Per
come fu vergato da Alfredo Rocco nel 1930, e per come ancora per poco
sarà dato leggerlo, l’art. 580 del Codice Penale non ammette
distinguo: stessa pena (da cinque a dodici anni di reclusione) per
chi istighi al suicidio, per chi rafforzi un proposito suicidiario e
per chi in qualsiasi modo aiuti qualcuno a suicidarsi. Se inscritta
nella logica che guarda alla vita come bene indisponibile, la cosa
regge egregiamente. Un po’ meno, però, nell’arrivare ad
affermare che la vita non sia nella disponibilità neppure di chi ne
è titolare; ancor meno, poi, a voler dare un senso
alla Costituzione nei punti in cui recita che «la
libertà personale è inviolabile» (art. 13) e che «nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge [ma che] la legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana» (art. 32).
Con la sentenza che la Consulta ha
depositato lo scorso 22 novembre pare si prenda atto che il rispetto
della persona umana sia leso allorquando la si obblighi a tollerare
ciò che, in certe condizioni, ma solo in certe condizioni, ella
ritiene intollerabile, perché viene affermata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 580, ma limitatamente al punto in cui «non
esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del
proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una
persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da
una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di
prendere decisioni libere e consapevoli». Se almeno in tali
situazioni pare passi il principio che «su se stesso, sul
proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano» (John
Stuart Mill, 1859), non si può fare a meno di notare che nella
sentenza residui comunque un’ultima resistenza all’accettare che
la vita appartenga interamente a chi la vive, laddove si dichiara che
il suicidio assistito è possibile solo in «una struttura
pubblica del servizio sanitario nazionale» e «previo parere
del comitato etico territorialmente competente».
È evidente che
tali limiti vengano posti a garanzia che la richiesta di eutanasia
sia espressione di un proposito maturato in piena autonomia, al
riparo dall’interferenza di ogni altro interesse che non sia quello
del richiedente. È altrettanto evidente, tuttavia, quanta sovranità
dell’individuo venga sacrificata col chiamare un «comitato
etico» a giudicare sulla legittimità della sua richiesta,
cui poi solo un «servizio sanitario nazionale» potrà
dare legittima risposta. In buona sostanza, siamo in presenza di una
soluzione di compromesso, perché, contrariamente a quanto afferma
chi più di tutti si è battuto perché l’art. 580 fosse messo in
discussione, la sentenza non «cancella la concezione da
Stato etico che ha ispirato il Codice penale del 1930» (Associazione
Luca Coscioni), ma si limita a registrare che lo Stato mitiga il
suo dettato etico, senza però rinunciare a dire l’ultima parola
sulla vita dell’individuo, pretendendo sia vincolante almeno
relativamente a condizioni e modalità di esecuzione della decisione
eutanasica: pur sempre «etico» il «comitato»,
pur sempre «pubblica» la «struttura»,
e a nessuno credo sfugga che tutto questo implichi firme e timbri,
istanze e attese, ciò che insomma fa negozio e ufficio, in senso
stretto e in senso lato.
Diciamo che questa sentenza è abbastanza
perché chi è a favore dell’eutanasia possa affermare che si sia
in presenza di una «sentenza di portata storica», per
quanto essa si limiti a prendere in considerazione il diritto di
autodeterminazione solo del paziente che sia attaccato a una
macchina. Abbastanza, però, anche perché chi, contrario
all’eutanasia, potrà ben dire che quella ora possibile è solo
un’«eutanasia a metà», giacché «la concreta
applicazione della sentenza» è affidata ai medici,
chiamati a decidere «se restare fedeli al giuramento
ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha
resistito per secoli» (Il Foglio, 23.11.2019).
Viene
così a riprodursi quanto è già accaduto con la legge 194 del 22
maggio 1978, che, a ben precise condizioni e con ben precisi limiti,
veniva a consentire l’interruzione volontaria della gravidanza, ma
solo se effettuata in una struttura pubblica, previo negozio e
ufficio, istanza e attesa, firma e timbro (art. 8): lì l’aborto,
qui il suicidio assistito, sono possibili solo nell’ambito del
servizio sanitario nazionale, e chi è contrario all’uno come
all’altro, e non riesce a digerire che la legge li consenta, può
ben sperare che a impedirli o almeno a renderli difficili possa
soccorrere quella obiezione di coscienza che spesso i medici operanti
nelle strutture pubbliche oppongono al compito cui sono chiamati.
