spettatore s’aggiunse – pure qui sia consentito
l’eufemismo – il prender nota, in una sorta di diario, imbottito
di ritagli di giornali. Un blog cartaceo, diciamo. Il primo post –
quindici righe su un foglio a quadretti – reca la data del 26
maggio 1970, a commento di quel che alla tv, la sera prima, aveva
detto un semisconosciuto Almirante, che lanciava il suo appello a
quanti non avessero intenzione di «farsi comunistizzare»...
A che
pro, nell’economia dell’argomentazione, questa premessa
autobiografica? Per millantare un po’ di auctoritas –
confesso – e facendolo nel modo più disonesto, che è quello di
far scivolare suggestioni tra aneddoti. Il maestro indiscusso di
questo trucchetto era Andreotti: partiva sempre da un aneddoto che
datava trenta, quaranta, cinquant’anni addietro, nessuno poteva
smentirlo, i personaggi erano tutti morti, rimaneva solo lui a
testimoniare che fosse andata veramente come raccontava, sicché
l’aneddoto era – insieme – memoria e messaggio, storia e
metafora, deposito e trincea.
Insomma,
avrei potuto farla meno lunga, e soprattutto più pulita, dicendo «è
da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane», e
subito arrivare al punto, ma a quel punto il punto non sarebbe stato
fermo al punto cui volevo fissarlo: infilandoci Saragat e Almirante,
nonno e tv in bianco e nero – avevo pensato di infilarci pure papà
che a quattro anni mi insegna a leggere sui titoli de l’Unità,
poi mi è sembrato troppo – volevo darle un peso che forse non ha,
perché in fondo l’età non fa merito in nulla, comunque non di
questi tempi, e insomma, niente, facciamo come quando il blog era
cartaceo: un tratto di penna sopra, e tutto daccapo.
* * *
1. È
da più di mezzo secolo che seguo le cronache politiche italiane, ma
non ho mai visto un governo cui i sondaggi attribuissero tanto consenso
e che – insieme – godesse di tanta cattiva stampa.
Chiariamoci.
So bene che i sondaggi sono spesso inattendibili, e che ancor più lo
è il prestare ascolto alle chiacchiere colte al volo su un mezzo di
trasporto pubblico o alla cassa di un supermercato, che peraltro
possono cambiar di segno nel giro di pochi mesi, visto che la plebe è
plebe, e sul fatto che lo sia nessuno nutre dubbi, soprattutto se non
sente di farne parte. Io che da sempre me ne sento fuori, e che da
sempre trovo plebei anche molti patrizi, porgo l’orecchio a queste
voci ed è in esse, assai più che in quelle di Di Maio e di Salvini,
che trovo l’embrione di una dittatura: leghisti e grillini hanno il
consenso che di solito la plebe dà a chi incarica di far riscatto,
previa vendetta.
Le ho sentite, in questo mezzo secolo, le voci di
consenso a Fanfani e a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, ma in esse già
c’era la crepa che apriva al dopo, all’ennesimo riscatto, previa
vendetta. Stavolta, no. Stavolta è il consenso disperato che si dà
all’ultima speranza, come se dopo non ci fosse più niente di
seppur vagamente somigliante alla democrazia. Perciò credo che, se
questo governo dovesse cadere troppo presto, ne vedremmo delle
brutte, ma brutte davvero, perché un’opposizione in grado di farlo
cadere non c’è, e quindi a farlo potrebbe essere solo chi sarebbe
comunque sentito come «nemico del popolo», innescando una reazione
a catena dagli esiti imprevedibili, ma comunque esiziali. Credo che
l’unico ad averlo capito sia Mattarella, che non è mai riuscito a
mandar giù il rospo uscito dalle urne, ma si muove con molta più
circospezione del suo predecessore, conscio che a sputarlo fuori
dovrebbe ingoiarlo di nuovo: cerca di digerirlo, ma si vede che è
digestione difficile.
