Per
qualche tempo, a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo
scorso, si consumò un’interessante
polemica tra antropologi e psichiatri, e parlo di nomi prestigiosi
come Jean Poirier, Melville Herskovits, Rudolf Wittkower, da un lato,
e George Devereux, Henri Collomb, Ralph Linton, dall’altro.
La questione potrebbe essere enunciata in questo modo: esiste
un’anormalità che una base
organica ci dia la possibilità di definire assoluta, consentendoci
così di definire anormale l’intero
contesto in cui quest’anormalità
ha conquistato valore di norma?
Cerco di chiarire meglio, ma premetto
che mi servirò di un esempio assai rozzo: posto che mangiare carne
umana è la norma in una tribù di antropofagi, mentre fuori è
manifestazione clinica di un gravissimo disturbo psichico, c’è
niente che ci consenta di definire gravemente disturbata tutta la
tribù di antropofagi, in toto, o siamo costretti ad ammettere che in certi
casi mangiare carne umana possa dirsi cosa normale?
Qui devo fermarmi
un istante per chiarire due o tre punti relativi ad alcuni termini
che ho scelto apposta per la loro ambiguità, peraltro costruendo un
esempio che non fu mai prodotto nel corso di quella polemica, e non a
caso, come vedrete.
In primo luogo, non sarà sfuggito, almeno al
lettore mediamente smaliziato, che la questione è sostanzialmente
pertinente al concetto di relativismo culturale, e che l’esempio
di cui mi sono servito sembrerebbe negargli attestato di
legittimità.
In secondo luogo, non sarà sfuggita l’estrema
ambivalenza di ciò che ho designato come «norma»,
che da un lato, infatti, sta a significare «legge»,
ma dall’altro
rimanda a «consuetudine», come espressione di quel «valore che
compare più frequentemente in un insieme preselezionato», perdendo
così ogni implicazione d’ordine
morale o psicologico, per acquisirne una che ha senso solo in ambito
statistico.
Per finire, se non fosse superfluo, occorre segnalare che
scegliere un esempio come quello relativo alla tribù di antropofagi
rivela il chiaro intento di radicalizzare la questione mirando ad
ottenere una risposta attesa come sola possibile. Insomma, con un
esempio che dichiarava di voler
illustrare i termini della questione, ne ho prodotto anche uno che
palesa l’intenzione di indirizzarla ad una soluzione offerta come
ovvia.
Cosa mi ha consentito di farlo? Per meglio dire: cosa poteva
assicurarmi che l’uditorio avrebbe inclinato a una risposta del
tipo «mangiare carne umana è da pazzi, ergo tutta la tribù è
pazza»? Semplice: ho prodotto un esempio che, facendo leva su quanto
ho ritenuto fosse opinione ragionevolmente unanime nell’uditorio
che mi sono scelto, rendesse prevedibile anche l’unanimità su un
assunto che in realtà è assai più problematico.
Per dirla in altro
modo: sarei riuscito a convincervi che sia da pazzi rifiutarsi di
mangiare carne di maiale senza invece sollevare obiezioni al consumo
di carne di pollo, con ciò strappandovi consenso sull’assunto che
ebrei e musulmani siano pazzi, tutti? Presumo che avrei incontrato
maggiori difficoltà. Assai minori, invece, ne incontrerei ponendo la
questione relativa alle mutilazioni genitali femminili, no?
E dunque
– infine – cosa consente di definire «anormale» un’intera
società che in stragrande maggioranza aderisce ad una specifica
«consuetudine»? Mi pare ovvio: il fatto che quella «consuetudine»
sia pacificamente identificabile come segno di un grave disturbo
psichico. In altri termini, che alla psichiatria si riconosca lo
statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative
all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo, e che
l’antropologia non sollevi obiezioni, ma questa è cosa dalla quale siamo sempre
stati assai lontani, perché l’antropologia sembra nata per
relativizzare proprio laddove la psichiatria sembra nata per
assolutizzare. Un vero guaio.
scusi, Malvino, non capisco questa frase:
RispondiElimina".... che alla psichiatria si riconosca lo statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo"
a offrirci prove certe circa l'esistenza di una " base organica comune " a me sembra essere non la psichiatria ma, banalmente, l'anatomia. Secondo le mie conoscenze, l'obiettivo di dare una base organica ai disturbi psichiatrici è un obiettivo che la psichiatria ha sempre perseguito ma che ha raggiunto in pochissimi casi. E anche in quei pochissimi casi, tra il disturbo psichiatrico e la base organica si è riusciti a dimostrare solamente una correlazione e mai un rapporto di causalità necessaria.
