Il
Liside
di Platone, che per oggetto ha l’amicizia,
chiude
con la constatazione che se n’è
discusso a vuoto: «Non
siamo stati in grado di dire cosa sia».
È quello che solitamente accade quando si ritiene superfluo trovare
un preliminare accordo sul significato da assegnare al termine che
designa l’oggetto della discussione: ciascuno dà per scontato non
gliene si possa dare uno diverso da quello che a lui sembra essere il
più appropriato e, confidando in questo, si procede, almeno fino
quando comincia a serpeggiare la sensazione che si è a un parlar tra
sordi. Già è tanto quando si è in grado di intuire che il
fraintendersi è reciproco, perché più spesso accade che ciascuno
creda sia l’altrui
malafede a volerlo travisare, e slealmente, visto che discutere
rimanda sempre – in ultimissima analisi – o al duello o al gioco
o al baratto. Questo
rischio incombe su ogni discussione, ma non c’è
da stupirsi che si sostanzi con più frequenza, e con le più
infauste conseguenze, quando si discute di sentimenti, perché di
essi è assai difficile immaginare un tipo di esperienza diverso da
quello che abbiamo fatto noi.
Col Liside, quindi, siamo alle solite, e tuttavia desta stupore il fatto che a commettere l’errore, qui, sia proprio il Socrate del τί ἐστι a premessa di ogni speculazione, e ancor più strano è il fatto che v’incorra proprio quando in discussione è la φιλία, e cioè un sentimento che, assai più della pietà o del dolore, dello stupore o del rancore, della noia o della nostalgia, ha contorni imprecisi, giacché mutua generosità e premura dalla ξενία, e per familiarità e dimestichezza è spesso indistinguibile dalla στοργή, mentre per l’incondizionato e disinteressato affetto somiglia all’αγάπη, senza che le sia estraneo, seppur sublimato, il piacere dell’intimità e della complicità che è dell’έρως. Così, quando la discussione si incarta, Socrate è costretto ad ammettere: «Forse non abbiamo impostato correttamente la ricerca». Di fatto, nel reimpostarla, la φιλία continua a restare senza definizione condivisa, sicché in breve si arriva ancora a un punto morto, e ci si chiede: «A che scopo continuare a discutere?». L’imbarazzo è risolto mettendoci una pezza, che francamente, però, è patetica: s’è fatto tardi, arrivano i pedagoghi di Liside e Menesippo a portarseli via, il gruppo deve sciogliersi, la discussione è rimandata ad altra occasione.
Col Liside, quindi, siamo alle solite, e tuttavia desta stupore il fatto che a commettere l’errore, qui, sia proprio il Socrate del τί ἐστι a premessa di ogni speculazione, e ancor più strano è il fatto che v’incorra proprio quando in discussione è la φιλία, e cioè un sentimento che, assai più della pietà o del dolore, dello stupore o del rancore, della noia o della nostalgia, ha contorni imprecisi, giacché mutua generosità e premura dalla ξενία, e per familiarità e dimestichezza è spesso indistinguibile dalla στοργή, mentre per l’incondizionato e disinteressato affetto somiglia all’αγάπη, senza che le sia estraneo, seppur sublimato, il piacere dell’intimità e della complicità che è dell’έρως. Così, quando la discussione si incarta, Socrate è costretto ad ammettere: «Forse non abbiamo impostato correttamente la ricerca». Di fatto, nel reimpostarla, la φιλία continua a restare senza definizione condivisa, sicché in breve si arriva ancora a un punto morto, e ci si chiede: «A che scopo continuare a discutere?». L’imbarazzo è risolto mettendoci una pezza, che francamente, però, è patetica: s’è fatto tardi, arrivano i pedagoghi di Liside e Menesippo a portarseli via, il gruppo deve sciogliersi, la discussione è rimandata ad altra occasione.
