Il sapere non è mai politicamente neutro, non lo è mai stato, non lo sarà mai, perché ciò che lo motiva e lo indirizza, lo sostiene e gli dà fine, è sempre sociale, ineluttabilmente sociale. Ma c’è di più: se la morale altro non è che la pretesa di assolutizzare i mores di una società (i mores che la parte egemone di una società riesce a imporre come informati da valori assoluti) e se l’etica altro non è che la pretesa di imporre un certo ethos come superiore e antecedente all’uomo, o in lui connaturato, e in ogni caso, perciò, universale, eterno, ubiquitariamente valido, e dunque necessariamente cogente, il sapere non è mai moralmente o eticamente neutro. Ne consegue che la competenza in un qualsiasi campo del sapere non può mai dichiararsi politicamente, moralmente, eticamente neutra: se lo fa, è solo per spacciare come indiscutibili moventi e fini sui quali la politica è chiamata a discutere e, peggio, per spacciarli come moralmente ed eticamente superiori rispetto a quelli che dalla discussione politica escono vincenti. Dietro ogni competente c’è la vittoria che egli ha conseguito nella competizione indetta dalla parte egemone di una società al fine di selezionare il sapere che più sia in grado di conservare ed eventualmente potenziare la sua egemonia. Non c’è molta differenza tra le tavole della legge dettate da un roveto ardente e un vitello d’oro costruito dagli uomini: in entrambi i casi, l’esigenza è quella di zittire, ridurre all’obbedienza, sterilizzare la politica, toglierle le ragioni che le danno vita. Nel primato della tecnocrazia sulla democrazia c’è l’incoercibile tentazione chiliastica alla fine della storia, al sopimento dei conflitti, al compimento ultimo di tutte le dialettiche: la parte egemone di una società tenta di perpetuare i suoi privilegi appaltandone la difesa a chi ha pretesa di saperli dimostrare necessari al conseguimento del bene comune. Nell’impossibilità di una democrazia che non sia altro che un’oligarchia ben dissimulata, la tentazione tecnocratica sarà sempre allettante.
ammetto di non saper fare un esempio di una società storica in cui una democrazia non sia stata (e non sia) altro che un’oligarchia più o meno ben dissimulata. E non tifo per Mosca e Pareto. in qualsiasi società di classe è così. e finora, rilevava san Marx, sono esistite solo società storiche di classe. non è bastato nemmeno abolire la proprietà privata dei famigerati mezzi di produzione (e del resto Marx non ha mai sostenuto che ciò fosse sufficiente, come scrive esplicitamente per esempio nelle Glosse al Programma di Gotha). tuttavia, come ogni cosa umana, la speranza è cieca ed è l'ultima a morire.
RispondiEliminaLe classi, azzardo, probabilmente si formano con la divisione del lavoro, nel senso di gruppi omogenei che si specializzano e la loro specializzazione li differenzia, e la differenza crea fatalmente diversità di condizioni materiali e di atteggiamento mentale, nonostante tutti gli sforzi per cancellare tali differenze giudicate dagli egualitari gravi ingiustizie.
EliminaLei sostiene che classi sociali sono un prodotto della divisione sociale del lavoro. Se ci si ferma a questa sua affermazione, si potrebbe dedurre che padroni e salariati sono mero risultato della divisione sociale del lavoro. Il che non è sbagliato, ma rappresenta solo un lato della maledetta faccenda, anche dal punto di vista storico. Tra le altre cose si potrebbe porre la seguente domanda: molti padroni e rentier non fanno un cazzo, sono semplici percettori di reddito, dunque che cosa c’entrano con la divisione sociale del lavoro?
EliminaC’entra il reddito? Anche definire una classe sociale con l’identità delle fonti di reddito o sulle affinità della “qualità della vita”, è tipico di certa sociologia borghese. Dunque ci dev’essere dell’altro oltre alla divisione sociale del lavoro e le fonti di reddito.
Non serve aver letto Marx, basta guardarsi intorno. La definizione di una classe sociale sta in rapporto sia con le condizioni sociali della produzione e sia con la ripartizione del prodotto.
