giovedì 24 ottobre 2019

Autofagia


Quando «laffermazione di una regola è incompatibile con le condizioni o le conseguenze della sua asserzione – scrive Chaïm Perelman – a queste incompatibilità si può dare il nome di “autofagia”»; e conclude: «La “ritorsione” è largomento che attacca la regola, mettendo in evidenza l’“autofagia”» (Il dominio retorico – Einaudi, 1981).
Ora, si consideri il seguente tweet di Massimo Mantellini: «Un idiota o un semplice esibizionista augura su Twitter di ammalarsi di tumore a una manciata di personaggi politici. Invece che ignorare l’idiota, segnalarlo e bannarlo, tutti, perfino i giornali, ne parlano». Esplicita affermazione di una regola non cè, ma di fatto quell«invece» non segnala una stortura alla quale «ignorare l’idiota, segnalarlo e bannarlo» si offre come rimedio? Sebbene in modo implicito, a me pare che la regola sia enunciata. Non suona come un «si deve», questo no, ma come non sentirci dentro un «si dovrebbe»? Tanto più persuasivo, aggiungerei, perché fa appello al buonsenso. E non a caso parlo di buonsenso, perché è finanche proverbiale che concedere attenzione a un idiota sia da idioti e concederla a un esibizionista sia fare il suo gioco.
Se però questo buonsenso ci persuade, patente è lincompatibilità tra l’affermazione della regola e le condizioni (ma, a ben vedere, anche le conseguenze) dell’asserzione. Mettendo in evidenza l’autofagia, ho commentato: «Beh, anche qui non mi pare che venga ignorato». E qui ignorato sono stato io, costretto a chiedermi se perché idiota o perché esibizionista.
Poteva finire qui, ma qualche ora dopo, su il Post, Massimo Mantellini ritorna sulla questione. Chissà – mi son detto – può darsi che tra le righe ci sarà pure una risposta alla mia obiezione. Macché. Niente più quanto aveva twittato, e con un’ulteriore autofagia. Perché il tweet lamentava che «tutti, perfino i giornali, ne parlano», dove il «perfino» segnalava una aggravante nel parlarne, se a farlo è chi si dà il compito di informare. E come attacca larticolo? «Oggi mi chiedevo, per l’ennesima volta, come mai, sempre più spesso, il peggio della comunicazione social trovi ospitalità sui grandi siti web editoriali». Al centro dellattenzione, ovviamente, l«hater con qualche decina di follower che ha dedicato tweet ad una serie di personaggi noti augurando loro di ammalarsi di tumore», e «i giornali [che] hanno dedicato alla notizia fiumi di parole». E il Post? È un «giornale»? È un «sito web editoriale»? Comunque lo si voglia considerare, ha coperto la notizia. E grazie alla firma di chi non la considera una notizia, ma una «cazzata travestita da notizia». Unaltra autofagia.

