[Raccolgo
qui in una sola pagina i cinque post dedicati a Hanno tutti
ragione? di Massimo Adinolfi (Editrice Salerno, 2019 – pagg.
103 – € 9,90], con l’aggiunta
in coda di una postilla che è la risposta alla domanda postami da un lettore: non è una verità quella che afferma non esista una verità?]
1. È
solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa
e complicata logomachia» che Jeremy Bentham sembra porsi il
problema di poter aver tediato il lettore, e allora gli chiede scusa,
spiegando cosa l’abbia spinto a farlo. Siamo sul finale di A
Fragment on Government (1776) e, dopo essersi speso per
pagine e pagine nel «laborioso e ingrato» compito
di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia, «peggio
che falsa, priva di significato», prevede il rimprovero che gli
può esser mosso: «L’hai dimostrato tu stesso che
non metteva conto di occuparsene: perché, dunque, perderci tanto
tempo?». La risposta rivela un intento pedagogico: «Per
fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo
studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia
nelle proprie forze e meno nell’infallibilità dei grandi
nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi
dell’autorità; per insegnargli a distinguere tra linguaggio
altisonante e retto significato; per ammonirlo a non accontentarsi di
parole...». Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo
con analoghe perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento
che molti anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book of
Fallacies (1824): disvelare il sofisma che s’ammanta di
autorità.
Nell’accingermi
a commentare Hanno tutti ragione? di Massimo
Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal genere di
intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo che non
metteva conto di occuparsene. Di argumenta ab auctoritate,
certo, il libricino trabocca, ma non c’è bisogno di
demistificarli, perché l’autore ha la fierezza, se non di
dichiararli tali, di rivelarcene la natura con un insistente ricorso
alla citazione («come avrebbe detto Hegel», «Merleau-Ponty
la metteva così», «direbbe Heidegger», ecc.),
d’altronde irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è
chiamato a interpretare il «filosofo», personaggio che
sembra essere diventato un must nel business
dell’intrattenimento.
Sia
ben chiaro che l’uso delle virgolette per questo ruolo non è
denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare
un’opinione sulla questione del giorno imbottendola di citazioni
dotte sono al più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di
definire «artista» un critico d’arte o uno che
insegni Storia dell’Arte, e tuttavia, anche se me ne sfugge la
ragione, con la filosofia non va così: «filosofo» è
Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo
per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde
citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo» è
pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il Foglio gli
chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché non
possiamo non dirci Cristiano, in cui troviamo Platone, Rousseau,
Voltaire e ovviamente Croce.
Perché
questa figura prende vita solo adesso? A naso, direi che
il «filosofo» da intrattenimento, forte dei
suoi argumenta ab auctoritate, nasca per cercare di dare
un contrappeso agli argumenta ad populum che sono la
nota dominante di tempi in cui nel foro, a là guerre comme a
là guerre, la persuasione ormai si fa strada solo grazie
agli argumenta ad judicium: siamo a un Armageddon nel
quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse
dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da
filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di governare
la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla
in quella di guidare chi la governa, per finire col doversi
accontentare di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al
ministro, dopo, e di fare l’opinionista, venendo all’oggi.
Opinionista che peraltro soffre d’un grave handicap, perché la
scienza di cui è chiamato ad intestarsi il titolo di esperto non è
una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è affermazione che impone un
chiarimento.
Nei
vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un
generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di
pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo
sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni
posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la
condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di
superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile,
verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che
è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo
sia preferibile a quel «falsificabile» che di
sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo
alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla
Popper).
Un
vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno
pretende di potersi sottrarre, né in forza dell’autorità
precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua
congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è
indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale
consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un
carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia
l’uso di un termine come «verità» da
appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto
scientificamente comprovato.
Difficile
dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si
misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di
umiltà, di prudenza o di chissà cos’altro nell’assegnare a un
dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale)
è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto
pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si
preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile»,
che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano
alla «proprietà di ciò che esiste in senso
assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».
