Non
è la prima volta che un Presidente della Repubblica pone il proprio
veto su uno dei nomi che un Presidente del Consiglio incaricato di
formare il Governo gli ha proposto per la nomina a ministro. Sappiamo
cosa è accaduto in passato, ma solo per i pochi casi di cui siamo
venuti a conoscenza, comunque sempre dopo (talvolta anche molto
dopo): il veto risultava efficace, e quel nome scompariva dalla lista
dei ministri (Gratteri) o veniva spostato a un altro dicastero
(Previti).
Ci sono stati casi in cui il parere contrario del
Presidente della Repubblica non sia riuscito a sostanziarsi in veto?
Non lo sappiamo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche assai
improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto. Non possiamo
escludere, infatti, che un Presidente del Consiglio incaricato possa
aver trovato buoni argomenti per far cambiare idea a un Presidente
della Repubblica inizialmente contrario a firmare un decreto di
nomina dei Ministri nel quale figurasse un nome a lui non gradito, né
possiamo escludere che fra questi argomenti vi fosse il legare a quel
nome le sorti del Governo. Possiamo ritenerlo improbabile, anche
assai improbabile, ma non possiamo escluderlo del tutto.
Nella pure
assai improbabile eventualità che questo sia accaduto, è tuttavia
evidente che sia potuto accadere solo in virtù del fatto che tutto
era protetto dalla massima riservatezza, al riparo di un’attenzione
pubblica che avrebbe potuto facilmente travisare in braccio di ferro
un momento di dialettica istituzionale: se è accaduto, la
riservatezza ha efficacemente protetto il Presidente della Repubblica
dal poter apparire come il perdente in quel braccio di ferro.
Di
inedito, allora, cosa è accaduto stavolta? È accaduto che
Mattarella abbia voluto rendere pubblicamente noto per tempo che
avrebbe posto il proprio veto sul nome di Savona al Ministero delle
Finanze, con ciò dichiarandosi pubblicamente indisponibile a
considerare ogni argomento che nelle pur illusorie speranze del
Presidente del Consiglio incaricato potesse essere considerato
efficace a fargli cambiare idea: la dialettica istituzionale ha così
perso il terreno sul quale avrebbe potuto dare un risultato, non
importa quale, per lasciare spazio solo al conflitto, con una vera e
propria sfida, peraltro subito raccolta dalle forze politiche che in
Parlamento avevano i numeri per far nascere un Governo, che così non
nasce.
Potevano non raccoglierla, certo, potevano accettare
l’alternativa
offerta dal Capo dello Stato (Giorgetti al posto di Savona), ma così
avrebbero accettato di apparire come perdenti in quello che
Mattarella aveva intenzionalmente voluto presentare come scontro, e
questo a fronte di un consenso elettorale che le aveva più o meno
ragionevolmente convinte di poter governare, in forza del mandato
popolare, senza condizionamenti di natura extra-politica: come recitano i manuali di Diritto Costituzionale, al Presidente del Consiglio il compito di esprimere la linea politica della maggioranza parlamentare e al Presidente della Repubblica quello di garante della costituzionalità dei passaggi istituzionali. Il loro errore
– se errore vogliamo considerarlo – è stato quello di non capire
che avevano di fronte un Presidente della Repubblica che fra gli
oneri di garanzia costituzionale di cui si sente carico contempla
pure quelli di assicurare all’Italia
una continuità della linea politica costruita dai passati esecutivi:
nella Costituzione che si sente chiamato a difendere, Mattarella
legge pure vincoli di natura sovranazionale che non sarebbe lecito
neppure mettere in discussione.
Sospendendo la questione se si tratti
di una lettura legittima o meno, c’è
da comprendere non possa essere accettata da chi si dichiara
sovranista proprio perché non riconosce in quei vincoli dei vantaggi
superiori agli svantaggi.
Con tali premesse era del tutto prevedibile
che il conflitto si sarebbe spostato in piazza, con un Paese per poco
più della metà a favore del cosiddetto Governo del Cambiamento,
quindi nelle migliori condizioni per disporsi a considerare
Mattarella come un «nemico del popolo», e per poco meno della metà
contrario, pronto a prenderne le difese come estremo rimedio alla
discesa dei «barbari».
Molte erano (e in fin dei conti restano) le
questioni controverse sollevate dall’eventualità
di un
Governo a guida di Lega e M5S, quindi era prevedibile che un problema
di natura schiettamente istituzionale diventasse terreno di scontro
tra fazioni politiche irriducibili: di qua, l’asse
di saldatura tra due movimenti populisti che alle ultime elezioni
politiche hanno incrementato enormemente il consenso in loro favore
rispetto alle prestazioni di cinque anni prima; di là, il resto, con
in testa un Renzi e un Berlusconi che il responso delle urne ha
fotografato in caduta libera.