Comprensibile
che sia sempre parso il più scombiccherato dei dialoghi platonici,
il Liside.
Plato,
però, mi è amicus,
e la veritas
potrebbe ferirlo. Dirgli
o non dirgli, allora, che il Liside
fa cagare? La cortesia cui mi obbliga la
ξενία
consiglierebbe
di evitarlo. Non così la fraterna franchezza della
στοργή.
L’έρως,
poi, mi consente confidenza e gli garantisce la mia connivenza: sa
bene che la cosa resterebbe tra di noi, non lo direi mai ad altri. Ma
l’amorevole
delicatezza che mi impone l’αγάπη
può
farmi correre il rischio di ferirlo.
E
dunque cosa farò per onorare la φιλία?
Fossi
Aristotele, non avrei problemi: suo, infatti,
è quel «άμφοΐν
γαρ οντοιν
φίλοιν οσιον προτιμάν την άλήθειαν»
(Etica
nicomachea,
1096a 16-17) che poi diventerà il celeberrimo «Plato
amicus, sed magis amica veritas»,
e che chissà non vada letto in combinato disposto a quell’«amici
miei, non ci sono amici» che
non ha scritto da nessuna parte, ma che pure gli viene unanimemente
attribuito.
Io, però, non sono Aristotele. Già il fatto che mi
ponga il problema se dire o no a Platone che il Liside
fa cagare, ed eventualmente come dirglielo, dimostra che credo
nell’amicizia.
Spacciare, poi, per άλήθεια
un’opinione
personale, in più per preferirla come amica
a Plato,
mi pare tradisca ogni possibile definizione di amicizia.
Chi
mi dice, per esempio, che il Liside
non sia volutamente inconcludente per dimostrare a chi sa leggerlo
come si deve che la φιλία
è
indefinibile per la semplice ragione che non è possibile?
Aspetta un
attimino, aspetta un attimino: sul punto, dunque, Platone
anticiperebbe Aristotele? Bell’amicus,
’sto
Plato!
E io qui a farmi tanti scrupoli se dirgli o no, e come, che il Liside
fa cagare? Certo che fa cagare, e ora glielo dico. Cioè: prima
promuovo a veritas
la mia opinione, poi le faccio l’onore
di dirla mia amica,
e infine sparo: Plato,
’sto
dialogo è ’na
merda!
Si scherza, naturalmente, ma neanche tanto, eh! Comunque,
torniamo all’amicizia.
All’amicizia
vera, dico. A quella che la veritas,
vabbè, ma con tatto e moderazione, e solo se l’amico
non è permaloso. Di più: torniamo all’amicizia
sulla quale Platone non è riuscito a dire niente di sensato, ma
Montaigne sì. Prendiamo i suoi Essais
e abbeveriamoci alla fresca fonte della sua disarmata e disarmante
franchezza.
Montaigne sembra volere arrivare al τί
ἐστι procedendo
a spirale, e gira, gira, «quelli
che chiamiamo abitualmente amici e amicizie sono soltanto
dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o
vantaggio»,
e stringi, stringi, «in
queste amicizie ordinarie bisogna procedere con prudenza»,
seguendo il precetto di Chilone («amatelo
come se un giorno doveste odiarlo; odiatelo come se un giorno doveste
amarlo»),
«tanto
obbrobrioso nel caso di una amicizia signora e sovrana, quanto
salutare nella pratica delle amicizie ordinarie»,
per arrivare a cosa, poi? Che di amicizia vera lui ne conosce una
sola, quella che ha condiviso con Étienne de La Boétie (l’autore
de La
Servitude Volontaire).
Bene, e a darcene una ragione? «Perché
era lui; perché ero io».
E questa sarebbe una definizione?
