Quando
«l’affermazione
di una regola è incompatibile con le condizioni o le conseguenze
della sua asserzione –
scrive Chaïm Perelman – a
queste incompatibilità si può dare il nome di “autofagia”»;
e conclude: «La
“ritorsione” è l’argomento
che attacca la regola, mettendo in evidenza l’“autofagia”»
(Il
dominio retorico
– Einaudi, 1981).
Ora,
si consideri il seguente tweet di Massimo Mantellini: «Un
idiota o un semplice esibizionista augura su Twitter di ammalarsi di
tumore a una manciata di personaggi politici. Invece che ignorare
l’idiota, segnalarlo e bannarlo, tutti, perfino i giornali, ne
parlano».
Esplicita affermazione di una regola non c’è,
ma di fatto quell’«invece»
non
segnala
una stortura alla quale «ignorare
l’idiota, segnalarlo e bannarlo» si
offre come rimedio? Sebbene in modo implicito, a me pare che la
regola sia enunciata. Non suona come un «si
deve»,
questo no, ma come non sentirci dentro un «si
dovrebbe»?
Tanto più persuasivo, aggiungerei, perché fa appello al buonsenso.
E non a caso parlo di buonsenso, perché è finanche proverbiale che
concedere attenzione a un idiota
sia
da idioti e concederla a un esibizionista sia fare il suo gioco.
Se
però questo buonsenso ci persuade, patente è l’incompatibilità
tra l’affermazione
della regola e le condizioni
(ma, a ben vedere, anche le conseguenze) dell’asserzione.
Mettendo in evidenza l’autofagia, ho commentato:
«Beh, anche qui
non mi pare che venga ignorato».
E qui ignorato sono stato io, costretto a chiedermi se perché idiota
o perché esibizionista.
Poteva
finire qui, ma qualche ora dopo, su il
Post,
Massimo Mantellini ritorna sulla questione. Chissà – mi son detto
– può darsi che tra le righe ci sarà pure una risposta alla mia
obiezione. Macché. Niente più quanto aveva twittato, e con
un’ulteriore
autofagia. Perché il tweet lamentava che «tutti,
perfino i giornali, ne parlano»,
dove il «perfino»
segnalava una aggravante nel parlarne, se a farlo è chi si dà il
compito di informare. E come attacca l’articolo?
«Oggi
mi chiedevo, per l’ennesima volta, come mai, sempre più spesso, il
peggio della comunicazione social trovi ospitalità sui grandi siti
web editoriali».
Al centro dell’attenzione,
ovviamente, l’«hater
con qualche decina di follower che ha dedicato tweet ad una serie di
personaggi noti augurando loro di ammalarsi di tumore»,
e «i
giornali [che]
hanno
dedicato alla notizia fiumi di parole».
E il
Post?
È un «giornale»?
È un «sito
web editoriale»?
Comunque lo si voglia considerare, ha coperto la notizia. E grazie
alla firma di chi non la considera una notizia, ma una «cazzata
travestita da notizia».
Un’altra
autofagia.
Possiamo
limitarci a segnalare l’infortunio
logico o è il caso di chiederci come possa esservi incorso uno come
Massimo Mantellini, che fesso non è, e che su cosa sia il web, e
l’informazione
in generale, ormai riflette da decenni, e con risultati notevoli,
unanimemente riconosciutigli? Vediamo se proprio in quest’articolo
può esservi una traccia che ci consenta di arrivare a una
spiegazione.
«I
giornali offrono ciò che la gente chiede»,
scrive. E cosa chiede? «Fondamentalmente
notizie che fanno indignare, notizie che fanno meravigliare e notizie
che fanno sorridere».
Dove le si va a scovare «per
titillare l’audience digitale»?
In quegli «orrori
della rete che se ne stavano nascosti nelle pieghe più recondite
senza dare fastidio a nessuno o quasi».
Cosa ne consegue? «Un’informazione
sempre più scadente, rapida e casuale, che spontaneamente rinuncia a
qualsiasi aspirazione».
