Jonathan
Littell ha scritto un libro straordinario, Three
Studies after Francis Bacon, raccolti sotto il titolo di Triptych, di cui la traduzione a cura di
Luca Bianco, licenziata da Einaudi nel gennaio di quest’anno, si premura di restituirci
fin dal titolo e dal sottotitolo il tratto che l’autore ha voluto dare al suo
lavoro: Tre studi (non già su, ma) da Francis Bacon, che
insieme fanno un Trittico, a
riproporre anche nel taglio del saggio la caratteristica tripartizione dello
spazio scenico cui l’artista inglese ricorse in più occasioni (stanza come strofa, settore come tagliente, scansione come dissecamento,
ecc.). Al confronto, quello di Gilles Deleuze (La logica della sensazione – Quodlibet, 1999) si appalesa per quel girare
a vuoto di cui avevamo avuto sensazione e anche l’onesto sforzo di Saverio
Falcone (L’Edipo capovolto – La
biblioteca di Vivarium, 1998) si rileva non andato a buon esito, ma quello che
è davvero strabiliante sta nel fatto che il Bacon di Littell è più convincente
del Bacon offertosi nelle tante interviste concesse a Jean Clair, Jacques
Michel, Michael Peppiatt, Maïten Bouisset, Henri-François Debailleux (raccolte
in Intorno la pittura – Graphos,
2000), Michel Archimbaud (Conversazioni
– Le Mani, 1993), David Sylvester (La
brutalità delle cose – Quaderni Pier Paolo Pasolini, 1991): risulta evidente
per piena argomentazione che «Bacon
mentiva di continuo […] perché non voleva che la gente arrivasse troppo
velocemente a scoprire ciò che in realtà era ovvio: vale a dire che i suoi dipinti
raccontavano storie, storie diabolicamente intelligenti ed enigmatiche, storie
talmente intime che spesso forse nemmeno lui sarebbe stato disposto ad
ammettere con se stesso che la nuda verità del proprio essere era stata
improvvisamente proiettata lì sulla tela […] Le ostinate bugie servivano a questo
scopo: avvertivano gli spettatori di non contare su Bacon per una spiegazione» (pag.
28). Da questo assunto parte l’affascinante analisi formale del testo pittorico
e – qui è la novità – rinunciando a voler fare dell’artista il controllore dell’effetto,
ma finalmente ridandogli la dimensione di coagonista del caso che traduce in
espressione il tentativo di impressione, giacché «lo sguardo non è mai innocente» (pag. 54) e l’errore più grave che
si possa commettere con un artista tanto istintivo come Bacon è il non voler
capire che «la figura è l’oggetto del
dipinto [mentre] il soggetto […] è la
pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta»
(pag. 45). L’azzardo, la violenza, il collasso della materia, l’ombra che si
prolunga in carne (e non viceversa): Bacon – scrive Littell – è la più felice
contraddizione del tanto scontato, quanto miope, e forse addirittura ottuso,
convincimento che il capolavoro sia la perfetta realizzazione di un’idea. È che
l’idea viene a realizzarsi con la pittura, attraverso essa.
Alla fine, forse, ci vuole un romanziere per intendere Bacon. Gran bel post, come sempre.
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