Per
un editoriale a sua firma, apparso sul Corriere
della Sera
di sabato 11 gennaio (Il
razzismo e i suoi confini),
Ernesto Galli della Loggia è stato fatto oggetto di molte critiche,
che evidentemente aveva messo in conto, perché le rigettava in
anticipo, laddove, in chiusa al testo, faceva cenno a quell’«algido
idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza
del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di
razzismo».
Per come gran parte delle critiche al suo editoriale sono state
argomentate, si è costretti a dargli ragione, perché a muovergli
l’accusa
di criptorazzismo è parso potesse bastare quel suo aver fatto cenno
alla percezione di diversità che si può trarre dal confronto con
l’«altro»
come a «un
dato normale dei comportamenti umani»:
cosa, infatti, se non un «algido
idealismo»,
può ardire a criminalizzare ciò che è «umano»
perché «normale»
e/o viceversa?
L’argomento
è delicato e non voglio lasciar adito a fraintendimenti, quindi
chiarisco subito la mia posizione riguardo a questo aspetto, e lo
faccio avanzando un’ipotesi.
Io credo che Galli della Loggia non si sia solo limitato a mettere in
conto le critiche al suo editoriale, ma abbia anche cercato di fare
in modo che fossero tali da poter essere agevolmente, a suo parere,
rigettate come espressione di quegli «alti
principi» che
guardano all’«umanità»
e alla «normalità»
come
a «bassi
istinti».
«Alti
principi» e
«bassi
istinti»,
infatti, sono proprio le locuzioni che sceglie, virgolettandole nel
testo, per rappresentare il conflitto dal quale i primi corrono il
rischio di uscire sconfitti, sicché il suo editoriale pone una
questione fondamentalmente tattica: a una «politica
[che] è
sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato
culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la
possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di
sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate»,
è sensato opporre
solo «la
forza del tabù»?
Domanda retorica, come è ovvio, e noi sappiamo che una domanda
retorica mira sempre ad ottenere una risposta predeterminata. Se qui
chiede e ottiene il nostro «no»,
è chiaro che diventa possibile e per certi versi addirittura
necessaria una mediazione tra «alti
principi» e
«bassi
istinti»,
una terza posizione che non criminalizzi la percezione di diversità
dell’«altro»,
a patto che da essa non discendano «misure
a qualunque titolo discriminatorie».
Certo – concede Galli della Loggia – siamo in presenza di
razzismo «quando
con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la
nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con
coloro che invece la condividono»,
ma è conveniente prima che legittimo – o, a piacere, è legittimo
prima che conveniente – stigmatizzare come razzista l’«umanità»
e la «normalità»
di
quella percezione di diversità?
Altra domanda retorica. Qui la
risposta suggerita come la sola possibile è un po’
più articolata:
«denunciarla
come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento
che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene
io allora sono razzista».
Convincente? Occorre un chiarimento. Indispensabile a procedere, come
vedrete.
Quest’ultimo
virgolettato, infatti, come un altro più sopra riportato («un
dato normale dei comportamenti umani»),
sono nel corpo del testo pubblicato dal Corriere
della Sera,
ma tratti da un volume di Claude Lévi-Strauss (più propriamente da
una sua conversazione con Didier Eribon, edita in Francia nel 1988,
per i tipi di Odile Jacob, col titolo De
près et de loin),
che Galli della Loggia ha ritenuto poter addurre a incontestabile
argumentum
ab auctoritate.
In sostanza, la risposta predeterminata che qui ci era richiesta
coincideva col doveroso assenso al parere di quello che i dizionari
enciclopedici definiscono «padre
dell’antropologia».
Indispensabile, questo chiarimento, ad introdurre la
più
argomentata delle critiche all’editoriale
di Galli della Loggia, che infatti è stata prontamente mutuata da
chiunque ha avvertito che non si potesse dargli torto opponendo solo
«la
forza del tabù».
Mi riferisco a ciò che ha scritto Piero Vereni, «antropologo,
professore associato all’Università
di Roma Tor Vergata»,
come apprendo dalla homepage del suo blog, Fuori
tempo massimo:
il suo post è divenuto in breve argumentum
ab auctoritate di
chi altrimenti avrebbe dovuto accontentarsi di costruire l’ipotesi
accusatoria di criptorazzismo solo sulla base di alcune pur
infelicissime immagini prodotte da Galli della Loggia a esempio di
percezione di diversità dell’«altro»,
che in quanto espressioni di stereotipi, peraltro anche abbastanza
logori, avevano in radice il vizio della generalizzazione e del
pregiudizio («non
volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a
causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del
cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere
dei vicini di casa rom»).
Quanto sia stato letto con attenzione, il Vereni, non ha
importanza, contava che, da antropologo, potesse offrirsi ad
argumentum
ab auctoritate a
destituire di auctoritas
l’argumentum
ab auctoritate scelto
da Galli della Loggia. E in questo, occorre dire, non si è
risparmiato, perché quasi la metà delle sue 26.653 battute spazi
inclusi è spesa a dirci che quello di De
près et de loin è
un Lévi-Strauss ultra-ottantenne e semi-rincoglionito,
«rincantucciato
in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente
concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva
pensato e scritto fino agli anni Settanta»,
e che il volume stesso altro non è che «un
piccolo esercizio di furbizia editoriale, che immagino Eribon abbia
saputo sfruttare per la sua carriera accademica».
