Nessuno
meglio di Corrado Guzzanti ha colto la topica delle cosiddette battaglie culturali
di Giuliano Ferrara e il passaggio che gli dedicò qualche anno fa nei panni di
padre Pizzarro (Parla con me – Raitre,
2011) ne illustra il paradigma sul quale è costruito anche il pezzullo che oggi
è su Il Foglio, a commento della nota
polemica tra Elton John, da un lato, e i titolari del marchio Dolce&Gabbana, dall’altro, e che in
sostanza è tutta sull’affermazione contenuta in un’intervista rilasciata da
questi ultimi: Domenico Dolce ha detto che «non
[lo] convincono quelli che [egli] chiam[a] i figli della chimica, i bambini sintetici».
Chiamarli così è di
tutta evidenza un discriminarli, fatto sta che essi sono in tutto simili a
quelli procreati grazie a un «atto d’amore»,
dunque risulta quanto meno problematico affermare che vengano al mondo con un di più o un di meno dovuto al modo in cui sono stati concepiti. A ben vedere, il problema nasce solo dal voler dichiarare inviolabile la norma che allega necessariamente la procreazione ad un particolare «atto d’amore» (con la stessa logica si dovrebbe declassare la relazione tra Dolce e Gabbana a mero commercio sessuale), per poi dover
ammettere che è possibile procreare anche violandola, e che il risultato di questa
procreazione contro natura è altrettanto naturale.
In altri termini, affermare
che «tu nasci e hai un padre e una madre,
o almeno dovrebbe essere così», solleva la questione di cosa faccia la
differenza tra un bambino che sia nato «così»
e uno che non sia nato «così». Sembra
non essercene alcuna, ma Domenico Dolce la vede nel fatto che il secondo
sarebbe un «figlio della chimica», un
«bambino sintetico»: nel rispetto
della norma che egli non vorrebbe fosse violata, si tratta di un bambino che non dovrebbe esistere, e tuttavia
esiste, sicché occorre che di fatto, se non di diritto, si riconosca il discrimine
che lo rende necessariamente diverso. Logica feroce, ma pianamente conseguente. Arcaica, come Elton John l’ha definita trovando un termine felice.
C’è che però Giuliano Ferrara fa un’enorme fatica a fare i conti con le
conseguenze di una logica che è in tutto identica a quella di Domenico Dolce: «Hai prodotto un bambino in provetta? – scrive
– E che c’entra? Non è mica lui in
questione». E invece è proprio lui ad essere in questione, ed è con lui che
occorre fare i conti, come con la donna che abortisce quando si parla dell’aborto, e Domenico Dolce non si pone alcun problema a farli con i «bambini sintetici», come non se lo pone padre Pizzarro con le donne che abortiscono. Con
quanto entrambi ne ricavano, ma li fanno. Giuliano Ferrara non ci riesce, e la questione gli
si complica non meno di quanto gli si complica con l’aborto, col voler
sostenere che è un omicidio, ma che le donne che abortiscono non sono assassine,
e che la legge 194 è responsabile di una vera e propria strage di innocenti, e
tuttavia non va abrogata, e che una donna non può essere costretta a portare
avanti una gravidanza, però non dovrebbe interromperla.
Si tratta di una
malintesa applicazione del principio che distingue tra errore ed errante, tra
peccato e peccatore, con l’enorme differenza che l’applicazione corretta del principio
non salva dalla condanna chi sbaglia, al più gli concede il perdono, se si
pente. Ma come si può pretendere che si penta chi voleva un figlio, non poteva averlo nel rispetto delle norme arcaiche e lo ha ottenuto violandole? In fondo, anche la Chiesa non ha esitato a discriminare come bastardi i
figli nati fuori dal matrimonio: il peccato originale era uguale per tutti, ovviamente,
ma nel loro caso acquistava una peculiarità tutta speciale, che tornava di grande utilità a ribadire la sacramentalità del matrimonio, poi la misericordia
appianava tutto, e un bastardo poteva pure diventare papa, ma intanto da bastardo era servito alla causa. Il fatto è che per
concedersi il lusso di questa assurdità occorre avere quella fede che un ateo,
anche se devoto, non ha. In Domenico Dolce l’equivalenza è data dal non volere figli. Resta il problema che, come sull’aborto padre Pizzarro, qui è Domenico Dolce
ad aver tutto il diritto di chiedergli: «E c’hai detto, Giulia’?».
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