C’è
chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di
questa riserva, che anzi ha esteso perfino all’uso di «realtà»,
che sta alla «verità», volendo prestar fede a chi con
questi termini ha consuetudine a pranzo e a cena, come l’ente sta
all’essere. Qui le riporto da un’intervista apparsa su un numero
de Le Scienze di qualche anno fa: «La
realtà – diceva Leonard Susskind – ci rimarrà
sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi realismi,
[…] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del
precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di
pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora,
sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo
sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose
che non servono a niente». Io mi permetterei di aggiungere
che, «oltre alle cose che non servono a niente», ne
trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio
l’ostacolo che incontra una disciplina come la filosofia, che, da
un lato, ha la pretesa di dirsi «scienza» e,
dall’altro, come compito si dà – appunto – la «verità».
In Hanno
tutti ragione? il «filosofo» si limita a
esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel tentativo
di superare l’ostacolo, quasi che da quello abbia da sortire una
Minerva, ma è in un altro suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura
l’incidente come fine ultimo della filosofia: «Poniamo che
la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo che
rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in
generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile
immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto
una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola,
o forse meglio di discorso». E sì, «ma chi non ha
mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della filosofia
non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La verità come
compito della filosofia – Nóema, 2/2011). Nulla che il solito
vuoto chiacchiericcio a spiegarne il perché. E tuttavia la filosofia
non rinuncia al titolo di «scienza della verità»,
anche se non ha nulla di quanto si è poc’anzi detto della scienza.
Su
nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno,
ancorché transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul
significato dei termini di più comune impiego, cui ogni filosofo
infatti rivendica il diritto di darne uno tutto personale (si trovino
due filosofi, ad esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»).
Tanto meno è dato pretendere dai filosofi un’uniformità di
metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa
tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il
solo a poter dire l’ultima parola. Con tali requisiti è
comprensibile perché in filosofia tutte le contese non abbiano mai
soluzione, destinate ad essere accantonate per essere periodicamente
riproposte, facendo nascere il sospetto che non possano trovare una
fine per la semplice ragione che non abbiano un fine, se non quello
dell’intrattenimento. Poi, certo, c’è intrattenimento e
intrattenimento, di qua la «pineale» di un
Cartesio, la «monade» di un Leibniz o
l’«evoluzione creatrice» di un Bergson, di là
il «nuovo realismo» di un Ferraris,
il «turbocapitalismo» di un Fusaro o il concetto
di «autorità» secondo Adinolfi, che, a differenza
del «nuovo realismo» di Ferraris e
del «turbocapitalismo» di Fusaro, ha fin qui fatto
poca cassetta e dunque merita un trailer.
Comprensibile,
coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia
possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui
nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per
l’altrettanto semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai
(né può avere) strumenti validi per dare inconfutabile prova di
esserle superiore, perché, al pari della posizione che intendesse
superare, è per sua stessa natura indisponibile a un vaglio sulla
base di criteri che le sono estranei. Ciò che vale per i campi in
cui è la scienza ad essere chiamata per indagare, infatti, non vale
per quelli in cui è chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella
sostanziale differenza dell’oggetto d’indagine, quand’anche sia
nominalmente identico: nel primo caso, infatti, l’oggetto preesiste
all’indagine come problema, anche se poi è la stessa indagine a
ridefinirlo nella procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel
secondo caso, invece, l’oggetto nasce nel momento stesso in cui si
inizia ad indagare, non un istante prima, e per la semplice ragione
che non corrisponde mai del tutto a ciò che nominalmente lo richiama
dalle indagini che su di esso sono state condotte in precedenza.
Si
prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa
eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia –
almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una
dimensione «metafisica», oppure la «mente»,
che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a
ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è
partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella
spirale che sovrappone glossa a glossa com’è coi gusci di una
matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di
riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi
sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in
virtù dell’autorità. Quale? Quella che incarna la «verità»,
o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti
quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su
tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o
la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono
essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo»,
che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta
attenzione.
