Quando
leggiamo del tizio cui il chirurgo ha asportato il rene sano invece di quello
malato o della tizia col carcinoma radiosensibile alla mammella destra cui è
stata irradiata quella sinistra – e solitamente si tratta di articoli confinati in cronaca,
rubricati come casi di malasanità – a nessuno salta in mente di sollevare
obiezione sul fatto che quel rene malato dovesse davvero essere asportato
chirurgicamente o che quel carcinoma mammario dovesse davvero essere irradiato,
tanto meno di mettere in discussione tout court la chirurgia o la radioterapia,
men che meno di insinuare che quanto accaduto al malcapitato o alla malcapitata
sia il giusto prezzo da pagare per chi osi sfidare il proprio destino invece di
rassegnarvisi. Sono i casi in cui il senso comune cede volentieri al buonsenso,
ma ce ne sono altri in cui fa una fatica enorme, spesso senza riuscirvi.
È il
caso dei due episodi di malasanità che in questi giorni hanno conquistato le
prime pagine dei quotidiani nazionali: quello della donna accidentalmente morta
dopo un’interruzione di gravidanza espletata con l’impiego di Ru486 e quello
della donna cui per errore sono stati trasferiti in utero due embrioni di un’altra
coppia. In entrambi i casi, i fatti vanno assumendo un quadro diverso da quello
prospettato in prima battuta: nel primo, ad essere chiamata in causa non sembrerebbe
essere più la Ru486, ma i farmaci solitamente usati in associazione ad essa, che
qui pare abbiano avuto effetto letale perché scaduti (trattandosi di farmaci
impiegati anche per combattere l’ulcera gastrica, avrebbero potuto ammazzare
anche in un contesto diverso da quello di un’interruzione di gravidanza), mentre
nel secondo, contrariamente a quanto si è scritto a caldo, l’errore materiale
non avrebbe avuto origine da uno «scambio di provette», ma da uno «scambio di
cartelle cliniche». Tutto questo, tuttavia, poco importa al fine di affrontare
la questione sulla quale qui intendo soffermarmi: in fondo, i farmaci scaduti che
hanno ammazzato la donna non le sono stati somministrati perché fosse affetta
da ulcera gastrica, e a uno «scambio di cartelle cliniche» non può che essere
conseguito uno «scambio di provette». Sono da recepire in pieno, dunque, le
obiezioni di chi voglia affrontare la questione sollevando il problema dell’opportunità o addirittura
della liceità di interrompere una gravidanza con l’impiego di farmaci invece che
col ricorso ad una tecnica chirurgica o di sottoporsi a metodiche di
fecondazione assistita per risolvere una condizione di sterilità o di
infertilità, che poi è proprio quanto è stato fatto in modo platealmente strumentale: possiamo, in buona sostanza, accettare di individuare la questione
in oggetto, che è nell’esito indesiderato di una procedura medica richiesta un paziente, consentendo di dare un peso argomentativo alle ragioni che in questo caso sembrerebbero mettere in
discussione la stessa procedura medica, mentre nel caso dell’asportazione del
menisco destro al posto di quello sinistro solitamente si mette in discussione solo l’operato
dell’ortopedico e nel caso di un’errata diagnosi radiologica si mette sul banco
degli imputati il radiologo, non la radiologia.
A me pare evidente che la
differenza stia tutta nel riconoscere o nel negare l’opportunità di un
determinato intervento medico atto a risolvere una condizione clinica che il
paziente ritiene insostenibile (più correttamente, nella capacità di concedere a un proprio simile dei bisogni diversi dai propri): se si riesce a mettersi nei panni dell’interessato,
l’esito negativo riesce ad essere correttamente individuato in un errore dell’operatore,
nel margine di rischio che è intrinseco ad ogni pratica clinica o
nell’imprevedibile fatalità che incombe su ogni agire umano; se non vi si riesce, non v’è altra scelta che
individuarlo nell’inopportunità dell’intervento, posta l’entità del rischio che
esso assume a fronte dell’irrisorietà dell’esigenza che lo dichiara necessario,
sicché – è questo il nostro caso – una donna è morta perché voleva abortire,
per giunta senza neppure volersi prendersi lo scomodo di un raschiamento, e un’altra
si ritrova in utero embrioni altrui come ragion sufficiente del non
essersi saputa rassegnare a non avere figli.