Sarà che i maldicenti pettegolezzi degli accademici sono sempre
molto più affascinanti di quelli delle shampiste, ma almeno a me il
Vereni ha dato l’impressione
di sapere il fatto suo.
Poi, però, c’è
che l’impressione
non basta, e per una
diagnosi di semi-infermità mentale, per una condanna al ludibrio per
posizioni ideologiche, è possibile venga voglia di argomenti, e uno non
ne trovi di convincenti. Però almeno trova le ragioni per le quali
Lévi-Strauss avrebbe torto, e con lui ovviamente anche Galli della
Loggia. Vale la pena darci un’occhiata.
È che entrambi hanno un errato concetto di cultura: le
attribuiscono due caratteristiche (compattezza interna e distinzione)
che non hanno e non possono avere.
«Oggi
–
scrive il Vereni – l’antropologia
culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente
distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è
meno significativo né meno distintivo per il fatto che,
oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi
nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui
considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di
porzioni di culture “altre”, senza eccezioni».
Se però è così che stanno le cose, il problema non è solo il
vecchio Lévi-Strauss: in quale opera del giovane Lévi-Strauss,
infatti, v’è
cenno a questo «continuo
culturale» che
renderebbe immotivata, se non per pregiudizio criptorazzista, la
percezione di diversità che un cacciatore nambikwara del Mato Grosso
può avvertire dinanzi a un ragioniere brianzolo e viceversa? E
allora che senso aveva calcare tanto la mano sulla vecchiaia del
Lévi-Strauss di cui si serve Galli della Loggia? Bastava dire che,
sì, sarà stato pure il «padre
dell’antropologia»,
ma poi quella è cresciuta e l’ha
ripudiato.
Ma c’è
di più. Volendo, infatti, recepire in toto la critica a un concetto
di cultura cui si attribuiscano stati d’animo
e sentimenti autonomi – in realtà solo per metonimia, perché è
evidente che questi sentimenti e stati d’animo
sono attribuiti a chi si percepisce, a torto o a ragione, in un
distinto perimetro culturale – in
che modo pensiamo di poter fare i conti con la percezione di
diversità che il cacciatore del Mato Grosso può avvertire rispetto
al ragioniere di Monza, e viceversa? Più in generale, il concetto di
cultura che il Vereni ci assicura essere quello genuino consente
ancora, chessò, a un forlivese di poter dire che un certo tipo di
cucina – bengalese o meno – non gli aggrada? Potrà scappargli
ancora di dire, d’istinto,
che trova più graziosi i genitali femminili al naturale che dopo
un’infibulazione?
Perché è chiaro che dopo la lectio magistralis del Vereni nessuno
oserà più disegnare confini netti tra cultura e cultura, ma poi può
darsi che nel «continuo
culturale»
a qualcuno possa scappare lo stesso di cogliere un «di
qua»
e un «di
là»
e dall’arco
riflesso del nostro aggiornatissimo concetto di cultura possa partire
il dardo di un’accusa
di criptorazzismo. Ho come il presentimento che potrebbero derivarne problemi.
Sono andato a leggere il testo del Vereni. Mi è sembrato un po’ greve l’espediente di travestirlo da “lettera che ho pensato per i miei colleghi e le mie colleghe antropologhe”. D’altra parte, da S.Paolo a Don Milani, l’epistola resa pubblica è genere letterario di successo. Per quanto riguarda le argomentazioni, dico solo che il linguaggio inutilmente abrasivo contrasta con la rivendicazione di autorevolezza scientifica. Ma poi c’è la chiusa, la chiusa. Si parte da una retorica assunzione di responsabilità (non abbiamo spiegato abbastanza, noi antropologi) ma poi si va subito sul pedagogico: d’ora in poi vi insegniamo noi a pensare, pezzi di merda.
RispondiEliminaNiente olio di ricino, per fortuna.
In effetti l'olio di ricino è stato un prodotto culturale tutto italiano, se non ricordo male.
RispondiEliminaChe il Vereni consideri poi "pezzi di merda" parte dei suoi lettori è tutto da provare,mentre per quel che mi riguarda ,personalmente non ho mai avuto problemi,all'interno della mia cultura a provare simili considerazioni,senza andare troppo lontano.
caino
Aggiungerei un tema che mi sembra dirimente. Se quell'idiosincrasia personale che ognuno di noi ha per quanto è diverso da sé la chiamiamo razzismo, è chiaro che si può arrivare a dire che tutti siamo razzisti. Ma si tratta di una condizione dinamica e spesso temporanea, per cui chi oggi disprezza l'odore del cibo bengalese può arrivare a apprezzarlo, col tempo, familiarizzandosene. E, facendo un esempio a capocchia, con tutti i problemi di allergie che ci sono in giro, precludersi un cibo soltanto per motivi etnici, quando potrebbe essere l'unico che siamo in grado di tollerare, potrebbe non essere una buona scelta. Differente mi pare la scelta di fare di questa idiosincrasia personale un fatto politico. A quel punto, i confini mi pare tornino abbastanza chiari. E non vale accusare di ipocrisia chi, pur idiosincratico nel personale (diciamo pure razzista), faccia una scelta politica che non vada in quella direzione. Come pure mi sembra irrilevante stabilire se Salvini sia davvero più razzista dei suoi avversari, quando è chiaro che la sua scelta è appunto politica. Potrebbe addirittura fargli schifo fare discorsi razzisti. Ma Parigi val bene una messa, qualunque sia la religione che si abbraccia.
RispondiEliminacazzo, non si finisce mai d'imparare
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