2. «Questo non è, in senso stretto, un libro di filosofia», avverte Massimo Adinolfi chiudendo l’Introduzione di Hanno tutti ragione? (pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon,
mi stavo facendo prendere dal milieu abbandonandomi
all’allegoria
con la quale, nel VI libro della Repubblica,
Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis spetti
al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di Siracusa,
povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le
aspettative: ancilla
theologiae,
nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva
padrona;
e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli
angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione
in frustrazione, eccolo nella turris
eburnea come
sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc sempre
tentato alla trahison;
ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo
incardinato nell’aristocrazia
operaia;
infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle,
tuttavia, al «filosofo» non
si può negare l’esercizio
della «scienza
della verità»,
che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è
diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le
opinioni.
E
ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta
del populismo»,
mentre sempre più pesanti si fanno gli «affanni
della democrazia rappresentativa»;
poi c’è la «straordinaria
accelerazione tecnologica» che
ha comportato «profonde
modificazioni dello spirito pubblico» (pag.
7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la
cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag.
9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96
paginette con le quali provare a far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali» e
a «migliorare
la qualità della discussione pubblica» (pag.
10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno
la «caratteristica
gravità» del
libro di filosofia, «ma
è un libro, tuttavia» (pag.
9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un libro.
Si
comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929,
anno in cui esce Essenza
e valore della democrazia di
Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui «Mussolini,
al potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la
religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag.
11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola
religione dello Stato» già
con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni
prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi –
diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a
chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di
far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»?
Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans
Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza,
libertà di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della
democrazia, non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico
basato sulla fede in valori assoluti. Questa fede conduce
irresistibilmente, e ha sempre condotto, a una situazione in cui chi
asserisce di possedere il segreto del bene assoluto reclama il
diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri
che sono nell’errore» (Assolutismo e
relativismo nella filosofia e nella politica). Sottoscriviamo?
Piano.
«Di
primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo
tutti portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag.
14). Ora, la grammatica ci dice che «in effetti» è
locuzione con valenza di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come
lo è, ad esempio, «in realtà». Si noti che qui «in
effetti» non cade su «sia così», ma su
un «pensare» che è «di primo
acchito»: «in realtà» così si pensa, non è
detto che «in realtà» così sia, siamo dissuasi
dal precipitarci a sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che
afferma Kelsen a un «pensare» che non sia «di
primo acchito», ma più ponderato, meglio se assistito, dunque,
da un filosofo? È presto detto: quelle di Kelsen sono parole di
buonsenso. E che c’è di male nel buonsenso? Che domande.
Qui è
necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di
tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso».
Ma dicevamo: anche sul significato dei termini di più comune
impiego ogni filosofo rivendica il diritto di darne uno tutto
personale. Conviene, dunque, andare a rileggere cosa scriveva Massimo
Adinolfi, poco meno di un anno fa, nel mentre assai probabilmente di
lato aveva in fieri Hanno tutti ragione?
È un
articolo apparso su Leftwing, in cui il «buonsenso» è
la «capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal
falso», definizione che ne dà Cartesio aprendo il Discorso
sul metodo, e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere
la «bancarotta della filosofia» in quanto «scienza
della verità». Quello che però in sostanza si lamenta, e fin
dal titolo (Abbiamo perso la guerra del buonsenso), è altro:
il «buonsenso» di un tempo era «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»;
bene, quel «buonsenso» non c’è più, è
andato a farsi fottere, sconfitto da un «buonsenso» che
a Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie
di «vero» e «falso» cui era
tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia anche un
po’ sua la responsabilità, perché «facev[a] le
bucce a cardinale Ratzinger» quando quello se la pigliava
con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a Kelsen abbiamo lasciato
sedimentare l’errore nella coscienza collettiva. Certo, non siamo
dinanzi a «chi asserisce di possedere il segreto del bene
assoluto [e] reclama il diritto di imporre la sua
opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore»:
mancano le palle.
