In
tempi in cui il modello demagogico sembra essere considerato da tutti
i protagonisti della vita politica come il più efficace strumento
per raccogliere consenso, la differenza tra quanti concorrono a
conquistare un mercato con un prodotto che è sostanzialmente uguale
a quello dei propri concorrenti può essere fatta solo dalla
confezione nella quale questo è offerto al pubblico, poco importa se
come scelta estemporanea o come risultato di uno studio preparatorio,
perché in ogni caso l’imballaggio
ha sempre bisogno di aggiustamenti alla risposta data dal mercato. In
generale, potremmo dire che un soddisfacente grado di riconoscibilità
dell’offerta,
che di per se stessa è fattore promozionale, sia raggiunto quando i
tratti caratteriali del demagogo diventano tanto significativamente
peculiari da poter essere caricaturizzati in favore di quella che la
pigrizia mentale definisce satira politica, e che in realtà è il
più affidabile attestato che all’offerta
corrisponda ormai una domanda e, in sostanza, che quella particolare
offerta di demagogia ha conquistato una discreta fetta di mercato.
Ricorrendo a un’ellissi,
direi che oggi, in Italia, a certificare
la commerciabilità di un’offerta
demagogica è Crozza.
Nelle sue imitazioni di Berlusconi, di Renzi,
di Salvini, di Grillo, quel che è comune a tutti va interamente
smarrito, per lasciar spazio solo alla deformazione umoristica dei
rispettivi caratteri, cioè delle diverse confezioni in cui è posto
in vendita lo stesso prodotto: l’adulazione
di un popolo ormai da tempo degradato a plebe al fine di strappargli
il consenso ad interpretarne la sovranità con quel tratto dispotico
che troverebbe piena legittimazione in tale investitura. Ben si
spiega, allora, come anche l’imitazione
di De Luca non possa che esaurirsi nell’enfasi
posta sui connotati più pittoreschi del personaggio, trascurando del
tutto quel «chi
vince governa» di cui De Luca si è fatto scudo prima, durante e
dopo le elezioni regionali del 31 maggio per pretendere di essere
ammesso alle primarie nonostante il codice etico del Pd non glielo
permettesse, di candidarsi ad una carica dalla quale una legge dello
stato l’avrebbe
comunque sospeso e di poter esser certo che la sospensione avesse peso solo aleatorio mettendo al suo posto un prestanome
investito dalla carica di vicegovernatore.
Certo, non
spetta a Crozza segnalare in quel «chi vince governa» ciò accomuna
tutti i ritratti della sua fortunata galleria, di fatto pare che
anche chi dovrebbe farlo si attardi per lo più a marcare le
differenze tra un demagogo e l’altro,
quasi fosse scontato che la sovranità appartenga al popolo allo
stesso modo in cui qualcuno possegga qualcosa che possa cedere a chi
voglia perché questi possa a sua volta disporne a proprio piacimento. A ben
vedere, è questo modo di intendere la sovranità che spiega perché,
sulla diagnosi che la democrazia abbia in se stessa l’embrione
della tirannide, concordino sia i nemici della democrazia sia quelli
della tirannide. E, a mio modesto avviso, quel che consente agli uni
e agli altri di essere scettici sul fatto che una democrazia possa
avere altra sorte, pur con diversa disposizione d’animo (chi
contento, perché lo aveva sempre sostenuto, chi afflitto, e in fondo
rassegnato), sta in quel
secondo capo del primo articolo della Costituzione italiana che a
tanti sembrerebbe consentire ogni genere di deriva.
Se infatti «la
sovranità appartiene al popolo»
– si argomenta – il popolo non può disporne a proprio
piacimento? È vero, certo, che «la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»,
ma cosa impedirebbe al popolo di dar mandato a Caio o a Tizio per una
revisione costituzionale? In fondo, ad essere intoccabile non è
soltanto la forma repubblicana?
Bene, io penso che tutto sta nell’infelice
scelta di un termine come «appartenenza»,
che nell’intendimento
di scrisse la Costituzione aveva l’accezione
di «ciò che
fa parte» – e tra poco spiegherò in che senso, e perché se ne
possa esser certi – poi corrotta in quella di «possesso».
In
sostanza, oggi si è portati a ritenere che il primo articolo della
Costituzione consenta ogni genere di avventura populistica o
plebiscitaria, purché un avventuriero riesca a convincere la
maggioranza del popolo italiano, anzi, neppure quella, né quella
degli aventi diritto al voto, ma solo la maggioranza dei votanti. In
pratica – e non mi si venga a dire che vado troppo lontano dalla
realtà – basterebbero una dozzina di milioni di italiani a dare
piena legittimità a un demagogo per fare carne di porco della
democrazia, semmai avendo la premura di lasciarne intatta la forma.