A cosa dovrebbe aspirare? Esplicitamente non lo si dice, ma si
intuisce che tra le sue ispirazioni dovrebb’esservi
quella di formare, che così viene negletta. I pedagoghi lasciano il
posto agli intrattenitori, senza con ciò rinunciare a «un
tentativo di distinzione elitaria»,
«utilizzan[d]o
simili notizie [le
«cazzate
travestite da notizie»]
per
marcare la distanza fra loro stessi e i social. Il giornalismo che
dice ai propri lettori: guardate come sono messi questi poveretti su
Twitter! Guardate che schifo fa Internet, che ambientaccio
frequentate ogni giorno!».
E qui anche Massimo Mantellini scopre un’autofagia,
che poi è la stessa in cui incorre nel momento stesso in cui ce la
segnala: «C’è
in fondo qualcosa di comico in tutto questo distinguere, visto che
spesso le medesime notizie si trovano nella timeline di Facebook e
sulla homepage dei giornali».
E qui siamo al cortocircuito, perché si conclude: «Il
giorno in cui il giornalismo desidererà ricominciare a marcare sul
serio la propria indispensabile distanza dal pulviscolo delle
comunicazioni di rete sarà semplice da identificare. Sarà il giorno
in cui le troppe cazzate che internet rovescia sulle nostre teste
ogni giorno smetteranno di avere ospitalità da quelle parti
travestite da notizie».
Direi che con questo articolo siamo ancora lontani da quel giorno:
manca la distanza. E tuttavia anche qui non viene meno un «tentativo
di distinzione elitaria»,
perché, parafrasando, tra le righe si legge: «Guardate
come sono messi questi poveretti dei giornali! Guardate che schifo fa
l’informazione
nostrana!».
Come
se ne esce? Credo che l’unica
via di uscita sia quella di ridefinire il tradizionale ruolo
pedagogico da sempre assegnato alle strutture che formano informando,
di cui la stampa (cartacea o digitale, ormai non fa più differenza)
è solo un settore. Come ignorare, infatti, che l’intrattenimento
ha preso il sopravvento dovunque l’audience
era in precedenza assicurata solo dalla serietà, e per la semplice
ragione che non mirava alla quantità, ma alla qualità? Per porre la
questione in altri termini, quelli relativi a un campo della
formazione appena superiore a quello che si affida alle «notizie»:
quale «divulgazione»
può fare a meno di prendere in considerazione il «vulgo»?
È
di piana evidenza che i guasti culturali che Massimo Mantellini
rileva nella
costruzione di una homepage sono gli stessi che ritroviamo nella
costruzione di un palinsesto televisivo e perfino nella scelta dei
titoli di una collana editoriale, e sia chiaro che li chiamo «guasti»
solo per concedere una solidarietà tutta formale, di mera cortesia,
a chi li biasima come espressione di vizi morali. Nulla rimane
intatto quando muta il paradigma che in-forma i tempi. Lasciarsi
andare alla corrente, no. Ma pensare di risalire il fiume usando un
cucchiaino per pagaia, nemmeno.
Bello ed interessante.
RispondiEliminaSe però nel prossimo Post ci informi anche sul vecchio paradigma che ci in-formava,sarei grato,mentre sul nuovo ormai è abbastanza palese che ci in-forna tutti.
caino
non sono sicuro che "prima" si mirasse alla "qualità" (che d'altronde è termine quanto mai difficile da definire). Ho piuttosto l'impressione che prima fosse predominante il desiderio di distinzione elitaria, mentre adesso è un elemento secondario. Secondo me "se ne esce" ammettendo che le notizie non esistono e che chi fa informazione non deve informare ma (provare a) formare, con ciò intendendo che deve esplicitamente trasmettere la propria visione del mondo senza nascondersi dietro la maschera della notizia.
RispondiEliminaOttimo Malvino, però sugli haters, sui leoni da tastiera, sui denigratori e/o calunniatori di professione potrei dare anchio un modesto contributo con la mia testimonianza.
RispondiEliminaPotrebbe essere utile a chi subisce o ha subito queste squallide azioni.
Jazztrain
Grazie, apprezzo molto qsto suo ripercorrere il tema nel tempo, che illumina aspetti diversi : vedi in dom. 13.06.2010
RispondiEliminaIl Decalogo del giornalista di Piero Ottone (la Repubblica, 25.9.1996) - Quello di Manuel Lozano Garrido (1920-1971), giornalista cattolico spagnolo, beatificato oggi - Quello che sta in una sentenza della Corte di Cassasione del 17.10.1984 che recitano : (vedi Malvino2 blogspot. Grati saluti, Anonimarò