3. Arrivato neanche a un settimo di quanto avrei da dire su Hanno tutti ragione?, ridò voce alla domanda che Bentham immagina gli ponga il lettore: «Se non metteva conto di occuparsene, perché perderci tanto tempo?». La risposta a chi me la ponesse già dopo i primi due dei quindici paragrafetti previsti – tranquillo, lettore, altri due o tre e anch’io mi annoierò, abbandonando il piano d’opera – è la seguente: il libricino mi ha enormemente irritato per la sua sfacciata malafede, peraltro fieramente esibita in quarta di copertina, dove si legge che «Adinolfi prova a fornire argomenti per ricostruire il rapporto tra verità e democrazia».
Ma quando
mai c’è stato, questo rapporto? Se hai una «verità»,
non hai più bisogno di decidere, basta e avanza conformarti ad essa:
in più, se è proprio «verità», cioè eterna,
universale e incontestabile, questo non vale solo per te, ma per
tutti, e per sempre, rendendo superflui ogni confronto, ogni
discussione, ogni decisione messa ai voti: rendendo superflua la
democrazia, anzi, di più, rendendola sacrilega, perché è evidente
che, per sua natura, la «verità» può essere solo
antecedente e superiore all’uomo o, tutt’al più, intrinseca
all’ordine creaturale in cui l’uomo è inscritto. Quand’anche
non si tiri in ballo Dio, la «verità» ne surroga
il senso, e dunque chi sostiene di possederla, o anche soltanto di
avere gli strumenti per meglio approssimarla, si sente in pieno
diritto di governare il mondo, e la pretesa sostanzialmente è di
stampo teocratico. Poi, certo, a fronte del fatto che avanzare
seriamente la pretesa gli costerebbe l’essere fatto bersaglio di
fumanti palle di letame, è costretto a schermirla in modo
gigionesco, senza tuttavia riuscire a celare l’indispettimento per
lo «scomodo» che impone il dover sta lì ad
argomentare perché la sua «verità» sia la vera
Verità, quando è evidente che non può essere altrimenti per il
solo fatto che a profferirla è chi ne ha la «scienza».
Iniziando
a parlare di Hanno tutti ragione?, ho detto che il mio
intento non voleva essere pedagogico, perché le fallacie di cui
trabocca sono talmente scoperte da non aver bisogno di essere
segnalate come tali. La più evidente è proprio quella che intende
dar ragione del perché sia necessario «ricostruire il
rapporto tra verità e democrazia», peraltro subito dopo aver
concesso che «è indispensabile, per amore della pace e
della concordia sociale, rinunciare a una rivendicazione “assoluta”
e accettare che le diverse verità vengano relativizzate» (pag.
14): sarebbe necessario perché, «da un lato, condividiamo
la convinzione che il processo democratico lascia ciascuno libero di
credere qualunque cosa, e prendiamo anzi precauzioni perché nessuna
opinione sia imposta in nome della verità; dall’altro,
lamentiamo come oggi la verità stessa non sia tenuta in alcuna
considerazione» (pag. 17).
Patetico
trucchetto, quello di usare un «noi» che
intenderebbe denunciare una contraddizione nell’assunzione –
insieme – di «condividiamo» e «lamentiamo»,
ma in realtà chi è che davvero può lamentare che una verità
assoluta non splenda indiscussa sulle nostre vite, pur condividendo
il principio democratico che di ogni «verità» fa
un’opinione? Solo chi ritiene inammissibile che la
propria «verità» possa risultare opinione
minoritaria nel confronto democratico, e dunque lo accetta, per
dirsene convinto assertore e sostenitore, se la propria opinione ne
esce vincente, pronto però a metterlo in discussione, se dalla conta
esce perdente.
Pronto, qui, a metterlo in discussione con un broncio che, ai tempi in cui era ancora un blogger, Massimo Adinolfi dichiarava inutile se non svantaggioso, facendo sua una frase di Robert Musil che campeggiava in homepage («Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno»): è evidente che deve aver trovato modo di cavarne qualche vantaggio, d’altronde in tempi di crisi il Tempio è sempre stato in grado di reclutare qualche «filosofo in missione per conto di Dio» (definizione che Simone Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui orfano della verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe della post-modernità).
Ma cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né per l’una, né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo» è inscindibile (Democrito), che «per natura» alcuni sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi di ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)? Il fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo.