Pertanto, è vero che la struttura delle classi sociali corrisponde alla divisione sociale del lavoro, ma questa divisione dipende dai rapporti di proprietà all’interno di un dato modo di produzione dominante. È per questo motivo che ogni antagonismo sociale deriva in ultima analisi della contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma privata della appropriazione del prodotto. È il lavoro sociale da un lato e l’appropriazione privata del prodotto dall’altro che vengono a contrapporsi direttamente come classi sociali.
Quanto alle “gravi ingiustizie”, creda che non c’entrano nulla con la teoria delle classi sociali, almeno per quanto mi riguarda.
La divisione del lavoro, intesa come divisione dei compiti, sembra un dato irriducibile all'interno di una società (non tutti infatti possono fare lo stesso mestiere), sono invece riducibili le classi, nel senso che si potrebbero eliminare, nel suo discorso, cambiando il modo di produzione dominante. Basterà dunque garantire un'equa distribuzione del prodotto per sopire le istanze e le aspirazioni delle diverse categorie generate dalla divisione del lavoro? E ancora: se è vero che è la vita a determinare la coscienza, non è forse l'ineluttabile divisione del lavoro (e dunque la necessità stessa del lavoro) prima ancora del sistema di produzione, a creare le differenze fra gli uomini? Mi ha sempre interessato la questione.
EliminaChe cosa significa “un'equa distribuzione del prodotto”? Non affermano i borghesi che l'odierna ripartizione è “giusta”? Pertanto, che cos’è equo?
EliminaEqua distribuzione a tutti i membri della società, anche a quelli che non lavorano? Il concetto di equità sconta inevitabilmente le impronte materne di questa società, sotto ogni rapporto: economico, morale, spirituale. E poi, se l’equità viene misurata sulla base del contributo di ognuno, è evidente che domina lo stesso principio che regola lo scambio delle merci!
E qui subentra il problema dell’uguale diritto, però inteso e contenuto ancora e sempre entro un limite borghese: il diritto dei produttori proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, in tal modo l'uguaglianza consiste nel fatto che tale diritto viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma non tutti i lavori per loro natura sono uguali, per qualità, rendimento, durata, intensità, ecc.. Il diritto diventa in tal modo un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto.
Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società. Non possiamo liquidare questi problemi in poche righe e con un approccio approssimativo.
È la vita a determinare la coscienza, lei sostiene. Quando parliamo della specie umana dobbiamo essere più precisi: è l’essere sociale a determinare la coscienza. Ultimamente ci siamo un po’ elevati rispetto alle scimmie, anche se a volte non sembra.
Scrive: è l'ineluttabile divisione del lavoro (e dunque la necessità stessa del lavoro) prima ancora del sistema di produzione, a creare le differenze fra gli uomini. Premesso che una data divisione del lavoro è strettamente connessa con un determinato sistema di produzione, pongo a mia volta una domanda: chi ha detto che è ineluttabile? Anche questa ineluttabilità paga scotto alla configurazione economica e allo sviluppo culturale da essa condizionato.
Facciamo caso al fatto, solo per citare un esempio, che il lavoratore salariato è lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso. Superare questo stadio primitivo (primitivo!) sarebbe già un bel passo avanti. In una fase più elevata, dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita, anche la questione del superamento della divisione sociale del lavoro troverà la sua soluzione storica.
Non sarà, se sarà, la lisi di ogni conflitto, il compiuto fine dialettico. C'è una certa differenza tra teleologia e materialismo storico.
“Un'equa distribuzione del prodotto” si intende la più equa distribuzione del prodotto che si verificherebbe in una società trasformata secondo le regole marxiane, ho assunto come possibile questa trasformazione.
Elimina“È la vita a determinare la coscienza, lei sostiene”. Qui si intendeva dire, assumendo il punto di vista marxiano, che “La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale.” (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca). Quindi non sono io che lo sostenevo, intendevo sostenere (“se è vero che”) l'ipotesi marxiana ma probabilmente non ci siamo intesi.
Altra questione. Io ponevo come ineluttabile una certa divisione del lavoro all'interno della società, di qualsiasi società. Dobbiamo dunque capirci bene su questo punto: per lei è possibile una società che non presenta alcuna divisione del lavoro (intesa come differenziazione delle competenze e dei mestieri)?
