giovedì 20 marzo 2014

Trittico




Jonathan Littell ha scritto un libro straordinario, Three Studies after Francis Bacon, raccolti sotto il titolo di Triptych, di cui la traduzione a cura di Luca Bianco, licenziata da Einaudi nel gennaio di quest’anno, si premura di restituirci fin dal titolo e dal sottotitolo il tratto che l’autore ha voluto dare al suo lavoro: Tre studi (non già su, ma) da Francis Bacon, che insieme fanno un Trittico, a riproporre anche nel taglio del saggio la caratteristica tripartizione dello spazio scenico cui l’artista inglese ricorse in più occasioni (stanza come strofa, settore come tagliente, scansione come dissecamento, ecc.). Al confronto, quello di Gilles Deleuze (La logica della sensazione – Quodlibet, 1999) si appalesa per quel girare a vuoto di cui avevamo avuto sensazione e anche l’onesto sforzo di Saverio Falcone (L’Edipo capovolto – La biblioteca di Vivarium, 1998) si rileva non andato a buon esito, ma quello che è davvero strabiliante sta nel fatto che il Bacon di Littell è più convincente del Bacon offertosi nelle tante interviste concesse a Jean Clair, Jacques Michel, Michael Peppiatt, Maïten Bouisset, Henri-François Debailleux (raccolte in Intorno la pittura – Graphos, 2000), Michel Archimbaud (Conversazioni – Le Mani, 1993), David Sylvester (La brutalità delle cose – Quaderni Pier Paolo Pasolini, 1991): risulta evidente per piena argomentazione che «Bacon mentiva di continuo […] perché non voleva che la gente arrivasse troppo velocemente a scoprire ciò che in realtà era ovvio: vale a dire che i suoi dipinti raccontavano storie, storie diabolicamente intelligenti ed enigmatiche, storie talmente intime che spesso forse nemmeno lui sarebbe stato disposto ad ammettere con se stesso che la nuda verità del proprio essere era stata improvvisamente proiettata lì sulla tela […] Le ostinate bugie servivano a questo scopo: avvertivano gli spettatori di non contare su Bacon per una spiegazione» (pag. 28). Da questo assunto parte l’affascinante analisi formale del testo pittorico e – qui è la novità – rinunciando a voler fare dell’artista il controllore dell’effetto, ma finalmente ridandogli la dimensione di coagonista del caso che traduce in espressione il tentativo di impressione, giacché «lo sguardo non è mai innocente» (pag. 54) e l’errore più grave che si possa commettere con un artista tanto istintivo come Bacon è il non voler capire che «la figura è l’oggetto del dipinto [mentre] il soggetto […] è la pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta» (pag. 45). L’azzardo, la violenza, il collasso della materia, l’ombra che si prolunga in carne (e non viceversa): Bacon – scrive Littell – è la più felice contraddizione del tanto scontato, quanto miope, e forse addirittura ottuso, convincimento che il capolavoro sia la perfetta realizzazione di un’idea. È che l’idea viene a realizzarsi con la pittura, attraverso essa. 

1 commento:

  1. Alla fine, forse, ci vuole un romanziere per intendere Bacon. Gran bel post, come sempre.

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