Dovrebbe essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe (sulla base della convinzione che «alcuni hanno ragione e alcuni hanno torto») di poter affermare che il modello geocentrico del cielo aristotelico è inservibile e quello della sua metafisica rimane valido? Basta riandare a quello che abbiamo detto circa il dibattito scientifico e quello filosofico nel paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in quanto «scienza della verità», è costretta a ritrarsi sempre più nell’empiricamente indimostrabile per poter salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto dominio.
Detto più prosaicamente: il filosofo può ormai esser sereno solo quando resta nel teoretico, e cioè in quel campo della conoscenza dove l’urgenza del veritativo trova soddisfazione nell’astrazione metafisica. È per questo che Hanno tutti ragione? non potrebbe muovere un passo oltre l’artificioso paradosso costruito su un «noi» che è democratico e – insieme – anela all’assoluto della verità, senza servirsi dei trampoli della filosofia teoretica. Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande disinvoltura per una ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel punto da cui era partito: «Per difendere la democrazia, non occorre che sia istituito un Ufficio Centrale, che metta a disposizione del pubblico un immaginario Catalogo Completo dei Fatti Accertati, così che almeno una certa porzione di verità sia posta fuori discussione [non sia mai detto che il «vero» si riduca all’«accertato», significherebbe vincolare la «verità» alla provvisorietà del dato scientificamente desunto]; è invece necessario che sia viva, nelle istituzioni e in capo ai singoli individui, una solida infrastruttura intellettuale che consente la più ampia, e pubblica, circolazione delle idee, che favorisca il confronto e, se necessario, anche il conflitto delle interpretazioni. Non uffici centrali, quindi, ma giornali, scuole, università, teatri, luoghi, insomma, in cui idee e modi di vedere il mondo possano mescolarsi e se è il caso sfidarsi. Una simile cura deve appartenere al singolo individuo, e alla società nel suo insieme. La prima, individuale, comporta una responsabilità di ordine morale; la seconda, collettiva, comporta una responsabilità di ordine politico» (pag. 37).
Pronto, qui, a metterlo in discussione con un broncio che, ai tempi in cui era ancora un blogger, Massimo Adinolfi dichiarava inutile se non svantaggioso, facendo sua una frase di Robert Musil che campeggiava in homepage («Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno»): è evidente che deve aver trovato modo di cavarne qualche vantaggio, d’altronde in tempi di crisi il Tempio è sempre stato in grado di reclutare qualche «filosofo in missione per conto di Dio» (definizione che Simone Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui orfano della verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe della post-modernità).
Ma cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né per l’una, né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo» è inscindibile (Democrito), che «per natura» alcuni sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi di ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)? Il fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo.
Dovrebbe essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe (sulla base della convinzione che «alcuni hanno ragione e alcuni hanno torto») di poter affermare che il modello geocentrico del cielo aristotelico è inservibile e quello della sua metafisica rimane valido? Basta riandare a quello che abbiamo detto circa il dibattito scientifico e quello filosofico nel paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in quanto «scienza della verità», è costretta a ritrarsi sempre più nell’empiricamente indimostrabile per poter salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto dominio.
Detto più prosaicamente: il filosofo può ormai esser sereno solo quando resta nel teoretico, e cioè in quel campo della conoscenza dove l’urgenza del veritativo trova soddisfazione nell’astrazione metafisica. È per questo che Hanno tutti ragione? non potrebbe muovere un passo oltre l’artificioso paradosso costruito su un «noi» che è democratico e – insieme – anela all’assoluto della verità, senza servirsi dei trampoli della filosofia teoretica. Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande disinvoltura per una ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel punto da cui era partito: «Per difendere la democrazia, non occorre che sia istituito un Ufficio Centrale, che metta a disposizione del pubblico un immaginario Catalogo Completo dei Fatti Accertati, così che almeno una certa porzione di verità sia posta fuori discussione [non sia mai detto che il «vero» si riduca all’«accertato», significherebbe vincolare la «verità» alla provvisorietà del dato scientificamente desunto]; è invece necessario che sia viva, nelle istituzioni e in capo ai singoli individui, una solida infrastruttura intellettuale che consente la più ampia, e pubblica, circolazione delle idee, che favorisca il confronto e, se necessario, anche il conflitto delle interpretazioni. Non uffici centrali, quindi, ma giornali, scuole, università, teatri, luoghi, insomma, in cui idee e modi di vedere il mondo possano mescolarsi e se è il caso sfidarsi. Una simile cura deve appartenere al singolo individuo, e alla società nel suo insieme. La prima, individuale, comporta una responsabilità di ordine morale; la seconda, collettiva, comporta una responsabilità di ordine politico» (pag. 37).
