L’Asia,
che Einaudi ha mandato in libreria a giugno nella collana dei
Millenni (due volumi, 1616 pagg., 140 euro), raccoglie i primi otto
dei complessivi ventisette libri della monumentale Istoria
della Compagnia di Gesù
di padre Daniello Bartoli (1608-1685), quelli relativi alle missioni
di Francesco Saverio (1506-1552) e di Rodolfo Acquaviva (1550-1583).
Che dirne? Come sempre accade per l’apologetica
e l’agiografia,
occorre armarsi di machete per farsi strada nell’altrimenti
impenetrabile selva di imbellettature e iperboli, eufemismi e
reticenze, elusioni e preterizioni, che furono una goduria per
l’amante
del survival che fui. A onor del vero, infatti, devo confessare che
questa è impressione assai datata, peraltro riguardante solo parte
dell’opera,
quella che nel piano editoriale della Einaudi verrebbe subito a
seguire, e cioè quella relativa alle catastrofiche missioni in
Giappone: tre volumi del primo Ottocento che, poco più che ventenne,
trafugai dalla libreria di suor Geltrude, badessa del Sacro Cuore di
Gesù, e zia.
Di lei e del Bartoli, qui, non mette conto dir altro,
perché quello che invece mi pare assai più interessante segnalare è
quanto Alberto Asor Rosa scrive a margine di una stitica e tarda
recensioncella de L’Asia
apparsa ieri su la
Repubblica:
«Il
gesuitismo, al di là di certe sue prese di posizione ferocemente
antiprogressiste,
ha contribuito, anch’esso, almeno in Italia, alla costruzione di
un’identità nazionale».
Ora occorre dire che «gesuitismo»
ha più accezioni, tutte riducibili a due significati: è «il
complesso dei metodi, dei sistemi propri dei gesuiti, e in
particolare l’atteggiamento e il comportamento di fronte a problemi
intellettuali, morali, dottrinali e religiosi, o anche politici, che
furono propri dei gesuiti»
(Treccani),
dove però non si capisce il «furono»
per metodi e atteggiamenti che i gesuiti non hanno mai dismesso e che
oggi, con un gesuita assiso sul Trono di Pietro, incontrano un
ampio,
seppur non generale, favore in seno alla Chiesa di Roma; ma sta pure
per quel bell’intreccio
di «doppiezza,
falsità, fariseismo, finzione, insincerità, ipocrisia,
mistificazione, simulazione, [al
servizio della] adozione
della casistica per scopi mondani e per accrescere il proprio
prestigio e potere nella società contemporanea»
(anche qui, Treccani).
A quale dei due significati fa riferimento Alberto
Asor Rosa nel lamentare l’odioso
pregiudizio che a lungo ha pesato, e ancora pesa, almeno in certi
ambienti, sulla Compagnia di Gesù?
Non è del tutto chiaro, ma in un punto pare sia possibile avanzare un’ipotesi:
è dove ci rammenta che negli anni ’70
«rischiai
il mio buon nome e, peggio, la mia carriera accademica»
nell’azzardare
un
elogio
di Daniello Bartoli e della sua Istoria
della Compagnia di Gesù. Dove quel «peggio»
ci
svela la scala dei valori di Alberto Asor Rosa, in cui la «carriera
accademica»
sta sopra e il «buon
nome»
sta sotto.
L’antico trafugamento è prescritto sennò penderebbe su di te l’ergastolo per danno all’ecclesiastico patrimonio. Solo la restituzione e connesso pentimento ti esimerebbe dall’inferno; ma avremo modo di tenerci in contatto per i ragguagli. Quanto al macete, per quanto tu ti senta immunizzato, è impresa assai aleatoria non aver danno dagli artropodi in talare. Cazzo di quell’Alberto, parabola di un perbenista che un tempo rischiò di striscio carriera e stipendio e invece poi cadde miseramente per aver ventilato un “golpe” di carta che compromise per sempre il suo buon nome di ravanello. È dura tener duro.
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