martedì 8 ottobre 2019

Hanno tutti ragione?


«Tutto quello che non sopporto ha un nome»
Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione (Feltrinelli, 2010)

1. È solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa e complicata logomachia» che Jeremy Bentham sembra porsi il problema di poter aver tediato il lettore, e allora gli chiede scusa, spiegando cosa labbia spinto a farlo. Siamo sul finale di A Fragment on Government (1776) e, dopo essersi speso per pagine e pagine nel «laborioso e ingrato» compito di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia, «peggio che falsa, priva di significato», prevede il rimprovero che gli può esser mosso: «Lhai dimostrato tu stesso che non metteva conto di occuparsene: perché, dunque, perderci tanto tempo?». La risposta rivela un intento pedagogico: «Per fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia nelle proprie forze e meno nellinfallibilità dei grandi nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi dellautorità; per insegnargli a distinguere tra linguaggio altisonante e retto significato; per ammonirlo a non accontentarsi di parole...». Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo con analoghe perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento che molti anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book of Fallacies (1824): disvelare il sofisma che sammanta di autorità.
Nellaccingermi a commentare Hanno tutti ragione? di Massimo Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal genere di intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo che non metteva conto di occuparsene. Di argumenta ab auctoritate, certo, il libricino trabocca, ma non cè bisogno di demistificarli, perché lautore ha la fierezza, se non di dichiararli tali, di rivelarcene la natura con un insistente ricorso alla citazione («come avrebbe detto Hegel», «Merleau-Ponty la metteva così», «direbbe Heidegger», ecc.), daltronde irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è chiamato a interpretare il «filosofo», personaggio che sembra essere diventato un must nel business dellintrattenimento.
Sia ben chiaro che luso delle virgolette per questo ruolo non è denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare unopinione sulla questione del giorno imbottendola di citazioni dotte sono al più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di definire «artista» un critico darte o uno che insegni Storia dellArte, e tuttavia, anche se me ne sfugge la ragione, con la filosofia non va così: «filosofo» è Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo» è pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il Foglio gli chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché non possiamo non dirci Cristiano, in cui troviamo Platone, Rousseau, Voltaire e ovviamente Croce.
Perché questa figura prende vita solo adesso? A naso, direi che il «filosofo» da intrattenimento, forte dei suoi argumenta ab auctoritate, nasca per cercare di dare un contrappeso agli argumenta ad populum che sono la nota dominante di tempi in cui nel foro, a là guerre comme a là guerre, la persuasione ormai si fa strada solo grazie agli argumenta ad judicium: siamo a un Armageddon nel quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di governare la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla in quella di guidare chi la governa, per finire col doversi accontentare di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al ministro, dopo, e di fare lopinionista, venendo alloggi. Opinionista che peraltro soffre dun grave handicap, perché la scienza di cui è chiamato ad intestarsi il titolo di esperto non è una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è affermazione che impone un chiarimento.

Nei vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile, verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo sia preferibile a quel «falsificabile» che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla Popper).
Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza dellautorità precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia luso di un termine come «verità» da appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto scientificamente comprovato.
Difficile dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di chissà cosaltro nellassegnare a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale) è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile», che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà di ciò che esiste in senso assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».
Cè chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di questa riserva, che anzi ha esteso perfino alluso di «realtà», che sta alla «verità», volendo prestar fede a chi con questi termini ha consuetudine a pranzo e a cena, come l’ente sta all’essere. Qui le riporto da unintervista apparsa su un numero de Le Scienze di qualche anno fa: «La realtà – diceva Leonard Susskind – ci rimarrà sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi realismi, […] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose che non servono a niente». Io mi permetterei di aggiungere che, «oltre alle cose che non servono a niente», ne trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio lostacolo che incontra una disciplina come la filosofia, che, da un lato, ha la pretesa di dirsi «scienza» e, dallaltro, come compito si dà – appunto – la «verità»
In Hanno tutti ragione? il «filosofo» si limita a esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel tentativo di superare lostacolo, quasi che da quello abbia da sortire una Minerva, ma è in un altro suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura lincidente come fine ultimo della filosofia: «Poniamo che la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo che rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola, o forse meglio di discorso». E sì, «ma chi non ha mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della filosofia non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La verità come compito della filosofia – Nóema, 2/2011). Nulla che il solito vuoto chiacchiericcio a spiegarne il perché. E tuttavia la filosofia non rinuncia al titolo di «scienza della verità», anche se non ha nulla di quanto si è pocanzi detto della scienza.
Su nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno, ancorché transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul significato dei termini di più comune impiego, cui ogni filosofo infatti rivendica il diritto di darne uno tutto personale (si trovino due filosofi, ad esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»). Tanto meno è dato pretendere dai filosofi ununiformità di metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il solo a poter dire lultima parola. Con tali requisiti è comprensibile perché in filosofia tutte le contese non abbiano mai soluzione, destinate ad essere accantonate per essere periodicamente riproposte, facendo nascere il sospetto che non possano trovare una fine per la semplice ragione che non abbiano un fine, se non quello dellintrattenimento. Poi, certo, cè intrattenimento e intrattenimento, di qua la «pineale» di un Cartesio, la «monade» di un Leibniz o l«evoluzione creatrice» di un Bergson, di là il «nuovo realismo» di un Ferraris, il «turbocapitalismo» di un Fusaro o il concetto di «autorità» secondo Adinolfi, che, a differenza del «nuovo realismo» di Ferraris e del «turbocapitalismo» di Fusaro, ha fin qui fatto poca cassetta e dunque merita un trailer.