Ci è
consentito un sospiro di sollievo: il filosofo non è intenzionato a
governare il mondo a colpi di randello, chiede solo gli sia data la
supervisione della «infrastruttura intellettuale» che
informa la morale e la politica. Più che un governatore, un tutore.
4. Non
è raro che la biografia di un filosofo registri a un certo punto uno
scarto anche assai sensibile nel percorso della sua riflessione, per
lo più con uno spostamento dell’interesse o una correzione del
metodo, ma talvolta anche con radicali revisioni del sistema fin lì
edificato. Si tratta di svolte che nel far riferimento alla sua opera
impongono di solito precisazioni del tipo «il giovane
Hegel», «il secondo Wittgenstein», «l’Heidegger
dopo la Kehre», ecc. Accade, così, di avere due filosofi in
uno, di cui, giusto per fare un esempio, il primo è categorico, non
transige, «su ciò di cui non si può parlare si deve
tacere» (Tractatus Logico-Philosophicus, 7),
mentre il secondo chiude benevolmente un occhio sulla chiacchiera
metafisica e su ogni altro ambarabà-cicì-cocò, perché trova
che «l’essenza è espressa nella
grammatica» (Philosophische Untersuchungen,
371): nel mezzo c’è un esaurimento nervoso e, a seguire, un
lavoro usurante come quello di maestro delle elementari (non
viceversa, come solitamente accade), si può capire.
Con
Massimo Adinolfi non si capisce cosa possa essere accaduto tra
un «buonsenso» che a dicembre dell’anno scorso
è «filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza
collettiva» (Leftwing) e nemmeno sei mesi dopo è un
cuoppo «infarcito di insensatezze» (Hanno tutti
ragione?, pag. 43). Sia chiaro, non c’è contraddizione, perché
il «buonsenso» è «la confidenza in una
verità a portata di tutti, […] per la quale non sarebbe necessario
compiere molti sforzi, non sarebbe necessario molto studio» (pag.
41): se non la fai «elaborare» da un esperto, uno
che ne ha la «scienza», uno cui il Principe deleghi la
manutenzione dell’«infrastruttura
intellettuale» della «coscienza collettiva»,
la «verità» va a farsi fottere e, voilà, ecco il
cuoppo. Contraddizione, dunque, no, ma un sostanziale mutamento
dell’umore che impregna il delirio di grandezza comune a ogni
filosofo, quello, sì: da un colpo, certo doloroso, inferto dal fatto
che «con tutto questo buonsenso non mi ci ritrovo neanche un
po’, mentre una buona parte del paese, a quanto pare, ci si
ritrova» (Leftwing), e tuttavia sofferto in modo
stoico, alla furia che la ferita narcisistica impone come
indispensabile riparazione all’oltraggio, e che finisce per mettere
in discussione perfino la democrazia, perché in fondo «non
c’è democrazia senza populismo» (pag. 47).
In Hanno
tutti ragione? non
c’è più traccia del piagnucolio di sei mesi prima («diciamo
allora, come il poeta, che The
Times They Are A-Changin’,
anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato»),
piuttosto la ben più lontana eco di un Giuliano Ferrara per il quale
una «democrazia
possibile» può
aversi solo nella fattispecie di «un’oligarchia
ben organizzata» (Il
Foglio,
22.5.2008), e fa sfoggio, con allegato curriculum («esperienza
compiuta al Ministero della Giustizia come consigliere dell’allora
ministro, Andrea Orlando» –
pag. 92) di un bellicosissimo armamentario retorico, quasi ad
annuncio: A.A.A.
