lunedì 27 ottobre 2014

Un servo è un servo

Nel loro Traité de l’argumentation (1958), che su queste pagine torna di tanto in tanto come strumento di decriptaggio del messaggio che scorre subdolo, Perelman e Olbrechts-Tyteca ci avvertono che, «quando in una discussione non formale la tautologia appare evidente e voluta, come nelle espressioni del tipo “un soldo è un soldo”, “i bambini sono bambini”, essa dovrà essere considerata una figura»: in pratica, «si utilizza un’identità formale fra due termini che, se l’enunciato deve presentare qualche interesse, non possono essere identici», e dunque «l’interpretazione della figura, che vorremmo chiamare “tautologia apparente”, esige un minimo di buona volontà da parte di chi legge»Anche meno del minimo basta per dare il giusto senso al delizioso editoriale di Giuliano Ferrara su Il Foglio di lunedì 27 ottobre – quando è giusto complimentarsi, qui non ci si sottrae – che ha l’unico difetto di avere un titolo assai loffio (Cari berlusconiani spaesati, spremetevi per una volta le meningi), mentre sarebbe stato perfetto con Un servo è un servo.
Tautologia apparente, perché i due termini non sono identici. Il secondo servo, infatti, è da intendere in modo letterale, ancorché nellaccezione estensiva, che non dà alcuna informazione su causa e natura della sottomissione, ma si limita a definirne il modo. Il primo, invece, è lellissi dell’individuo che si esaurisce nella sua pulsione gregaria: «dipendete storicamente da lui e solo da lui, sarete anche personalmente rispettabili individui dotati di autonomia, e certo che molti di voi lo sono, ma come gruppo politico avete investito tutto quel che avevate sulla leadership personale del Cav., e per anni, lunghi anni, avete rinunciato a ogni autonomia politica e di pensiero, a ogni autentico contrasto, avete votato tutto, contribuito a un mezzo culto della personalità, e non sempre con buon gusto la vostra personalità collettiva è stata sacrificata all’idolo che vinceva, era opulento, distribuiva riconoscimenti e onorificenze perfino oltre i meriti, in molti casi». Siete questo e «ora fate obiezione politica e di coscienza sulla linea, addirittura»? Ma come vi permettete? Un servo è un servo.
Giusto complimentarsi, perché leditoriale è un bel redde rationem, degno dun Étienne de La Boétie. (Oddio, forse qui esagero, non so se Étienne de La Boétie sarebbe arrivato a scrivere: «Ricordatevi la nipote di Mubarak, su, non fate i sepolcri imbiancati», ma, insomma, semel transeat.) E tuttavia una precisazione è necessaria, e anche qui torna utile il Traité de l’argumentation, per ciò che attiene alla distinzione tra il dire e il dit, dove quella che August Baron chiama sillepsi oratoria (De la rhétorique, 1849) si annulla nella coincidenza tra senso proprio e senso figurato: per farla facile, direi che il redde rationem non è rivolto a chi ha la colpa di essersi fatto servo, ma a chi non ha diritto di essere altro, e non già per propri limiti, ma per la ratio intrinseca alla cosa umana. Neanche è tutto, perché c’è pure la condanna ad una ineludibile coazione a ripetere: «Avete un candidato credibile che sia suscettibile di affascinare e trascinare gli italiani in una nuova fase dell’azione pubblica?». Potete liberarvi del padrone solo scegliendovene un altro. Il dit suona moraleggiante, il dire è quello del maggiordomo che riprende la servetta sorpresa a spruzzarsi leau de cologne della signora. 


4 commenti:

  1. il redde rationem non è rivolto a chi ha la colpa di essersi fatto servo, ma a chi non ha diritto di essere altro

    CENTRO!

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  2. Serva sunt servanda.

    :D

    6iorgio

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  3. E io me ne vado all'osteria / a cercar padron migliore.

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