Gli altri – Pd in primis – scommettono sul
default, contano su Bruxelles, sperano che salti l’intesa tra
leghisti e grillini, stanno agguerriti sull’omesso congiuntivo,
sulla felpa cafona, sul tweet improvvido. C’è da compiangerli,
poveretti, non hanno capito niente: sperare che lo spread salga,
facendo finta di disperare; chiamare in soccorso l’esercito
straniero, che non soccorre mai a gratis; seminare zizzania tra due
anime diverse, certo, ma ormai saldate da un inaudito consenso
popolare, disponibili a dissaldarsi solo per lo spazio di una nuova
campagna elettorale; segnalare quanto siano zotici e ignoranti questi
parvenu al governo, e segnalarlo a un popolo che in gran parte è
zotico e ignorante; questo, e il resto, si traduce nello sterile e
ormai logoro esercizio di parlare a se stessi, chiudendosi in
assedio. Non hanno capito niente, e si può capire, sennò non
dimezzavano i voti in un lustro: cretini e arroganti, incapaci non
meno di chi accusano d’incapacità, non si rendono conto che è
impossibile recuperare consenso, che sono bruciati più di
Berlusconi.
Anche
volendo dar per certo che il consenso attribuito a questo governo dai
sondaggi sia assai sovrastimato, però, c’è di incontestabile che
tv e giornali non sono mai stati tanto ostili ad un governo che dalla
sua formazione ad oggi, invece, non mai visto flettere il consenso
all’unione delle forze che lo sostengono in Parlamento; e «tv e
giornali» è da intendere in senso estensivo, con quanto ci gira
dentro e intorno, ed è questo che dà la più evidente misura della
distanza tra l’opinione pubblica e quello che dovrebbe
rappresentarla (eventualmente formarla), perché questa variegata
gens che campa di intrattenimento e arti varie sconta il peccato
originario d’essere stata sempre a libro-paga di chi investiva nell’informazione a copertura di ben più seri cazzi propri, e ora vive il disorientamento di chi è a corto di marchette.
Mai
tanta ostilità a un governo da parte di tv e giornali: sul piano
quantitativo, giacché le voci che gli sono a favore si contano
davvero sulle dita di una mano, e parlo delle voci che godono di
qualche autorevolezza, perché quelle dei social network sono
aristocrazia della plebe, ma pur sempre plebe (diciamo che il
bandwagon del 4 marzo fa fatica a imbarcare vip); ma pure su quello
qualitativo, perché neppure con Berlusconi a Palazzo Chigi ho visto
tanto accanimento, la cui misura sta nella qualità degli argomenti,
con intelligenze che fino a poco tempo fa davano prove di raro acume
e oggi, contro i giallo-verdi, producono argomenti davvero patetici,
che finiscono per andare a loro favore...
No, neanche così va bene, sembra il delirio di chi goda del veder finalmente soddisfatto un personale desiderio di vendetta. Ha il sapore di un risentimento infine ristorato dalla tragedia. Peraltro non sa neppure farsi scudo di eufemismi: come se chi ha sempre considerato plebei tutti i patrizi che gli capitavano a tiro oggi sbottasse in un «vi meritate che la plebe vi sbrani: sono bestie, ma voi non siete diversi, e in più siete sempre stati prepotenti e supponenti». No, non va bene, che figura ci faccio? Tutto daccapo, via.
* * *
Direi
che il paese sia di nuovo spaccato in due, ma stavolta la spaccatura
non è verticale, tra destra e sinistra, ma orizzontale, tra basso e
alto, e il fronte non divide due campi pressoché speculari, ma, d’un lato, c’è un ventre che col tempo è diventato sempre più gonfio di rabbia e, dall’altro, un
cervelluzzo rammollito da agi e privilegi. Così, quando si afferma
che lo scontro oggi è tra popolo ed élite, e che questo prepara la
catastrofe della democrazia, che invece può reggere solo sulla capacità dare
legittimità all’élite che è capace di selezionare per darle la guida della
società, io mi chiedo perché quella selezionata non sia
riuscita a farlo a dovere, né a rinnovarsi per far fronte ai
problemi insorgenti. Rinunciando all’eufemismo, che cazzo di élite
era? E con quale diritto, dunque, oggi reclama l’autorevolezza di
cui si sente essere stata spogliata con l’inganno e la violenza
degli spregiudicati avventurieri che menano l’Italia alla rovina?
Con quale credibilità ritiene di poter mettere in allarme il paese
perché il Def dei giallo-verdi minaccia di aggravare un debito
pubblico che è proprio lei ad aver portato al 132%?