Referenziatissimo scienzato della verità, turris-eburnea-munito,
offresi a oligarchia ben organizzata come progettista di
infrastrutture intellettuali. Trattativa privata, telefonare ore
pasti, astenersi perditempo.
Ovviamente
non è il primo e non sarà l’ultimo dei philosophes
engagés. Diciamo che, qui, più che impegno,
l’engage è ingaggio. I cui termini paiono
chiari, come è evidente chi sia la controparte nella trattativa,
certamente destinata a buon esito, salvo scazzi sul
compenso.
Cosa
c’è di meglio di un Luigi Bonaparte dopo i torbidi di un
1848? «Democrazia è, anzitutto, suffragio universale:
nessuno ne dubita. Ma il fatto che si fonda sul principio “una
testa, un voto” non implica affatto che un voto, un’opinione,
equivale a un pensiero» (pag. 52). E anche qui, per non
lasciare l’affermazione sine argumento, ecco il
sostegno ab auctoritate: «... così avrebbe
detto quel reazionario di Hegel». Dove l’ironia conta di
trovarci d’accordo sul fatto che Hegel è Hegel, e
dunque «reazionario» è uno sproposito: se questo
vale per lui, deve valere pure per chi fa proprie le sue
affermazioni, ergo siamo tenuti a considerare una
generosa concessione che il voto dietro il quale c’è un pensiero
conti quanto quello dietro il quale non ce n’è. Con un’altra
interessante implicazione: a un voto il pensiero può
essere conferito da chi lo rappresenta, perché la rappresentanza –
sostiene Massimo Adinolfi – è legata a tre valori, di
cui il più importante è appunto quello della «verità». E
cioè? «Nel rappresentante, la mia verità [...] si
chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa
fare» (pag. 55).
Concludendo? «Rappresentare è meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato”», perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del tentare di farlo da soli.
Concludendo? «Rappresentare è meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato”», perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del tentare di farlo da soli.
5. «La
verità, vi prego, sulla verità» (pag.
7): Hanno
tutti ragione? apre
parafrasando il Wystan Hugh Auden di La
verità, vi prego, sull’amore,
che nel «vi
prego» della
traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un
sovrappiù d’enfasi rispetto al testo originale (O
Tell Me Truth About Love),
trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a
fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («...
alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo
un’assurdità...»)
e, dall’altro, l’urgenza di una risposta cui poter prestar fede,
data la centralità, la preminenza, della questione in oggetto.
È
parafrasi estremamente suggestiva per due ragioni: innanzitutto,
la «verità» in
luogo dell’«amore» produce
una locuzione – «la
verità sulla verità» –
il cui corrispettivo evoca quell’«amare
l’amore» che
in Agostino d’Ippona (Esposizione
sui Salmi,
118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un
soggetto e da un oggetto dell’amare che sia un «amare
in Dio» («la
verità sulla verità» risolve
allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce
il «vero» di
una «verità»?);
secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità
sull’amore», ci
offre un «amore
per la verità» che
sta nella ragione etimologica della «filo-sofia». Un
brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la
persona più qualificata a poter parlare della «verità», per
eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da
persona tanto qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una
definizione dell’oggetto in questione, ma anche qui, come di regola
in filosofia, lo si ritiene superfluo, dando scontato che si sappia
di cosa si tratti. C’è che però anche qui, come di regola in
filosofia, l’oggetto è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi
sempre espresso da un termine che sembra fatto apposta per reggere –
sia concessa anche a noi una citazione, una
tantum –
quelle che la mera analisi logica del linguaggio rivela come
pseudoproposizioni prive di senso (cfr. Rudolph Carnap, Il
superamento della metafisica mediante l’analisi
logica del linguaggio).
Cos’è,
infatti, la «verità»?
Non ve n’è definizione – tentativo di definizione, per meglio
dire – che non si risolva in tautologia. Tautologia esplicita,
com’è nel definirla «l’essere
vero» (De
Mauro) o «ciò
che è vero» (Treccani),
sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà»,
che ce la ridà come «aderenza
alla realtà» (Palazzi), «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli), «conformità
a una realtà obiettiva» (Treccani),
dove questa «realtà» rimanda
regolarmente al «vero»,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi).
