È
assai frequente che dall’arto
aggredito da un processo gangrenoso si levi un fetore talmente
insopportabile da rendere estremamente dura la
caritatevole opera di chi assiste il paziente che ne è
affetto. È che, a differenza di quanto avviene con tutti gli altri
sensi, i recettori deputati alla percezione olfattiva afferiscono a
una delle porzioni più antiche del nostro cervello senz’alcuna
intermediazione e modulazione talamica nel collegamento a quelle aree
più giovani della nostra corteccia cerebrale dove la sensazione
acquista il connotato specie-specifico umano, conservandole così
quel tratto belluino che riverbera inevitabilmente nella reazione
allo stimolo: come dimostra l’enorme
importanza che gli odori continuano ad esercitare, talvolta in
modo incontrollabile, in ambito sessuale, nel corso dell’evoluzione
l’olfatto ha conservato tutti i
suoi caratteri più ancestrali, molti dei quali antecedenti
addirittura allo stadio in cui eravamo scimmie. Questo spiega perché in casi simili l’istinto possa facilmente
prendere il sopravvento sulla ragione, che invece sa nitidamente distinguere in chi effonde il miasma
gangrenoso il malato bisognoso di
rispetto e di cura. Perché la ragione possa aver la meglio
sull’istinto, tuttavia, occorre
disarticolare la reazione dallo stimolo, e per far questo basta saper
distinguere il malato dalla malattia, cosa che quasi sempre è resa
possibile da un procedimento logico abbastanza elementare: il
poveretto puzza, puzza di brutto, ma non è certo colpa sua: è
affetto da una patologia, che potrà pure essere stata agevolata da
un malsano stile di vita, dalla sua incuria, ma questo non autorizza
a giudizi morali, né solleva dall’obbligo
di prestargli assistenza, sacrificando il naso, e non solo, com’è con l’extrema
ratio della pietosa amputazione
dell’arto, dove sia il caso.
Per
questo occorre essere grati a Eugenio Scalfari: nel corso del dialogo
avuto con Matteo Renzi a RepIdee, riportato ieri da la
Repubblica, è stato capace di
strappargli un’affermazione
che ci costringe a mettere da parte l’incommensurabile
schifo che ci infligge come uomo e
l’incoercibile disprezzo che ci
infonde come politico, per indurci a quell’elementare
procedimento logico che ci consente di vedere in lui il malato,
nient’altro che la vittima di
ciò che la personalizzazione della politica ci ha invece indotto così
spesso a ritenere connaturato al leader narcisista e arrogante, e drogato di
autostima. Insomma, per non tirarla troppo a lungo, grazie a Eugenio Scalfari ci è stato dato
modo di capire che Matteo Renzi puzza, e di brutto, e senza dubbio è
puzza che gli viene dal di dentro, ma che la questione non si risolve
dandogli del puzzone. Di più: facendoci distinguere il malato dalla
malattia, ci è stato dato modo di evitare l’errore
di ritenere che basti dar libero sfogo al disgusto per fare anche un solo passo avanti nella profilassi della
personalizzazione della politica, gangrena da sempre endemica in
società segnate dall’ignoranza e dalla
soggezione in cui vengono compresse le masse.
È
in questo stato di compressione, infatti, che vengono a realizzarsi
quelle condizioni di anaerobiosi – vera e propria asfissia del
pensiero – che favorisce l’attecchimento
e lo sviluppo dei germi che distruggono il tessuto della democrazia,
liberando i fetidi prodotti del suo disfacimento. Primo fra tutti, il
mito della governabilità, alla quale sarebbe lecito sacrificare il
«pregiudizio»
che la rappresentatività è il cuore stesso della democrazia. Poi, la
certezza che governare stia nel sapiente ricircolo di paure e
speranze operato da un’élite in
grado di produrre alla bisogna le une e le altre, proiettandole a
dovere in una narrazione che riduca il cittadino a spettatore di un destino che gli è estraneo.
