5. «La
verità, vi prego, sulla verità» (pag.
7): Hanno
tutti ragione? apre
parafrasando il Wystan Hugh Auden di La
verità, vi prego, sull’amore,
che nel «vi
prego» della
traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un
sovrappiù d’enfasi
rispetto al testo originale (O
Tell Me Truth About Love),
trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a
fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («...
alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo
un’assurdità...»)
e, dall’altro,
l’urgenza
di una risposta cui poter prestar fede, data la centralità, la
preminenza, della questione in oggetto.
È parafrasi estremamente
suggestiva per due ragioni: innanzitutto, la «verità»
in
luogo dell’«amore»
produce
una locuzione – «la
verità sulla verità» –
il cui corrispettivo evoca quell’«amare
l’amore»
che
in Agostino d’Ippona
(Esposizione
sui Salmi,
118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un
soggetto e da un oggetto dell’amare
che sia un «amare
in Dio» («la
verità sulla verità»
risolve allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce
il «vero»
di
una «verità»?);
secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità
sull’amore», ci
offre un «amore
per la verità» che
sta nella ragione etimologica della «filo-sofia». Un brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la
persona più qualificata a poter parlare della «verità»,
per
eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da persona tanto
qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una definizione
dell’oggetto
in questione, ma anche qui, come di regola in filosofia, lo si
ritiene superfluo, dando scontato che si sappia di cosa si tratti.
C’è
che però anche qui, come di regola in filosofia, l’oggetto
è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi sempre espresso da un
termine che sembra fatto apposta per reggere – sia concessa anche a
noi una citazione, una tantum – quelle che la mera analisi logica
del linguaggio rivela come pseudoproposizioni prive di senso (cfr.
Rudolph Carnap, Il
superamento della metafisica mediante l’analisi
logica del linguaggio).
Cos’è,
infatti, la «verità»?
Non ve n’è
definizione – tentativo di definizione, per meglio dire – che non
si risolva in tautologia. Tautologia esplicita, com’è
nel definirla «l’essere
vero»
(De
Mauro) o «ciò
che è vero»
(Treccani),
sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà»,
che ce la ridà come «aderenza
alla realtà»
(Palazzi), «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva»
(Devoto-Oli), «conformità
a una realtà obiettiva»
(Treccani), dove questa «realtà»
rimanda
regolarmente al «vero»,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente»
(Palazzi).
Quando,
poi, dal tentare di definire la «verità»
si
passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego
(filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche
peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per
un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere
e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce,
dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un
determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in
un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un
matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero
è
anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere la «verità»
come «inverificabile»;
facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo
il quale il «vero»
è
categoria illusoria.
Anche trasferendo interamente il «vero»
al «reale»,
nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità»,
le cose non si mettono al meglio, perché la realtà
è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà
sarà
sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile
ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la
frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che
non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che
poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità
dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il «vero»
al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la «verità»
sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità»
assoluta, che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in
cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per
questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo,
non di rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle
mazzate), e assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine,
che è tutto illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire:
proprio perciò – sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La
verità, vi prego, sulla verità».
Ma a chi vuo’
piglia’
pe’
culo, Adino’?
[fine]
"Essere nella verità significa trovarsi in una situazione asseverativa nella quale si è in grado di togliere ogni possibile negazione di ciò che, appunto, si afferma, mostrandola come qualcosa che "non può" essere a sua volta asseverato [...] Io ho la verità; ma se gli altri la negano, devo farla valere, devo constantemente impegnarla, testimoniarne di volta in volta il valore. Se non faccio questo, la negazione, l'errore resta lì di fronte, non vinto, non negato: la realtà vive nella pigrizia del compromesso, cioè non vive più. Non si tratta di salvare gli altri portandoli nella verità. L'immutabilità del vero vive in questo suo storicizzarsi nella lotta contro l'errore". Emanuele Severino
RispondiEliminaAsseveriamo a mazzate o a sofismi?
EliminaIn comodato: la verità prende, la verità toglie
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