Possiamo limitarci a segnalare linfortunio logico o è il caso di chiederci come possa esservi incorso uno come Massimo Mantellini, che fesso non è, e che su cosa sia il web, e linformazione in generale, ormai riflette da decenni, e con risultati notevoli, unanimemente riconosciutigli? Vediamo se proprio in questarticolo può esservi una traccia che ci consenta di arrivare a una spiegazione.
«I giornali offrono ciò che la gente chiede», scrive. E cosa chiede? «Fondamentalmente notizie che fanno indignare, notizie che fanno meravigliare e notizie che fanno sorridere». Dove le si va a scovare «per titillare l’audience digitale»? In quegli «orrori della rete che se ne stavano nascosti nelle pieghe più recondite senza dare fastidio a nessuno o quasi». Cosa ne consegue? «Un’informazione sempre più scadente, rapida e casuale, che spontaneamente rinuncia a qualsiasi aspirazione». A cosa dovrebbe aspirare? Esplicitamente non lo si dice, ma si intuisce che tra le sue ispirazioni dovrebbesservi quella di formare, che così viene negletta. I pedagoghi lasciano il posto agli intrattenitori, senza con ciò rinunciare a «un tentativo di distinzione elitaria», «utilizzan[d]o simili notizie [le «cazzate travestite da notizie»] per marcare la distanza fra loro stessi e i social. Il giornalismo che dice ai propri lettori: guardate come sono messi questi poveretti su Twitter! Guardate che schifo fa Internet, che ambientaccio frequentate ogni giorno!». E qui anche Massimo Mantellini scopre unautofagia, che poi è la stessa in cui incorre nel momento stesso in cui ce la segnala: «C’è in fondo qualcosa di comico in tutto questo distinguere, visto che spesso le medesime notizie si trovano nella timeline di Facebook e sulla homepage dei giornali». E qui siamo al cortocircuito, perché si conclude: «Il giorno in cui il giornalismo desidererà ricominciare a marcare sul serio la propria indispensabile distanza dal pulviscolo delle comunicazioni di rete sarà semplice da identificare. Sarà il giorno in cui le troppe cazzate che internet rovescia sulle nostre teste ogni giorno smetteranno di avere ospitalità da quelle parti travestite da notizie». Direi che con questo articolo siamo ancora lontani da quel giorno: manca la distanza. E tuttavia anche qui non viene meno un «tentativo di distinzione elitaria», perché, parafrasando, tra le righe si legge: «Guardate come sono messi questi poveretti dei giornali! Guardate che schifo fa linformazione nostrana!».
Come se ne esce? Credo che l’unica via di uscita sia quella di ridefinire il tradizionale ruolo pedagogico da sempre assegnato alle strutture che formano informando, di cui la stampa (cartacea o digitale, ormai non fa più differenza) è solo un settore. Come ignorare, infatti, che l’intrattenimento ha preso il sopravvento dovunque l’audience era in precedenza assicurata solo dalla serietà, e per la semplice ragione che non mirava alla quantità, ma alla qualità? Per porre la questione in altri termini, quelli relativi a un campo della formazione appena superiore a quello che si affida alle «notizie»: quale «divulgazione» può fare a meno di prendere in considerazione il «vulgo»?
È di piana evidenza che i guasti culturali che Massimo Mantellini rileva nella costruzione di una homepage sono gli stessi che ritroviamo nella costruzione di un palinsesto televisivo e perfino nella scelta dei titoli di una collana editoriale, e sia chiaro che li chiamo «guasti» solo per concedere una solidarietà tutta formale, di mera cortesia, a chi li biasima come espressione di vizi morali. Nulla rimane intatto quando muta il paradigma che in-forma i tempi. Lasciarsi andare alla corrente, no. Ma pensare di risalire il fiume usando un cucchiaino per pagaia, nemmeno.

4 commenti:

  1. Bello ed interessante.
    Se però nel prossimo Post ci informi anche sul vecchio paradigma che ci in-formava,sarei grato,mentre sul nuovo ormai è abbastanza palese che ci in-forna tutti.
    caino

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  2. non sono sicuro che "prima" si mirasse alla "qualità" (che d'altronde è termine quanto mai difficile da definire). Ho piuttosto l'impressione che prima fosse predominante il desiderio di distinzione elitaria, mentre adesso è un elemento secondario. Secondo me "se ne esce" ammettendo che le notizie non esistono e che chi fa informazione non deve informare ma (provare a) formare, con ciò intendendo che deve esplicitamente trasmettere la propria visione del mondo senza nascondersi dietro la maschera della notizia.

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  3. Ottimo Malvino, però sugli haters, sui leoni da tastiera, sui denigratori e/o calunniatori di professione potrei dare anchio un modesto contributo con la mia testimonianza.
    Potrebbe essere utile a chi subisce o ha subito queste squallide azioni.

    Jazztrain

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  4. Grazie, apprezzo molto qsto suo ripercorrere il tema nel tempo, che illumina aspetti diversi : vedi in dom. 13.06.2010
    Il Decalogo del giornalista di Piero Ottone (la Repubblica, 25.9.1996) - Quello di Manuel Lozano Garrido (1920-1971), giornalista cattolico spagnolo, beatificato oggi - Quello che sta in una sentenza della Corte di Cassasione del 17.10.1984 che recitano : (vedi Malvino2 blogspot. Grati saluti, Anonimarò

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