Ancora, la convinzione che alle masse basti dare un nemico al giorno
e un obolo ogni tanto per meritare quel silenzio-assenso da poter
essere vantato come consenso. Non c’è
bisogno di analisi gascromatografica per riconoscere in queste ammine
volatili i prodotti della putrefazione che ha trasformato il popolo
in plebe, il voto in plebiscito, l’informazione
in propaganda, lo stato in una piramide corporativa cui in cima siede
l’intercambiabile uomo di paglia da bruciare quando diventa
inservibile.
«Penso
che dobbiamo fare al massimo due mandati: sarei disposto a firmare
qualsiasi legge in questo senso», così ha detto Matteo Renzi,
riferendosi alla carica di Presidente del Consiglio, per assicurarci che non ha intenzione di «governare
l’Italia
per 15 anni», diffidando chi voglia attribuirgliela («lo querelo»).
È evidente che gli sfugga che un tal limite trovi senso nel caso in
cui una carica sia direttamente espressa dal popolo, come accade per
il Presidente degli Stati Uniti, per quello della Repubblica Francese
e per quello della Federazione Russa, dove ha il fine di evitare che
il notevole potere concesso all’uomo
che la riveste per un periodo troppo lungo possa degenerare in arbitrio. Potrebbe aver senso per gli eletti dal popolo, ma che senso avrebbe un limite di due mandati in
una democrazia parlamentare dove le massime cariche dello stato, ivi
compresa quella del Presidente del Consiglio, non sono espresse
direttamente dal voto popolare? Per meglio dire: cosa porta Matteo
Renzi a volerci dare una garanzia che non avrebbe alcuna ragion
d’essere
se davvero, come ha più volte affermato, la riforma costituzionale e
la legge elettorale da lui volute non stravolgono l’impianto
di una democrazia parlamentare? Pare palese la contraddizione, che
rivela in lui il disegno di un presidenzialismo camuffato, tanto più
pericoloso rispetto a un presidenzialismo esplicitamente rivendicato
perché privo di ogni contrappeso istituzionale. È un progetto che puzza, e di
brutto, ma giacché s’appalesa
in modo da lasciar credere che Matteo Renzi ne sia agito piuttosto
che esserne attore, eccoci costretti a non lasciar far tutto al naso: occorre trattenere lo schifo e tener pronto il retrattore di Percy.
Mt 5,29-30
RispondiEliminaCi siamo capiti perfettamente.
EliminaMi scuso se vado fuori tema, ma avrei una domanda per l'autore, in ragione della sua conoscenza profonda e diretta dell'esperienza dei Radicali. Come inquadriamo la figura di Pannella (teoria e prassi, dall'uso del corpo alla gestione del partito fino al riformismo istituzionale) rispetto alla patologia qui denominata della personalizzazione della politica? Se l'argomento fosse già stato trattato in qualche post precedente, leggerò volentieri quel che mi sono perso. Grazie in anticipo
RispondiEliminaIl problema non merita più attenzione.
EliminaPeccato, penso invece che si tratti di un caso di studio molto interessante del fenomeno in questione (e della sua genesi).
Eliminaanch'io. Penso che a Pannella ( e a tutti coloro che lo hanno seguito ) possa tranquillamente essere attribuita una sorta di primogenitura per quanto riguarda la personalizzazione della politica, l'idolatria per il sistema maggioritario, la subalternità della politica rispetto ai soldi,
Eliminal'esportazione della democrazia e molte altre cose.
Solo una puntualizzazione: il limite a due mandati negli USA non è una disposizione legale (che probabilmente sarebbe incostituzionale) ma solo una consuetudine non vincolante. Franklin Delano Roosevelt fu eletto quattro volte (1932, '36, '40 e '44), anche se la sua terza candidatura suscitò un bel po' di polemiche da parte dell'opposizione repubblicana. Detto questo, citare FDR e Renzi nello stesso contesto è un'eresia, a meno che non sia un gioco del tipo Trova l'intruso.
RispondiEliminaventiduesimo emendamento, ratificato nel 1951. Proprio il caso di Roosevelt suggerì il provvedimento.
EliminaIncostituzionale non esiste, se qualcosa è in contrasto con una costituzione si fa un emendamento, si interpreta come conviene o si aggira in qualche altro modo.