Mi interessava la questione: la differenziazione emerge perché siamo calati in rapporti di produzione che determinano le nostre condizioni o le nostre condizioni non sono anche il frutto, almeno in parte, di disposizioni caratteriali personali e fisiologiche indipendenti dalla costruzione sociale? Perché poi corriamo il rischio di pensare l'uomo solo come un contenitore inerte che viene riempito a posteriori dai costrutti sociali, che gli danno idee e coscienza, ma siamo davvero così inerti rispetto alla realtà, individui tutti “sociali” e nemmeno un poco “personali”?
“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale.”
EliminaAttenzione però: “degli uomini”, dice Marx. Vita reale quale espressione dell’insieme sociale, non la coscienza del singolo individuo in quanto tale: “l'essere umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l'insieme dei rapporti sociali”.
In altri termini, la coscienza individuale, l’attività di pensiero, è un processo tutto interno al meccanismo vivo della coscienza collettiva di una formazione sociale.
Facciamo l’esempio del bambino: i rapporti sociali esterni costruiti dal bambino si riversano al suo interno, plasmandone la forma della psiche. In tal modo egli acquisisce cognizioni, significati ed esperienze sottoforma di precise modellizzazioni della realtà che lo circonda e dunque di specifici programmi di comportamento.
Ad esempio, giocando con le bambole, la bambina immagina di essere “madre” e di instaurare un rapporto con sua figlia, rappresentata dalla bambola; così facendo, nell’azione del gioco si appropria di questo rapporto sociale, assimila cioè la forma di relazione propria della famiglia borghese. Ed è appunto il sistema di regole e di divieti che questa forma generale di relazione comporta che, nel corso del gioco, la bambina interiorizza come programma di comportamento specifico, automatico, per quel dato rapporto sociale. Altri esempi potrebbero riguardare i giochi dei bambini maschi. Così il sistema di relazioni che con l’andar del tempo apparirà “naturale”, altro non è che la fissazione profonda, inconscia, di una forma di relazione storica determinata: quella dell’ideologia dominante, segnatamente dei modi e delle forme d’essere e di rappresentazione che la classe di appartenenza considera “naturalmente” proprie (si potrebbe dire che ne è “assegnataria”.
Poi possiamo registrare attitudini, preferenze e inclinazioni individuali che si discostano da quelle della propria classe sociale di appartenenza, ma ciò riguarda appunto il singolo individuo nell’ambito dell’infinita serie dettata dalla casualità. Nell’insieme però prevalgono le determinazioni ideologiche e sociali di classe, di status, di gruppo, di quello che si vuole.
Se nell'insieme il condizionamento sociale è inevitabile tanto da sopprimere l'aspetto individuale allora non si tratta tanto di eliminare il condizionamento travolgendo questo o quel sistema di produzione ma di sostituirlo con un'altra forma di condizionamento sociale che si ritiene più “liberatoria” per gli uomini, resterà poi da vedere se la coscienza individuale si quieterà permanentemente in questo stato o comincerà a desiderare di provarne di altri.
EliminaLa tentazione del governo tecnico viene da La Repubblica di Platone, date certe premesse, quella di demandare alla ragione la "produzione" della verità, la tecnocrazia è il discorso che ne consegue (è lo spirito dell'occidente). Anzi, mi meraviglio che la tecnocrazia non abbia ancora soppiantato in toto la democrazia, oppure ci siamo già e la democrazia è solo un rituale vuoto (il discorso severiniano della tecnica che da creduto mezzo diventa fine, che da schiava diventa padrona, è attualissimo).
RispondiEliminaSostanzialmente d'accordo, ma con due dubbi:
RispondiEliminaa) Se tutto il mondo è indirizzato in una certo senso, e come organizzazione delle modalità di produzione di beni, servizi e tecnica è così, possiamo parlare di etica - economica - universale?
b) Ci conviene sottrarci a quel modo di produzione, oppure è meglio organizzarla secondo quello standard, posto che inventarne uno nuovo che funzioni è difficile che possa accadere nel nostro paese?
Malvino, ma lei scherza ? Il sapere è sempre politicamente neutro, per definizione. Qualsiasi posizione politica può sempre, in teoria, servirsi di qualsiasi sapere per i propri fini.
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