Non è così.
Comincerei col dire, infatti, che alla formula del
primo articolo della Costituzione si è arrivati in modo assai
singolare. L’accordo pressoché unanime della commissione
incaricata di redigerlo era sulla seguente formula: «La sovranità
dello stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico
formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa
conformi. Tutti i poteri sono esercitati dal popolo direttamente o
mediante rappresentanti da esso eletti». In tutta evidenza, il
principio della sovranità popolare non è affatto dominante, tanto
meno se può inferire che sia il popolo a generare la Costituzione
dalla quale lo stato dipende.
In pratica, non è il popolo ad essere
titolare della sovranità: è lo stato ad essere sovrano, e non la
Costituzione a generare tale sovranità, limitandosi invece solo a
darle assetto, margini, equilibrio tra le parti che la amministrano.
Basta rileggere gli interventi di Dossetti, Moro, La Pira e perfino
di Togliatti, che pure avrebbe potuto essere sensibile ad una
«sovranità popolare», per capire che tra i Padri costituenti era
ben saldo il rifiuto di un principio che sembrava avesse il marchio
del giacobinismo, con quanto di pericoloso al giacobinismo è
allegato in termini di deriva dispotica. Tutti contrari a questo
assunto, tranne il monarchico Lucifero d’Aprigliano, il
quale provocatoriamente sfidò gli altri costituenti ad essere
coerenti fino in fondo: se era venuta meno la figura di un re che fin
lì aveva personificato la sovranità dello stato, si fosse tanto
onesti nel trasferire quella sovranità al popolo che aveva deciso di
ghigliottinarlo. Sfida che fu respinta con forza e perfino con
sdegno, anche se ebbe l’effetto di far rivedere la prima formula,
con la proposta di una sovranità che «risiede nel popolo», poi
bocciata in favore di quella che recitava di una sovranità che
«emana dal popolo», ma con l’accento, posto da Tosato e da
Togliatti, sul fatto che la sovranità fosse prerogativa dello stato,
e che la Costituzione ne fissasse i limiti.
I termini della
discussione si riproposero invariati anche nella discussione
dell’Assemblea del 22 marzo 1947, che però ebbe uno sviluppo tanto
serrato da far riproporre, e far accettare come liquidatoria di ogni
ambiguità riguardo alla natura del mandato che alla Costituente era
stato affidato dal popolo, la formula della sovranità che
«appartiene al popolo». In definitiva, passava il principio di una
sovranità che è dello stato, sì, ma che nella Costituzione di cui
il popolo è attore trova forma, espressione e vincoli: si assumeva
che il popolo avesse «parte» dei limiti della sovranità dello
stato.
Da qui a immaginare che la sovranità fosse una proprietà che
il popolo avesse piena libertà di alienare in favore di un
despotuccio
per due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e
somaraggine, ne doveva correre. Perché, poi, si arrivasse a
immaginare che il popolo desse mandato ai propri eletti di varare una
legge come quella che porta la firma di Paola Severino, perché una
patetica macchietta di energumeno potesse usarla come carta per
pulircisi il culo, in virtù dei voti avuti per essere eletto,
bastava poco più d’un
niente. E ora a questo stiamo: la sovranità popolare è un cazzo
diventato così storto che oggi il popolo può usarlo solo per ficcarselo
in culo.
[segue]
Ellamadonna!
RispondiEliminaRicapitoliamo: quando un popolo sta bene (statunitensi, israeliani, svizzeri etc), diventa autoconservativo, mettendo il mantenimento del proprio stato di privilegio pure sopra una bella pila di cadaveri, interni od esterni, direttamente o meno.
RispondiEliminaQuando un popolo sta così così (italiani, ungheresi, russi etc) cerca l'uovo di colombo, ovvero un simil-despota che sistemi tutto perchè il 'così così' sembra sempre conseguenza dell'inazione della propria classe governante.
Quando un popolo sta male (tedeschi di Weimar, palestinesi, cubani sotto Batista etc) tende a dare retta al primo despotuccio di cui sopra, con il dettaglio che il più papabile è quello che instilla nella gente un odio bestiale verso una qualche categoria di sfigati oppure di una nazione estera, chiaramente origine di ogni male.
