3. Chi
definisce «virale» la diffusione di qualcosa che non è un
virus, come oggi sempre più spesso accade per tutto ciò che riesce
ad ottenere una rapida ed ampia diffusione negli spazi designati alla
comunicazione pubblica, mostra di aver fatto propria la «teoria
del meme» esposta da Richard Dawkins in The Selfish Gene
(1976) e, se lo fa senza mai averne sentito parlare, allo stesso
tempo se ne offre a comprova. In questo libro più citato che letto,
infatti, viene avanzata l’ipotesi che la tendenza a replicarsi non
sia un’esclusiva di quell’unità funzionale del genoma che
chiamiamo gene, ma anche di quell’«unità di trasmissione
culturale» (o «unità di imitazione») che qui è
battezzata «meme», abbreviazione di «mimeme»,
con rimando al greco μίμημα (imitazione, e dunque
anche copia, duplicato, ecc.), ma anche al francese
«même» (stesso, medesimo, ecc.): «Proprio
come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo
tramite spermatozoi o cellule uovo – scrive Richard Dawkins –
così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in
cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare
imitazione»; e tuttavia l’analogia con la trasmissione del
materiale genetico dai genitori ai figli che si ha con la fusione dei
gameti non pare soddisfarlo appieno nell’illustrare al lettore come
esattamente agisca un «meme», e allora eccolo, e nello
stesso capoverso, a proporne un’altra: «Quando si pianta un
meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente
parassitato e si trasforma in un veicolo per la propagazione del
meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico
di una cellula ospite», chiarendo che «esempi di meme sono
melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi»
e che «la selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio
vantaggio l’ambiente culturale».
Credo ce ne sia
abbastanza per poter dire che anche la stessa «teoria del meme» sia un «meme» e che il largo
impiego del termine «virale» dimostri che ha attecchito mica
male. Il fatto, poi, che abbia attecchito anche in chi non ha mai
letto The Selfish Gene mi pare che evidenzi anche un’altra
caratteristica della «viralità» del «meme»: come
non c’è bisogno di sapere cosa sia un virus, né come sia fatto,
né donde venga, né come agisca, perché, senza volerlo, si sia
costretti ad ospitarlo, offrendogli strumenti per replicarsi e
contagiare chi ci è prossimo, così possiamo essere vettori e
diffusori di un’idea che può arrivare ad assumere la dimensione
epidemica del senso comune, anche senza sapere come sia nata, chi
l’abbia messa in giro, cosa le dia modo di eludere o addirittura
affrontare e abbattere le difese immunitarie del nostro senso
critico. In fondo non accade pure col motivetto scemo che ci troviamo
a canticchiare senza sapere chi l’abbia scritto, né dove l’abbiamo
sentito la prima volta?
Ma c’è altro ancora a dirci della
«viralità» del «meme»: come alcuni virus sembrano
scomparire dopo essere stati gloriosi protagonisti di una travolgente
epidemia, per tornare a farsi vivi solo dopo un certo lasso di tempo,
e semmai più aggressivi di prima, in virtù di una mutazione del
loro materiale genetico che rende inutile la cosiddetta «immunità
di gregge» raggiunta in seguito alla loro prima comparsa, così
certe idee trovano modo di avere diffusione molto rapida e molto
estesa, per poi trovarsi ad essere messe pesantemente in discussione
dal senso critico che nei loro confronti viene acquisito dalla
popolazione che hanno «contagiato», e così dar
l’impressione che non possano più riattecchire in essa, per poi
riuscirci, invece, dopo aver subìto qualche anche minima mutazione
che consente loro di ingannare le difese immunitarie che fin lì sono
riuscite a tenerle lontane; talvolta, tuttavia, il ritorno
dell’epidemia o il revival dell’idea non hanno neppure bisogno di
questo riaggiustamento, perché può bastare che l’organismo
ospite, individuo o collettività, sia debole, vecchio, affetto da
altre patologie, perché il sistema immunitario perda memoria. Se
però, come s’è detto, «la selezione favorisce i memi che
sfruttano a proprio vantaggio l’ambiente culturale»,
è a questo che va posta attenzione per dar conto degli immensi danni
che può causare un «meme» nei confronti del quale in
passato si era riusciti a produrre anticorpi efficaci: è in un
ambiente culturale debole, vecchio, malato, che un «meme», già
debellato dal senso critico, trova occasione per riattecchire, e
questo capita tanto più spesso quanto più a lungo e per più volte
ha avuto modo di causare danni in passato.
Un esempio ci è dato dal
«meme» della catastrofe naturale (terremoto, peste,
carestia, ecc.) come punizione divina, che, da un lato, è altamente
contagioso e, dall’altro, causa danni anche più seri dell’evento
di cui si serve. Perché le catastrofi naturali sono un dato di
fatto, ma il «meme» che ce le presenta come pene per colpe che
devono essere espiate, lungi dal farcele affrontare per quel che
sono, dando così congrua soluzione al problema che pongono, ci
induce a credere che se ne possano neutralizzare gli effetti solo
pagando un prezzo altissimo, in grado di placare l’ira della
divinità che, anche involontariamente, si è offesa.