Quando,
poi, dal tentare di definire la «verità» si
passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego
(filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche
peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per
un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere
e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce,
dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un
determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un
determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un
matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero è
anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere
la «verità» come «inverificabile»;
facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo
il quale il «vero» è
categoria illusoria.
Anche
trasferendo interamente il «vero» al «reale»,
nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità»,
le cose non si mettono al meglio, perché la realtà è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così
la realtà sarà
sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile
ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la
frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che
non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È
in questo punto, che poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere
all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di
rappresentarci il «vero» al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la «verità» sia
un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità» assoluta,
che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in cambio di
quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua
vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di
rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle mazzate), e
assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, che è tutto
illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire: proprio perciò
– sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di
mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La
verità, vi prego, sulla verità».
Ma a chi vuo’ piglia’ pe’ culo, Adino’?
[Ultima segnalazione: refuso a pag. 74, «vedendo» al posto di «vendendo». Il solo errore innocente.]
[Ultima segnalazione: refuso a pag. 74, «vedendo» al posto di «vendendo». Il solo errore innocente.]
Postilla
Quando un sistema è incoerente, è inutilizzabile. Sulla base di questa regola, che ha radice nel principio di non contraddizione, al quale nessuna logica può derogare, non è illogico affermare che la verità non esiste, pretendendo che l’affermazione sia considerata vera? Per dirla con l’Agostino del Contra Academicos, non vi è contraddizione nel voler dar per certa l’impossibilità di ogni certezza? La domanda sembra avere grande forza, ma a una più attenta osservazione vale solo il non capire – il non voler capire – che la «certezza» di cui si afferma l’impossibilità – non a caso, qui, tra virgolette, come peraltro la «verità» di cui ho parlato – non ha nulla a che vedere con quella che la nega, perché si tratta di due certezze di natura ben diversa. La prima, quella con le virgolette, è di natura analoga al «sapere» che troviamo nella celebre frase attribuita a Socrate («so di non sapere»): è la «certezza» che ha pretesa di essere fondativa, se non creatrice, di un ordine inscritto nella natura, intesa come realtà antecedente, superiore o comunque intrinseca all’uomo astratto dal suo essere prodotto storico, e dunque culturale. La seconda, quella che nell’esempio qui proposto sta nel «so», è, al contrario, il portato di questo prodotto. Per dirla in altri termini: sono certo (senza virgolette) che non sia possibile «certezza» (con le virgolette), perché la natura altro non è che storia e cultura, entro le quali ogni «certezza» sta a statuto revocabile.
Quando un sistema è incoerente, è inutilizzabile. Sulla base di questa regola, che ha radice nel principio di non contraddizione, al quale nessuna logica può derogare, non è illogico affermare che la verità non esiste, pretendendo che l’affermazione sia considerata vera? Per dirla con l’Agostino del Contra Academicos, non vi è contraddizione nel voler dar per certa l’impossibilità di ogni certezza? La domanda sembra avere grande forza, ma a una più attenta osservazione vale solo il non capire – il non voler capire – che la «certezza» di cui si afferma l’impossibilità – non a caso, qui, tra virgolette, come peraltro la «verità» di cui ho parlato – non ha nulla a che vedere con quella che la nega, perché si tratta di due certezze di natura ben diversa. La prima, quella con le virgolette, è di natura analoga al «sapere» che troviamo nella celebre frase attribuita a Socrate («so di non sapere»): è la «certezza» che ha pretesa di essere fondativa, se non creatrice, di un ordine inscritto nella natura, intesa come realtà antecedente, superiore o comunque intrinseca all’uomo astratto dal suo essere prodotto storico, e dunque culturale. La seconda, quella che nell’esempio qui proposto sta nel «so», è, al contrario, il portato di questo prodotto. Per dirla in altri termini: sono certo (senza virgolette) che non sia possibile «certezza» (con le virgolette), perché la natura altro non è che storia e cultura, entro le quali ogni «certezza» sta a statuto revocabile.
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