Gran bel pezzo che fa molto riflettere su tanto: anche su quello che non si condivide, soprattutto su quello che non si condivide. E sì, il clima rappresentato è proprio quello nel quale siamo immersi.
La funzione di un' élite non è quella di governare un paese ma di amministrarlo (cioè di garantire una certa indispensabile unitarietà politico-culturale-economica-mediatica). Governare significa decidere dove si va, amministrare significa fare in modo che, dovunque si vada, si faccia in ordine e insieme. Per assolvere a questa funzione è necessario che ogni élite si basi sulla condivisione di alcuni principi (decidete voi se chiamarli metafisici, morali, culturali o che so io ). Questi principi (quasi sempre taciti, cioè non posti come dati storici ma come leggi naturali) forniscono, al tempo stesso, i criteri di cooptazione e quelli di selezione. Per l' élite di cui nel post si parla questi principi erano tre:
a) non esistono e non potranno più esistere le ideologie
b) lo stato non può stampare moneta
c ) la funzione principale dello stato è quella di aumentare il benessere materiale degli individui
Questi principi fornivano, come sempre, sia i criteri di cooptazione (si veniva ammessi solo se si condividevano ), sia i criteri di selezione (tra chi li condivide primeggia chi riesce ad avere più consenso politico, indipendentemente dai mezzi usati per ottenerlo e dai contenuti, e chi vanta, in campo economico, credenziali accademiche o pratiche più appariscenti.
Un'élite decade quando i principi su cui si basa e che sono la sua ragione d'essere entrano in una contraddizione insanabile. In questa caso un'élite non ha nessuna possibilità di salvarsi per due motivi. Primo perché, non esprimendo nessuna soggettività, è incapace di un' elaborazione critica autonoma. Secondo perché persone cooptate e selezionate sulla base di determinati principi difficilmente possono mettere in dubbio tali principi. Mai, in ogni caso, possono farlo pubblicamente.
La decadenza di un'élite non significa però la fine della democrazia, significa che i vecchi principi verranno sostituiti, in tutto o in parte, da nuovi principi i quali, a loro volta, genereranno un'altra élite.
Che dire, ha perfettamente ragione. Ma più che un post mi pare un referto autoptico. Alessandro
RispondiEliminaGran bel pezzo che fa molto riflettere su tanto: anche su quello che non si condivide, soprattutto su quello che non si condivide.
RispondiEliminaE sì, il clima rappresentato è proprio quello nel quale siamo immersi.
RispondiEliminaLa funzione di un' élite non è quella di governare un paese ma di amministrarlo (cioè di garantire una certa indispensabile unitarietà politico-culturale-economica-mediatica). Governare significa decidere dove si va, amministrare significa fare in modo che, dovunque si vada, si faccia in ordine e insieme. Per assolvere a questa funzione è necessario che ogni élite si basi sulla condivisione di alcuni principi (decidete voi se chiamarli metafisici, morali, culturali o che so io ). Questi principi (quasi sempre taciti, cioè non posti come dati storici ma come leggi naturali) forniscono, al tempo stesso, i criteri di cooptazione e quelli di selezione. Per l' élite di cui nel post si parla questi principi erano tre:
a) non esistono e non potranno più esistere le ideologie
b) lo stato non può stampare moneta
c ) la funzione principale dello stato è quella di aumentare il benessere materiale degli individui
Questi principi fornivano, come sempre, sia i criteri di cooptazione (si veniva ammessi solo se si condividevano ), sia i criteri di selezione (tra chi li condivide primeggia chi riesce ad avere più consenso politico, indipendentemente dai mezzi usati per ottenerlo e dai contenuti, e chi vanta, in campo economico, credenziali accademiche o pratiche più appariscenti.
Un'élite decade quando i principi su cui si basa e che sono la sua ragione d'essere entrano in una contraddizione insanabile. In questa caso un'élite non ha nessuna possibilità di salvarsi per due motivi. Primo perché, non esprimendo nessuna soggettività, è incapace di un' elaborazione critica autonoma. Secondo
perché persone cooptate e selezionate sulla base di determinati principi difficilmente possono mettere in dubbio tali principi. Mai, in ogni caso,
possono farlo pubblicamente.
La decadenza di un'élite non significa però la fine della democrazia, significa che i vecchi principi verranno sostituiti, in tutto o in parte, da nuovi principi i quali, a loro volta, genereranno un'altra élite.