Poi, certo, ogni tanto viene pizzicato un Dottor
Dobermann cui si scopre «rend[a]no molto
bene in privato» «le cose che [gli] secca
fare in pubblico» (Francesco De Gregori, 1989), ma questo
nulla toglie alla solidità del principio in virtù del quale «il
medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la
sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la
propria opera» (Codice di Deontologia Medica, art.
19). Che sarebbe assai più solido, tuttavia, se tale contrasto non
avesse luogo in strutture pubbliche deputate a prestazioni che le
leggi dello Stato dicono legittime in patente oltraggio a una
coscienza che dovrebbe essere comune a tutti i medici, giacché tutti
i medici hanno giurato: «Non darò a nessuno un farmaco
mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio;
similmente non darò a una donna un pessario abortivo». È
il Giuramento di Ippocrate, naturalmente, quello cui
faceva cenno Il Foglio: dovrebbe vincolare tutti i
medici, no?
No,
non va bene, troppa premessa, e troppa inutile ironia. Tutto daccapo,
via.
A
commento della sentenza n. 242/2019 della Consulta, che dichiara
parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., aprendo
così la strada alla possibilità di suicidio assistito, seppur
limitatamente ad alcune condizioni, un editorialino de Il
Foglio di sabato 23 novembre chiudeva a questo modo: «Tutto
adesso ricade sulle spalle dei medici: è a loro che è affidata la
concreta applicazione della sentenza, è a loro che tocca stabilire
se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo
di difensori della vita che ha resistito per secoli». Evidente
l’appello all’obiezione di coscienza, evidente l’argomento
scelto a dargli forza: tener fede a un giuramento, quello di
Ippocrate, che trarrebbe autorità dalla tradizione.
Il dispositivo
retorico a sostegno, ancorché tutto implicito nell’antonomasia di
un Ippocrate che, a piacere, sta a idea platonica di medicina o a
santo patrono della professione medica, è il seguente: il testo è
del V sec. a.C., è stato Orsa Maggiore per generazioni e generazioni
di medici, e mai nessuno ha osato metterlo in discussione, tantomeno
nel punto in cui recita «non darò a nessuno un farmaco
mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio»,
vogliamo metterlo in discussione adesso, signori medici?
Non è la
prima volta, di certo non sarà l’ultima, che al Il
Foglio parrà di poter conferire valore ultimativo a questo
genere di argomentazione, ma mai come nel caso del Giuramento
di Ippocrate la scelta pare infelice. Questo perché chi ha
un minimo di conoscenza relativa a quel testo sa bene che quel
passaggio è aggiunta assai posteriore al V sec. d.C., per la
precisione del periodo in cui i cristiani cominciano a manipolare il
manipolabile della cultura pagana.
Risparmiandoci quanto è ormai ampiamente provato
sul piano filologico (cfr. Entralgo, Sigerist, Pazzini, Lami, ecc.),
basti pensare alla Atene in cui Ippocrate visse: il suicidio
assistito era pratica corrente, e nessun biasimo morale pesava su di
esso (si pensi a Socrate, che, nel bere la cicuta, rende grazie
proprio a quell’Aclepio sul quale si vorrebbe che Ippocrate giuri
che non darà mai a chicchessia un farmaco mortale), per diventare
addirittura una topica, con gli Stoici. Possiamo immaginare che
Ippocrate abbia dato vita a una corrente di pensiero dissidente
rispetto a questo tanto comune sentire? Non si ha traccia di
consimili difese a oltranza della vita prima dell’avvento del
cristianesimo, tantomeno in relazione a scelte eutanasiche
motivate dal preservare la dignità della persona a fronte
dell’insulto ad essa inferto da malattia, disonore, coartazione,
ecc.
Ecco perché l’appello che Il Foglio rivolge
ai medici in nome di Ippocrate vale quanto varrebbe la resistenza della Cei a
pagare l’Ici in nome della Donazione di Costantino.
Solo che la Cei è assai più seria, e se ne astiene.
Siamo alle solite: stabilito, spesso obtorto collo, un principio, al secondo comma si limita, s’inficia, si revoca, e poi s’interpreta a cazzo di cane. O si fa mancare il relativo decreto attuativo. Per interesse di negozio e ufficio, senz’altro; sull’etica potremmo perfino concedere ascolto, ma è più semplicemente una questione di potere: non lo vogliono mollare. Dalla culla e fin dentro la tomba il suddito sul proprio collo deve sentire il fiato puzzolente del funzionario, del poliziotto, del prete, di chi amministra la legge, quindi il latrato del padrone e dei suoi portavoce, tanto che ci poniamo ogni volta e ahinoi retoricamente la domanda: si consumerà prima la lingua del servo o il culo del padrone?
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