Era difficile che sulle prerogative del
Presidente della Repubblica – perché di questo in fondo si
trattava – si potesse discutere con serenità, e di fatto è stato
impossibile: da un lato, c’era
chi voleva leggere nell’art.
92 della Costituzione un ruolo attivamente politico del Capo dello
Stato nella formazione di un Governo (perché cos’altro
è il pretendere di avere voce sulla linea economica di un esecutivo?),
quasi a voler dare rilievo di legittimità costituzionale ad una
posizione ostile agli intendimenti di una maggioranza parlamentare;
dall’altro,
invece, c’era chi assegnava al Quirinale una funzione di mera
vidima delle scelte della politica.
Ne abbiamo visto delle belle,
comprese le patenti contraddizioni in seno a posizioni che potremmo
definire «storiche»: così, tra chi ha sempre sostenuto il primato
della politica, inteso come pieno potere in mano a chi riesca ad
ottenere il consenso della maggioranza del «popolo» o della
«gente», abbiamo scorto degli strenui difensori dei bastioni che la
Costituzione erge a difesa dell’arbitrio di chi, forte dei numeri,
voglia stravolgerla (si pensi a chi voleva maciullarla a colpi di pur
risicatissime maggioranze parlamentari e che oggi la ritiene perfetta
così com’è); all’altro estremo, tra chi ha sempre sostenuto che
la Costituzione fosse da leggere e rispettare alla lettera, ecco
sortire i sostanzialisti del «popolo sovrano», libero dai vincoli
posti dall’art. 81 («Lo Stato
assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio
bilancio»,
anche se poi, «previa autorizzazione delle Camere», senza
specificare se rosse, azzurre o giallo-verdi, «il ricorso
all’indebitamento è consentito»).
Mi sono già intrattenuto su
cosa, a mio modesto avviso, significhi quel «nomina» che compare
nell’art. 92 della Costituzione, e qui non ci tornerò sopra,
limitandomi a rammentare che, per la stragrande maggioranza dei
costituzionalisti, al Capo dello Stato non è data alcuna facoltà di
scegliere il titolare di questo o quel dicastero, potendo al più
esercitare un potere di dissuasione, che non è assolutamente detto
possa o debba avere efficacia (che in qualche caso l’abbia
avuta non fa argomento dottrinario): quel «nomina» fa riferimento
all’apposito decreto (di nomina, per l’appunto, che non a caso i
Padri costituenti vollero disgiunto da quello di nomina del
Presidente del Consiglio).
Parimenti, ho già cercato di spiegarmi,
più che spiegare al mio lettore, perché Mattarella sia convinto che
un Presidente della Repubblica possa efficacemente esercitare un vero
e proprio veto in situazioni del genere: da giovane è stato
assistente universitario di Virga, uno dei pochi costituzionalisti a
dare a quel «nomina» il significato di «decide»; nella
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali del 1997-1998
era a favore di una Repubblica semipresidenziale nella quale un Capo
dello Stato avrebbe avuto fra le sue prerogative anche quella di
assicurare il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e
sovranazionali (prerogativa che la Costituzione oggi in vigore non
gli riconosce), ma soprattutto un ruolo assai più forte nella
nascita e nella vita di un Governo, grazie al fatto che l’elezione
diretta gli conferiva anche un profilo politico oltre a quello di
garante della Costituzione.
Direi che, tutto sommato, ha agito in
buona fede, dando dell’art. 92 un’interpretazione che per molti
costituzionalisti (uno per tutti, Onida) è «impropria»
(nell’idioletto dei costituzionalisti sta per «scorretta»), ma
che ha l’indiscutibile merito di essere coerente con la sua
formazione accademica e compatibile il più possibile al modo in cui
il II Titolo della II Parte della Costituzione andava, secondo lui,
riformato. Di fatto, non è stato riformato a quel modo.
Di là dal merito della questione in oggetto, che come
spesso accade con quelle di natura giuridica rifugge da soluzioni
unanimemente accolte, c’è da porsi il problema del se fosse
necessario (rectius: inevitabile) portare il problema alle dimensioni
del dramma che oggi ha assunto. Le responsabilità vanno equamente
ripartite, ma come ignorare che tutto ha avuto inizio con la
decisione del Quirinale di rendere pubblico il veto sul nome di
Savona prima che glielo si fosse formalmente proposto? Il casus belli
è in quella decisione, che probabilmente scommetteva su un cedimento
di Lega e M5S che Mattarella avrebbe potuto offrire a garanzia di
controllo sulla loro azione di governo a quanti ne paventavano
iatture. Probabilmente è in questo modo che Mattarella contava di rappresentare al meglio l’unità nazionale.
Scommessa persa, che rischia di provocare a mesi una valanga
giallo-verde. Mattarella ne sarà stato il maggiore responsabile.
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