4. Non
è raro che la biografia di un filosofo registri a un certo punto uno scarto anche assai sensibile nel percorso della sua riflessione, per
lo più con uno spostamento dell’interesse o una correzione del
metodo, ma talvolta anche con radicali revisioni del sistema fin lì
edificato. Si tratta di svolte che nel far riferimento alla sua opera
impongono di solito precisazioni del tipo «il
giovane Hegel»,
«il
secondo Wittgenstein»,
«l’Heidegger
dopo la Kehre»,
ecc. Accade, così, di avere due filosofi in uno, di cui, giusto per
fare un esempio, il primo è categorico, non transige, «su
ciò di cui non si può parlare si deve tacere»
(Tractatus
Logico-Philosophicus,
7),
mentre il secondo chiude benevolmente un occhio sulla chiacchiera
metafisica e su ogni altro ambarabà-cicì-cocò, perché trova che
«l’essenza
è espressa nella grammatica»
(Philosophische
Untersuchungen,
371):
nel mezzo c’è un esaurimento nervoso e, a seguire, un lavoro
usurante come quello di maestro delle elementari (non viceversa, come
solitamente accade), si può capire.
Con Massimo Adinolfi non si
capisce cosa possa essere accaduto tra un «buonsenso»
che a dicembre dell’anno scorso è «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»
(Leftwing)
e nemmeno sei mesi dopo è un cuoppo «infarcito
di insensatezze» (Hanno
tutti ragione?,
pag. 43). Sia chiaro, non c’è contraddizione, perché il
«buonsenso»
è «la
confidenza in una verità a portata di tutti, […] per la quale non
sarebbe necessario compiere molti sforzi, non sarebbe necessario
molto studio»
(pag. 41): se non la fai «elaborare»
da
un esperto, uno che ne ha la «scienza»,
uno cui il Principe deleghi la manutenzione dell’«infrastruttura
intellettuale»
della «coscienza
collettiva»,
la
«verità»
va a farsi fottere e, voilà, ecco il cuoppo. Contraddizione, dunque,
no, ma un sostanziale mutamento dell’umore che impregna il delirio
di grandezza comune a ogni filosofo, quello, sì: da un colpo, certo
doloroso, inferto dal fatto che «con
tutto questo buonsenso non mi ci ritrovo neanche un po’, mentre una
buona parte del paese, a quanto pare, ci si ritrova»
(Leftwing),
e tuttavia sofferto in modo stoico, alla furia che la ferita
narcisistica impone come indispensabile riparazione all’oltraggio,
e che finisce per mettere in discussione perfino la democrazia,
perché in fondo «non
c’è democrazia senza populismo»
(pag. 47).
In Hanno
tutti ragione?
non c’è più traccia del piagnucolio di sei mesi prima («diciamo
allora, come il poeta, che The
Times They Are A-Changin’,
anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato»),
piuttosto la ben più lontana eco di un Giuliano Ferrara per il quale
una «democrazia
possibile» può
aversi solo nella fattispecie di «un’oligarchia
ben organizzata»
(Il
Foglio,
22.5.2008), e fa sfoggio, con allegato curriculum («esperienza
compiuta al Ministero della Giustizia come consigliere dell’allora
ministro, Andrea Orlando»
– pag. 92) di un bellicosissimo armamentario retorico, quasi ad
annuncio: A.A.A.
Referenziatissimo scienzato della verità, turris-eburnea-munito,
offresi a oligarchia ben organizzata come progettista di
infrastrutture intellettuali. Trattativa privata, telefonare ore
pasti, astenersi perditempo.
Ovviamente
non è il primo e non sarà l’ultimo
dei philosophes
engagés.
Diciamo che, qui, più che impegno,
l’engage
è ingaggio.
I cui termini paiono chiari, come è evidente chi sia la controparte
nella trattativa, certamente destinata a buon esito, salvo scazzi sul
compenso.
Cosa
c’è
di meglio di un Luigi Bonaparte dopo i torbidi di un 1848? «Democrazia è, anzitutto, suffragio universale: nessuno ne dubita. Ma il fatto che si fonda sul principio “una testa, un voto” non implica affatto che un voto, un’opinione, equivale a un pensiero» (pag. 52). E anche qui, per non lasciare l’affermazione sine argumento, ecco il sostegno ab auctoritate: «... così avrebbe detto quel reazionario di Hegel». Dove l’ironia conta di trovarci d’accordo sul fatto che Hegel è Hegel, e dunque «reazionario» è uno sproposito: se questo vale per lui, deve valere pure per chi fa proprie le sue affermazioni, ergo siamo tenuti a considerare una generosa concessione che il voto dietro il quale c’è un pensiero conti quanto quello dietro il quale non ce n’è. Con un’altra interessante implicazione: a un voto il pensiero può essere conferito da chi lo rappresenta, perché la rappresentanza – sostiene Massimo Adinolfi – è legata a tre valori, di cui il più importante è appunto quello della «verità». E cioè? «Nel rappresentante, la mia verità [...] si chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa fare» (pag. 55). Concludendo? «Rappresentare è meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato”», perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del tentare di farlo da soli.
[segue]
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