Viene quasi voglia di tornare all'Impero Romano. Anche se gli attuali discendenti farebbero sparire pure i leoni del Colosseo.
Per sfuggire al presente può venir voglia di ritornare a qualunque epoca storica e a diverse forme di governo, bisogna però vedere in quale ruolo: se seduti comodi, in piedi a servire oppure a 90°. Non per dire che tutto è relativo, ma proprio per il motivo opposto. Popolo è un concetto astratto. Chi potrebbe negare che anche i padroni del vapore sono parte del popolo? È più difficile trovare consenso sul fatto che lo Stato non è proprio un'entità neutrale (anche se come tale si propone formalmente e solennemente), e le formulazioni che ogni sistema statuale trascrive per sé per legittimarsi sono ingannevoli dal principio alla fine. Compito dell'ideologia (famiglia, scuola, religione, lavoro, comunicazione, ecc.) è quello di farcele apparire come vere e "naturali", al punto che quelle stesse formulazioni astratte, in cui ricorre la parola “popolo” e i suoi equivalenti, assumono rilevanza nel dibattito giuridico e politico quali espressioni del grado di mistificazione raggiunto. In altri termini, nelle carte costituzionali non si parla mai esplicitamente di classi sociali, eppure esse sono una realtà di ogni epoca. E però tale omissione non desta alcun sospetto. Nelle epoche passate non era così; segno che oggi la dominanza di classe, per uso politico e tutela degli interessi, ha bisogno e gode della massima mistificazione. Lo Stato, muovendosi sul paino degli antagonismi di classe, diventa così indispensabile fattore di coesione tra le classi, ma fattore “partigiano”, cioè garante di un assetto economico e della sua riproduzione.
EliminaE dunque per ritornare alle varie forme di Stato, esse sono molto varie, ma la loro sostanza è unica: tutte queste forme di Stato (cioè com’è organizzato l’esercizio del potere statale) sono in un modo o nell’altro, ma, in ultima analisi, necessariamente, una forma della dittatura della classe dominante, cioè attualmente della borghesia.
Il fatto stesso che queste mie considerazioni possano essere intese come espressione di una certa ideologia politica (e lo sono, necessariamente), e per questo stesso motivo viste con pregiudizio, corrisponde all’omologazione di cui gode l’ideologia dominante, la quale, come ricordava qualcuno, è sempre espressione della classe dominante (e dei suoi venali interessi, va da sé).
Il senso della neutralità dello Stato sta tutto nella maiuscola con cui lo si fa iniziare: un segno che ha valore nell'atto con cui lo si istituisce. Fuori dal pessimo gergo filosofese, lo Stato non si può fare attore della lotta di classe proprio perché tale lotta preesiste allo Stato e ne fonda l'ambito di realtà (preesiste alle stesse classi, a dar retta a Lukacs): per questo, lungi dall'essere "naturale" o "vero", quello dello Stato è un contesto dinamico, uno spazio la cui topologia è prescritta (più che descritta) dalle condizioni reali della società che lo istituisce.
EliminaAllo Stato spetta il gergo della neutralità proprio perché questo gergo non è dato una volta per tutte, ma costantemente riscritto, e però riscritto secondo regole che rispettino il più possibile la logica e le condizioni di correttezza del dibattito pubblico: un dibattito nel quale il conflitto sociale trova espressione e mediazione, in cui le diverse istanze trovano un terreno di composizione, anche se ovviamente non di soluzione.
Questo, naturalmente, quando lo Stato "funziona", ossia quando le condizioni che ne formano l'agibilità corrispondono il più possibile a quelle di un discorso pubblico che sia più affine alla persuasione razionale che alla propaganda, ed è proprio nella continua manutenzione di questa etica del discorso che sta la prassi fondativa della democrazia.
Ciò che impedisce agli ortodossi di riconoscere che nella burocrazia la classe dominante è l'incapacità di prescindere dalla discriminante "proprietà dei mezzi di produzione". Il fatto è che sia il concetto di proprietà, sia quello di produzione si sono profondamente evoluti dalla metà dell'ottocento. Ne deriva che i mezzi di produzione possono benissimo non essere fisicamente identificabili, e addirittura non richiedere capitale, o almeno non essere capital-intensive.
EliminaL'altro, gravissimo problema concettuale è la trasversalità della burocrazia, che attraversa le classi tradizionali. Fa parte della burocrazia (classe dominante) anche un impiegato a 1500 euro al mese. L'unico elemento che rimane valido (unico, ma decisivo) è lo sfruttamento delle classi subalterne, anch'esse trasversali, e ridefinibili come i gruppi che sono remunerati meno di ciò che producono, indipendentemente da chi detenga la proprietà dei cosiddetti mezzi di produzione.