Tutto giusto, dunque non dovrebbe risultarle oscura la frase: è "un vero guaio" il fatto che la psichiatria riesca a trovare solo in qualche caso una base organica di una "anormalità" che possa avere valore di "norma" in un dato contesto, entro il quale (vedi il commento di cachorroquente qui sotto) l'antropologo riesce a dimostrarla funzionale.
EliminaLa nuova moda infatti è l'analisi di modelli con il machine learning. Non so perchè succede, ma so che succede con una certa probabilità.
EliminaMettendo due sensori sulle vacche e analizzando i dati si sono scoperte cose che i naturalisti 'deterministi' ancora non erano riusciti a trovare.
http://arstechnica.com/information-technology/2015/04/the-internet-of-cows-azure-powered-pedometers-get-dairies-mooovin/
il passo dopo (in realtà già ora in fase di test) è la medicina
http://www.wired.co.uk/news/archive/2013-02/11/ibm-watson-medical-doctor
quello dopo sarà la psichiatria. Lei avrà il 15% di probabilità di diventare un maniaco depressivo, un 2% di entrare al ristorante e fare una strage armato di uzi, ma per fortuna solo lo 0.001% di evolvere come un Gasparri.
capisco cosa vuole dire. Non condivido che sia un guaio ( non per me, voglio dire ), ritenendo di non aver bisogno né della psichiatria né dell'antropologia per dare giudizi di valore su comportamenti individuali o su consuetudini sociali.
EliminaInfatti, nulla impedisce di dare giudizi di valore a chicchessia, il "vero guaio" è non poterlo parametrare con strumenti scientifici.
EliminaCredo che la psichiatria moderna si cavi dall'impiccio smettendo di parlare di malattia e insistendo sul 'disturbo' (o 'disorder') multiassiale che diventa tale non in rapporto alla morale o al rapporto tra una credenza e una realtà, ma alla sofferenza patita/arrecata e alla possibilità di 'funzionare'.
RispondiEliminaIn tale senso l'antropofago espleta un rito religioso/propiziatorio in una cerimonia che cementa i rapporti sociali; 'funziona' e quindi non è 'disturbato' (statisticamente, dunque, non c'è motivo di credere che abbia alterazioni organiche o funzionali ancora inspiegate che stanno alla base della schizofrenia o di un disturbo di personalità ecc). Anche l'uccisione del malcapitato (se non stiamo parlando di cannibalismo rituale al danno di un membro della famiglia morto di cause naturali che, al limite, può essere pericoloso per la salute) avviene in un atto di guerra che, se si può considerare immorale, non configura certo una patologia mentale.
In questo senso si riesce anche a distinguere tra un disturbo ossessivo compulsivo e le norme igienico-alimentari degli ebrei ortodossi ecc. ecc.
Una volta definito il contesto relativo c'è margine di assolutizzazione in termini di minore/maggiore funzionalità all'interno di tale contesto, però non è sempre detto che aumentare la funzionalità di un individuo all'interno dello stesso contesto di partenza sia corretto.
RispondiEliminaSe mio nonno (demenza senile incipiente) riprendesse a guidare la macchina ne trarrebbe immenso giovamento in termini di autostima e percezione di autonomia (fortemente minata), ma si creerebbero altri tipi di problemi.
Nonostante questo approccio funzionale, anche per la psichiatria moderna lavorare sul contesto invece che sull'individuo è taboo.
Al massimo si estende il lavoro individuale ad altri membri della famiglia.
Economicamente lavorare sull'individuo costa sicuramente meno, ma la mia impressione è che l'efficacia sia spesso dubbia.
Qui viene presentata solo la "normalità normativa", ma in psichiatria ne vengono considerate almeno altre due (normalità statistica e individuale) e viene sempre esplicitato che tutte e tre hanno grossi limiti (ciascuno di questi criteri escluderebbe dalla normalità condizioni palesemente normali).
RispondiEliminaSecondo me in questo, e solo in questo, viene in aiuto il criterio soggettivo che ritorna in quasi tutti i criteri diagnostici delle patologie presentate nel DSM, quello per cui la condizione patologic, per essere tale, deve provocare grandi difficoltà nel buon funzionamento dell'individuo.
In questo approccio c'è un problema di fondo presente anche in economia: l'arco temporale di riferimento. Un cuore che non funziona è un cuore che non funziona, mentre es. un prete in crisi spirituale ("perdita degli interessi abituali", come si dice in gergo) può avere un grave scompenso nel breve ma non è detto che non lo aiuti a ottenere maggiore funzionalità in futuro in un altro contesto. Se si adotta un approccio funzionale la scientificità è solo descrittiva e teorica, la pratica diventa politica (scelta dell'arco temporale di riferimento).
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