domenica 10 marzo 2019

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Nel corso dell’evoluzione abbiamo perso la consuetudine di spulciarci a vicenda, pratica di affettuosa cura che presso gli altri primati, soprattutto scimpanzé e bonobo, rinsalda le relazioni tra i membri del gruppo per la forte carica empatica che la connota, al punto da poterle attribuire funzione di «collante sociale», come ormai unanime parere fra gli etologi. Tutto il contrario di quanto accade tra gli umani, dove «fare le pulci a qualcuno» è percepito come il «cercar[n]e accanitamente i difetti e gli errori [...] con spirito animosamente pignolo e malevolo» (Gabrielli – Hoepli, 2018), e sì che nessuno è immune da difetti, tutti incorriamo in errori, e gli uni e gli altri – si rifletta, la metafora non suonerà a iperbole – ci succhiano sangue più degli avidi sifonatteri, per giunta senza neanche darci modo di accorgercene, perché dei molesti insettacci almeno si può avvertire la presenza per il prurito causato dal loro morso, particolarmente irritante. Non così dei nostri inevitabili sbagli, delle immancabili magagne che affliggono anche il più amabile carattere: a irritarci è che qualcuno ci faccia le pulci, mentre troviamo adorabile chi ci carezza il pelo senza frugarci dentro. Scimmie che hanno smarrito il senso della gratitudine, ecco che siamo.

Ogni tanto smarriamo pure il filo del ragionamento, perché qui, sviato dalle implicazioni dordine morale di cui si è fatta greve la premessa, non rammento più dove volessi andare a parare. Volevo ringraziare una tantum quanti hanno fatto le pulci a queste pagine da quindici anni a oggi? Possibile. Nel caso, un sentito grazie a tutti. Se un poco mi conosco, però, è difficile.

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