Superfluo sottolineare che la
capacità di mettersi nei panni altrui è qualità eminentemente elastica, come
dimostra il fatto che fino a qualche anno fa, alla notizia della morte di una
donna in seguito a un intervento di mastoplastica additiva o di liposuzione, l’accaduto
era rappresentato come l’apologo della sciagurata incosciente che rincorrendo
un vacuo capriccio si era sottoposta a un’operazione rischiosissima, eseguita da
un medico senza scrupoli. La morale di questo apologo residua, ma in tracce
sempre meno evidenti, pari solo al residuo pregiudizio che grava sulla
chirurgia estetica, su chi la esercita come professione e su chi vi sottopone. Questa
morale e questo pregiudizio, d’altronde, sembra abbiano perso l’arroganza del
giudice naturale: l’embolo che ammazza la malcapitata sottopostasi a liposuzione
o l’epatite C contratta per un piercing hanno già da qualche tempo perso l’imago
fantasmatica della punizione divina.
Cosa è accaduto? Dio (o chi per lui) ha
rinunciato (è stato costretto a rinunciare) a dettare legge in certi ambiti:
non può più pretendere che si partorisca con dolore, non può più stigmatizzare
il vaccino come artificio che ostacola la volontà divina, non può più neppure sbraitare che la vanità femminile è chiara prova che alla donna manchi un’anima o
l’abbia, sì, ma particolarmente vulnerabile alle lusinghe del Maligno, bisogna concedergli si ostini a condannare l’aborto (in subordine a
consentirlo in modo cruento) e la fecondazione assistita (in subordine a pretendere,
come afferma il cardinale Elio Sgreccia, che la donna che porta in utero
embrioni di un’altra coppia non abortisca, in sostanza che presti il suo utero in
affitto, in deroga al divieto posto a questa pratica dalla morale cattolica che trova edificante
esempio nella «difesa
dei nascituri nel caso delle donne stuprate dai serbi»). Diciamo
che, nel ritrarsi, Dio (o chi per lui) ci mostra il culo. E non ci sembra dei più sodi, occorre dire, sebbene sia sostenuto da reggiculo cui il senso comune concede autorevolezza.
mi pare debole il paragone tra un cancro e un embrione. Il sostenitore della vita a tutti i costi direbbe che un aborto non è un intervento atto a salvare una vita, ma a sopprimerla, poi giuramento di Ippocrate e via.
RispondiEliminaIl paziente insomma non ha diritto di scegliere quella 'condizione clinica', insomma, come se andassi in ospedale chiedendo l'asportazione della mano destra perfettamente sana, mi internerebbero in psichiatria immediatamente.
C'è qualcos'altro nell'argomentazione oltre a 'un ammasso di cellule è un essere umano per te, per me no, quindi lo tratto come un'infezione'?
Se pensiamo a quanti nostri progenitori ci hanno rimesso le penne per consentirci di sapere che l'amanita phalloides è mortale o che, al contrario, le fragole sono commestibili; e, ancora, più vicino a noi, che per effettuare con successo una trasfusione bisogna che il sangue sia dello stesso gruppo e dello stesso fattore rh; se, dicevo, pensiamo a quanti morti lastricano le strade della conoscenza per consentirci di sapere quello che oggi sappiamo, con tutto il massimo rispetto possibile per gli sfortunati genitori incappati nello scambio di embrioni, oserei dire che si tratta veramente di ben poca cosa.
RispondiEliminaPer quanto si possa fare, la sfiga, si sa, è sempre dietro l'angolo.
LB