2. Lorenzo Castellani ha ragione quando scrive che «la sofocrazia platonica implica un ruolo del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Pertinente, a tal riguardo, è la citazione di Domenico Fisichella: «L’idea di competenza si iscrive essenzialmente nella cornice e nella visione della razionalità strumentale, intesa come congruenza consapevole tra mezzi e fini, costi e benefici» (L’altro potere. Tecnocrazia e gruppi di pressione – Laterza, 1997). Tutto giusto, ma perché? Sulla base di quali elementi la competenza che Platone si intesta può essere da lui vantata come superiore a quella del tecnico? Ne L’ingranaggio del potere non ce ne è data ragione, ma è ancora una volta la filologia a darcene spiegazione. Per meglio dire: la filogenesi del significato.
Se, infatti, analizziamo il significato dato a τέχνη lungo il procedere dell’uso che se ne fa, scopriamo che quella che in seguito diverrà tecnica, intesa come arte, mestiere, professione, e più tardi competenza in questo genere di attività, ab initio è mera capacità di τίκτειν, e cioè di un creare, di un generare, che non è molto diverso da un γέννειν o da un φύειν, per diventare quasi subito, però, un fare che implica il possesso di particolari cognizioni e di specifica esperienza: il suo prodotto non è più una naturale γένεσις, ma una artificiale ποίησις (dove artificio, che in greco infatti è τέχνασμα, sta per fatto ad arte); non lo si trova in natura, ma è un manufatto (che in greco infatti è τεχνούργημα).
Quando accade ciò? C’è un modo assai semplice per datare con buona approssimazione questa variazione d’uso del termine, che in buona sostanza coincide col prevalere di un’accezione sull’altra, e quindi di uno scarto nella filogenesi del significato di τέχνη: basta prendere nota degli anni in cui sono vissuti gli autori che il Rocci cita a esempio dei vari significati dati al lemma, e constatiamo che la τέχνη diventa tecnica, smettendo con ciò d’essere generica capacità di τίκτειν, che fin lì è anche della gallina che fa l’uovo o del ramo da cui spunta il bocciuolo, quando la nasce la πόλις. Ben al di là d’ogni suggestione, insomma, vediamo che la tecnica – per meglio dire, il concetto di tecnica come a tutt’oggi inteso – nasce per dar conto di una ποίησις che è funzionale alle esigenze della città-stato: il tecnico, che in quel momento è fabbro, falegname, vasaio, ma anche scultore, ingegnere, architetto, medico, nasce come figura a cui la πόλις assegna un ruolo che è in funzione delle sue particolari cognizioni e della sua specifica esperienza.
Nel già citato Ione di Platone abbiamo visto come questo ruolo implichi una distinzione formale – ripetiamo: «quando una τέχνη è conoscenza di determinati oggetti e un’altra è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e all’altra un nome diverso» (537 D) – che però implica una distinzione sostanziale: «ciò che conosciamo con una data τέχνη non lo conosciamo con un’altra» (537 E). Per Platone, tuttavia, è proprio il fatto che ogni τέχνη abbia un campo d’azione necessariamente limitato a rendere il tecnico inadatto a guidare la πόλις, basta d’altronde leggere il X libro della Repubblica per capire che la superiorità del tecnico è relativa solo al poeta: su tutto ciò che Omero dice riguardo al modo di guidare un carro, solo un auriga può legittimamente dirsi d’accordo o dissentire; su ciò che dice riguardo al modo di curare una ferita, solo un medico; e così via. Parrebbe che il tecnico venga in aiuto di Platone nel momento in cui questi sta portando a termine l’opera iniziata da Socrate: spodestare l’intuizione poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere l’idea al posto della visione. Non è un mistero, infatti, che per Platone la poesia, e in genere ogni forma di espressione artistica, debba essere tenuta lontana dalla πόλις, perché è mimetica, e cioè manipolatrice dell’idea. La sua dottrina delle idee spiega tutto, e non è tempo perso vedere quale ruolo assegni alla τέχνη, e soprattutto perché; ancor più, cosa ne consegua.
In Repubblica, X, 597 B, ci troviamo davanti a «tre letti»: uno è l’idea di letto «che è in natura e che potremmo dire, credo, che l’abbia prodotto Dio»; il secondo, invece, «è quello che ha prodotto il falegname»; mentre il terzo è «quello che dipinge il pittore»; «dunque, il pittore, il fabbricante di letti e Dio sono quei tre che sovrintendono alle tre specie di letti»; ma, mentre Dio ne è φυτουργός, e il falegname ne è δημιουργός, il pittore ne è solo μιμητής; saltando a 601 A, «così, secondo me, potremmo dire che anche il poeta si limita a ravvivare i colori di ciascuna arte, servendosi di nomi e di frasi, non però con conoscenza di causa, ma per via di imitazione». Nella storia dell’umanità è forse il solo caso in cui l’artigiano è stimato più dell’artista: come mai?
La risposta sta nella Preface to Plato (1963) di Eric A. Havelock, e vi ho già fatto cenno prima, seppure in modo ellittico: a Platone interessa spodestare l’intuizione poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere l’idea al posto della visione, perché la posta in gioco è la conquista della πόλις, le cui regole, fino ad allora, sono state tramandate dalla poesia. Si può dettare legge alla πόλις solo dimostrando fallaci o addirittura empi quelli che fin lì la poesia è riuscita a imporre come modelli ideali, con ciò assumendo un ruolo politico. Di qui la necessità di dimostrare che la sua ειδωλοποιητική μίμησις è lontana dall’idea molto più di quanto non lo sia l’αυτοποιητική μίμησις della τέχνη. La quale, dunque, implica una competenza che il sapiente non ha: la vera competenza, anzi, è proprio la sua, perché è solo lui ad avere l’επιστήμη del letto di cui il poeta può darci solo una ειδωλοποιητική μίμησις e il tecnico solo una αυτοποιητική μίμησις. Tornando a ciò che abbiamo detto della competenza come capacità di competere, la competizione è evidente.
[segue]
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