Ovviamente
non è detto che questo «meme» debba presentarsi proprio nella forma qui descritta, che è quella ancestrale: la catastrofe può essere dovuta
anche all’offesa che si è arrecata a un ordine di cose o di valori
che, deliberatamente o meno, si è stravolto, e che l’espiazione
mira a reintegrare almeno in modo simbolico. Nel caso della peste (e
dei suoi surrogati o succedanei), per esempio, la colpa che ha inflitto il castigo è, di caso in caso, la peccaminosa promiscuità di cui il morbo si
serve per passare da corpo a corpo, la cancellazione dei confini tra
le genti che ne facilita la diffusione, la perdita di un’identità
che era fedeltà a una tradizione e al cui posto ora troviamo un
volto sfigurato dai bubboni: non si ha piena riparazione, non si ha
adeguata espiazione, senza il ripristino, ancorché formale (il
sacrificio è innanzitutto simbolo), dell’ordine di cose e di
valori che si è infranto. E il sacrificio deve essere, insieme, espiatorio e propiziatorio, non può esaurirsi in misure sanitarie proporzionate al problema, ma deve avere in sé i tratti della compunzione che apre la via alla catarsi morale: non può e non deve bastare che gli appestati stiano nel lazzaretto e gli altri si limitino ad evitare il contagio con la profilassi; la dimensione epidemica del morbo impone che contagiati e no si sentano popolo sotto la stessa guida; che lo «stato di eccezione» le conferisca una legittimità oltre ogni legalità; che sull’altare su cui si consuma il sacrificio brucino garanzie e diritti; che il rito sia emotivamente partecipato, e anzi sia banco di prova per saggiare il tenore emotivo dell’obbedienza; ma soprattutto è necessario che all’esterno ci sia un nemico (senza nemico non si dà «stato di eccezione»), e qualcuno che all’interno si presti all’accusa di favorirlo (poco importa se fondata o no, perché si dà imputazione di intelligenza col nemico con la sola intelligenza che mette in discussione il «meme»); più di tutto, però, è necessaria un’autorità che sia allo stesso tempo sacerdote, medico e soldato, perché sia assicurato un ordinato svolgersi del rituale sacrificale, che insieme deve essere alienazione e spettacolo.
Qui possiamo congedarci da Richard Dawkins e affidarci a un’altra guida, Guy Debord.
ve l'avevo detto, quando s'impegna, eccelle
RispondiEliminalo dico con ammirazione, ma credo che ci possa essere un'obiezione al suo per altro ottimo post. La diffusione del meme della "catastrofe naturale" potrebbe essere considerata cosa sempre negativa qualora avessimo la certezza che la società "infettata" non sia già di suo preda di altri meme, magari più dannosi di quello in questione, e verso i quali, dunque, l'ultimo arrivato potrebbe svolgere la funzione di anticorpo.
RispondiEliminaSe lei considera dannoso il meme della sodomia, il meme della pioggia di fuoco che distrugge Sodoma svolge senza dubbio la "funzione di anticorpo", come dice lei (in realtà, secondo Dawkins, ci troveremmo dinanzi alla competizione che seleziona l'uno o l'altro). Se però porge orecchio a chi propone il carcere per chi fa jogging - da solo, eh - sono certo che capirà dove sta il virus.
Eliminaha perfettamente ragione sul tema del jogging, ho malauguratamente provat a porre la questione in termini simili ai suoi a colleghi e amici ricevendone solo accuse di insensibilita' e "tradimento". Tradimento di cosa poi ? Boh. Vogliate anche perdonare lei e i suoi lettori un piccolo sfogo personale. Mi chiama poco fa un' "amica" disperata perché ha il padre non autosufficiente e i badanti non sono stati in grado di raggiungerlo. Dico: "sei scema ? È ovvio che devi andare da tuo padre". Risposta: "sei un insensibile e uno strafottente, non vuoi renderti conto della situazione". In effetti in occasioni simili viene fuori il peggio e il...(no, per la verità il meglio non l'ho ancora visto).
EliminaCome si legge in giro, la punizione non è solo divina, e non è neppure solo una punizione per perdite di identità tradizionali. Monta l'idea che sia la Natura a vendicarsi, per gli sfregi arrecatile da comportamenti non ecologicamente corretti. Del resto ce n'eravamo già accorti, che era panteismo d'accatto.
RispondiEliminaInnanzitutto: bellissimo leggerti, grazie.
RispondiEliminaPoi, in attesa che tu accenda la lanterna della seconda guida, domando, un po' provocatoriamente: ma l'immunità di gregge memetica sarà mai possibile?
Dawkins crede sia possibile.
EliminaRileggere questo post mentre sta per entrare in vigore l'estensione del Green Pass è stato davvero emozionante.
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