Il prelievo di plusvalore avviene quindi non più a livello di singolo sfruttatore, ma collettivamente. Strumento principale ne è il prelievo fiscale/contributivo, ma anche le tangenti e altri mezzi di estorsione.
@Olympe
Eliminaqualunque classe dominante, nobiltà, borghesia, rivoluzionari all'indomani della vittoria, ha sempre storicamente teso alla propria autoconservazione. A discapito dei molti.
Che poi al popolo racconto la cazzata del 'sogno americano' o quella della 'rivoluzione permanente' invariabilmente dopo un periodo T, che in genere è dipendente dal contesto, si raggiunge lo stadio di cui sopra.
Questo non vuol dire che sia sempre la stessa zuppa. Ci sono sistemi che assicurano una distribuzione del benessere più a forma di mela. Oggi l'occidente è una pera che tende alla piramide. Ma anche nei sistemi 'a mela', chi sta in alto fa sempre parte di un'elite (semplicemente paga un debito maggiore nei confronti di chi sta sotto), altrimenti sarebbe il caos visto che tutti vorrebbero essere il vertice della piramide.
Che è l'inizio del post di Malvino: il popolo, o meglio, la 'volontà popolare' si mette a bruciare gli zingari perchè si sente sovrana, come l'ultimo dei ducetti, il veicolo è semplicemente il populista di turno. Tanto alla democrazia dà la forma che vuole.
Ovvio che le classi sociali preesistono allo Stato, che dunque non siano una sovrastruttura politica ma materializzano il modo specifico in cui gli uomini si vengono a trovare e si organizzano all’interno di ciascuna formazione economico-sociale (c’è ben di meglio prima di Lukacs).
EliminaEd è proprio con la divisione del lavoro che è data la contraddizione tra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo; e nessuno si sogna di sostenere che questo interesse collettivo esiste puramente nell’immaginazione ma esiste anzitutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui tra i quali il lavoro è diviso. Ma questa benedetta divisione sociale del lavoro a che cosa allude se non ai rapporti di proprietà all’interno del modo di produzione dominante? E dunque questi rapporti di proprietà quale ruolo giocano nella “logica e nelle condizioni di correttezza del dibattito pubblico” cui lei allude?
Ma di quale dibattito si tratta, della scissione fra interesse particolare e interesse comune? E chi vuole negare che l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali. Proprio in ciò consiste la comunità illusoria, la mistificazione di cui parlo. Mi riferisco invece e anzitutto all’antagonismo tra interessi di classi sociali diverse, delle quali una domina tutte le altre (è un dato storico che non si può sovvertire con chiacchiere).
Configurazione autonoma non significa neutrale! Lo Stato è neutrale, come dicevo, nelle solenni affermazioni di principio, però non è neutrale nei fatti, poiché esso è anzitutto garante di un assetto economico e della sua riproduzione. Lei nega che lo Stato si faccia garante di un assetto economico e della sua riproduzione? Anche il suo György l'affermava! Ed è poi nell'evidenza delle cose. L’assetto economico vigente a quali determinazioni di classe risponde? Pensa lei che sia sufficiente che lo Stato si faccia mediatore tra lavoro e capitale perché i rapporti tra i proprietari delle condizioni di lavoro e i loro schiavi siano posti su un piano di “etica democratica”? Che dunque basti andare a votare perché l’antagonismo tra chi lavora e chi sfrutta il lavoro sia poi mediato a livello statuale secondo “condizioni di correttezza”? E chi ha stabilito, ieri e oggi, che lo sfruttamento del lavoro altrui è corretto e legale?
credo di aver risposto alla prima parte di questo suo commento con un commento che apparirà qui sotto in risposta a quello di urzidil.
EliminaLa metafora finale è poesia.
RispondiEliminaPoesia del cazzo, ma pur sempre poesia.
non sono d' accordo. Attribuire la sovranità allo stato apre molti piu' problemi di quelli che si intenderebbe chiudere. Per esempio, se la sovranità appartiene allo stato in nome di cosa si potrebbe criticare i modi in cui lo stato esercita questa sovranità ? E' vero che la democrazia contiene il germe della tirannide ma ciò dipende dal ruolo esorbitante che si attribuisce al principio di maggioranza. Nessuno ha il diritto di rappresentare il popolo ben che meno gli eletti alle cariche pubbliche.
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