Più utile il materiale di scarto:
ci è chiaro, ma già un sospetto l’avevamo,
che le cosiddette amicizie ordinarie vivono della rappresentazione di
quegli affetti (ξενία,
στοργή,
αγάπη,
έρως)
che
della φιλία
si
offrono come succedanei. Di più, la loro mera rappresentazione
(quella che da ύπο-κρίσις
ci mette niente a diventare ipocrisia)
è la lingua del legame sociale. Possiamo, allora, definire
l’amicizia
come l’ambito
ristretto del sociale dove la rappresentazione deve coincidere col
rappresentato? Sì, ma come ci suggerisce Franco La Cecla (Essere
amici
– Einaudi, 2019),
«l’amicizia presuppone la sua revoca, non è né un diritto né un
dovere»:
è «un’ingiusta
gratuità»,
e ingiusta «perché
non è offerta a tutti».
Nemmeno i
dizionari ci vengono in aiuto. È «affetto
vivo e reciproco tra due o più persone» (Zingarelli),
ma siamo certi che la sostanza dell’amicizia
tra due persone sia uguale a quella tra più persone? È «vivo
e scambievole affetto fra due o più persone, ispirato in genere da
affinità di sentimenti e da reciproca stima»
(Treccani), «sentimento
affettuoso, tra due persone, ispirato generalmente da stima e
simpatia reciproca»
(Palazzi) ma la stima implica una scala di valori: è indispensabile
che questa scala sia condivisa? E, se sì, questa condivisione
implica qualcosa in più o qualcosa in meno del «legame
basato su reciproco affetto, stima, fiducia»,
che
parrebbe elemento essenziale per De
Mauro? Dobbiamo parlare, allora, di un «reciproco
affetto, costante e operoso, tra persona e persona, nato da una
scelta che tiene conto della conformità dei voleri o dei caratteri e
da una prolungata consuetudine» (Devoto-Oli)?
Non è una definizione che esclude molte altre, altrettanto sincere,
amicizie?
Non se ne può più, speriamo che arrivino presto i
pedagoghi di Liside e Menesippo a portarseli via.
Si ha bisogno di una definizione quando forse si è persa la memoria, il momento primo in cui il suono viene tradotto in scrittura e ancora prima, quando, in questo caso il sentimento viene espresso in suono, forse?
RispondiEliminaPerché avere la necessità di una definizione quando si è perso, come in questo caso, il sentimento? Intendo quello primitivo, non quello per cui ci si sforza inutilmente ora a descrivere una definizione.
Oggi i pedagoghi sono forse arrivati per stilare affidabili contratti e definizioni certe?
Quanti dubbi su tutte queste certe verità, tuttavia ho trovato molto utile ed istruttivo, questo Liside di Platone, la ringrazio con sincera ammirazione.
"L'amicizia è un patto, una convenzione. Due esseri si impegnano tacitamente a non strombazzare quello che in realtà ciascuno pensa dell'altro. Una specie di alleanza a base di riguardi. Quando uno dei due manifesta pubblicamente i difetti dell'altro, il patto è denunciato, l'alleanza rotta. Nessuna amicizia dura se uno dei partner cessa di stare al gioco. In altri termini, nessuna amicizia tollera una dose esagerata di franchezza."
RispondiElimina(Emil M. Cioran, "Squartamento", Adelphi 1981)
Comunque, Luigi, tu sei assolutamente "out". Siamo nel 2020 e tu ancora ti occupi di Platone quando abbiamo Diego Fusaro.
sì, ma non è che il dialogo "fallisce" perché non si è preliminarmente stabilita una definizione di amicizia (come mi sembra voglia dire lei nella prima parte del post), trovare una tale definizione era appunto lo scopo del dialogo, non poteva esserne una premessa. E la "verità" a cui giunge Platone alla fine è che una definizione di tale termine è impossibile, che è poi la stessa a cui giunge lei confrontando i vari dizionari. La filosofia è appunto il tentativo di trovare un linguaggio comune.
RispondiEliminaL'amicizia è amore puro. Cosa sia l'amore è un altro tema infinito...
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