Tra
scienza politica e arte del governo passa tutta la distanza che c’è tra studio
e mestiere: si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto
non è affatto vero, anzi, come non si è mai visto un grande economista
diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza – ma si sarebbe tentati a
un altro parallelo, assai più feroce: si ricava più denaro dal vendere numeri
da giocare al lotto che dalle vincite ottenute grazie alle puntate su quei
numeri – così non s’è mai visto un Platone tornare di qualche utilità a un
Dionigi, né un Tocqueville più fortunato di un Talleyrand. Sconcerta, può
arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi
campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il
metodo della più perfetta scienza. Dovrebbe essere la prova che ogni scienza
sociale abbia un limite nel fatto stesso d’essere – appunto – scienza, ma più
probabilmente – e qui la probabilità si carica dell’investimento emotivo che
sta in una scommessa – è che nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non
accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto. Quando
apprendiamo che un mestierante di successo ascolta con la massima attenzione
tutto il collegio di illustri ed autorevoli periti ai quali ha chiesto parere, per
poi decidere di testa sua, spesso contro quanto consigliato da quei saggi, e il
risultato della decisione premia il mestiere contro la scienza, non dobbiamo trarre
l’affrettata conclusione che non ci sia squadra o pialla per il legno storto: è
nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare.
"... nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto" - sorpendente scommessa, la tua: di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale rispetto alla complessità del suo oggetto di studio.
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