Comprensibile, coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per laltrettanto semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai (né può avere) strumenti validi per dare inconfutabile prova di esserle superiore, perché, al pari della posizione che intendesse superare, è per sua stessa natura indisponibile a un vaglio sulla base di criteri che le sono estranei. Ciò che vale per i campi in cui è la scienza ad essere chiamata per indagare, infatti, non vale per quelli in cui è chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella sostanziale differenza delloggetto dindagine, quandanche sia nominalmente identico: nel primo caso, infatti, loggetto preesiste allindagine come problema, anche se poi è la stessa indagine a ridefinirlo nella procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel secondo caso, invece, loggetto nasce nel momento stesso in cui si inizia ad indagare, non un istante prima, e per la semplice ragione che non corrisponde mai del tutto a ciò che nominalmente lo richiama dalle indagini che su di esso sono state condotte in precedenza.
Si prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia – almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una dimensione «metafisica», oppure la «mente», che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella spirale che sovrappone glossa a glossa comè coi gusci di una matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in virtù dellautorità. Quale? Quella che incarna la «verità», o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo», che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta attenzione.  

[segue]

9 commenti:

  1. beh, qualcuno deve pur provare a governare la polis giustificando razionalmente questo tentativo. La scienza evidentemente non può perché un'assise dei migliori scienziati del mondo non è in grado di decidere nemmeno se sia meglio costruire un asilo nido oppure riparare una strada. Quindi o ci affidiamo al semplice gioco del potere oppure ci rivolgiamo alla filosofia che quantomeno permette sempre il dissenso. L'alternativa a Platone non è Archimede, è il tiranno Dioniso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "Qualcuno deve pur provare a governare la polis", certo, ma preferisco non sia chi, prete o filosofo, rivendichi un rapporto privilegiato con la verità. La quale, se è verità, è giocoforza unica, eterna e immutabile, anche a dispetto del decisioni prese a maggioranza.

      Elimina
    2. io preferirei essere governato da un filosofo costretto a trovare il consenso di una maggioranza. Perché in ogni caso potrei giustificare il dissenso verso questo governo come un dissenso verso il sistema filosofico che c'è dietro. Ma come si fa a dissentire (usando argomenti razionali) da un governo espressione di una maggioranza che si rappresenta esclusivamente come somma di interessi particolari ? Al massimo in tal caso si può opporre il proprio interesse particolare. MA allora questo vuol dire che scegliamo di farci governare dal puro gioco del potere.

      Elimina
    3. Sorge il problema di stabilire chi sia filosofo e chi no, che pure è scelta politica. Giocoforza dovremmo affidarla ad un filosofo, ma questo - suppongo se ne renda conto - prefigura il cortocircuito: come, quando, e chi ha stabilito se sia filosofo o no? Poi c'è che non mi è chiaro cosa significhi "puro gioco del potere", ma temo implichi qualcosa in antitesi al cosiddetto "bene comune", inteso come bene di tutti, non necessariamente di ciascuno (organicismo vs. liberaldemocrazia). Ma è possibile che io abbia frainteso.

      Elimina
    4. Non so se ha frainteso, non mi ritengo un organicista ma può darsi ai suoi occhi lo sia. Nell'ambito di cui parliamo filosofo potrebbe essere considerato chiunque:
      a) abbia un'interpretazione coerente della storia e dell'essere umano
      b) deduca da tale interpretazione quali debbano essere in linea teorica i fini dell'azione di governo
      c) promuova azioni di governo coerenti con i fini individuati al punto b.

      Non so se questo conduce necessariamente all'organicismo, non credo.

      Elimina
    5. Ovviamente no, ma a), b) e c) non implicano filosofia.

      Elimina
  2. Il potere ai tecnici! Almeno sanno lavorare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ai preti, ai filosofi, ai tecnici... Si tratta di categorie, credo non sia saggio affidare il potere a una categoria, in virtù della qualità che da essa dovrebbe discendere sui suoi componenti. Lascerei tutto al voto, possibilmente libero e informato.

      Elimina
    2. e dalla finestrina "informato" rientrò il filosofo, con tutta la sua - e le sue - autorità.

      Elimina