«...
probabilmente questa volta è davvero troppo tardi...»
(pag.
308)
Ho
avuto modo di leggere a fine luglio l’ultima
fatica
di Raffaele Alberto Ventura (Radical
choc
– Einaudi, 2020), da ieri in libreria, perché, via email, l’autore
me ne ha inviato una copia in coda a un breve scambio di battute
riguardo a quanto avevo scritto negli otto post apparsi su queste
pagine tra aprile e maggio sotto il titolo «nulla
sarà più come prima»/«tutto sarà come prima».
Ho avuto anche modo di rileggerlo, dunque, e per ben quattro volte,
perché, al
netto delle critiche che qui saranno mosse a Radical
choc –
e anticipo che saranno critiche assai severe – occorre innanzitutto
riconoscergli un pregio che di questi tempi non è da poco: si
presenta come un saggio, e lo è davvero. In ciò è, senza dubbio,
lavoro assai più serio dei suoi precedenti due, Teoria
della classe disagiata (minimum
fax, 2017) e La
guerra di tutti (minimum
fax, 2019), che in modo anche fin troppo autocompiaciuto si
adeguavano alla logica dell’intrattenimento che oggi sembra essere
imperante nella saggistica italiana, e che, nel recensire il secondo
dei due volumi, mi ha fatto scrivere: «Nessuna
articolazione, nessuna tesi, dunque neppure l’onere
dell’argomentazione:
immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni,
suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma,
scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che
oggi è un must per l’intellettuale à la page» (Malvino,
18.7.2019). Forse troppo duro, concedo, ma è che ne La
guerra di tutti
ho visto, come scrivevo, nient’altro
che «una
glossa a Le ultime avventure di Gummo»,
un thriller metafisico tra il visionario e il grottesco dato alle
stampe nel 2005, in cui, trasfigurato in Violent
Unknown Event,
già faceva capolino l’eschaton
che poi sarebbe diventato il chiodo fisso di Ventura.
Sia
chiaro, a buon diritto egli può sostenere che, con gli altri due volumi, Radical
choc
chiude (chissà perché, però, scrive «apre») una trilogia, ma ciò che era
atmosfera in Teoria
della classe disagiata,
e posa ne La
guerra di tutti,
qui è finalmente discorso. Non so dire quanto questa progressione
sia stata scientemente programmata, ma, dovessi ricorrere a
un’immagine,
direi che con Radical
choc
siamo al «vieni,
ti farò vedere le cose che devono accadere» (Ap
4, 1), mentre in Teoria
della classe disagiata tutto
era sospeso in un assai ambiguo «quel
tempo è vicino»
(Ap
1, 3), e ne La
guerra di tutti
c’era
il monito alle sette chiese della post-modernità (Ap
2, 1 – 3, 22). Importante precisare, però, che, sulle «cose
che devono accadere», Radical choc ci
offre due finali. L’Apocalisse
di Ventura, insomma, è interattiva col lettore, lasciandogli la
scelta dello scenario che più s’attagli
al suo umore. Ma di questo si dirà poi.
Si presenta come un saggio,
dicevo, e lo è davvero. Non rinuncia, tuttavia, a qualche gigionismo
che oggi pare indispensabile a catturare l’attenzione
del lettore, in primis quel mix di alto e basso che da qualche tempo sembra un dovere di chi sente la premura di stornare il
sospetto di accademismo, ma in gran parte le citazioni non sono
esornative, una tesi che non sia data alla personale interpretazione
del lettore c’è
e, se pure con qualche forzatura in due o tre passaggi, c’è
pure un’articolazione
argomentativa. Resta il problema di quel «ton
apocalyptique adopté naguère en philosophie»,
come definito da Jacques Derrida (1983) nel suo commento al Von
einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie
di Immanuel Kant (1796).
Derrida scrive: «Kant
è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono qualche
beneficio […] Quale beneficio? Quale premio di seduzione o di
intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono far
paura? Vogliono far piacere? A chi e come? […] In vista di quali
interessi, a quali fini vogliono arrivare con queste proclamazioni
accese sulla fine imminente o sulla fine già avvenuta?»;
e, facendo propria l’analisi
di Kant, sostiene che si tratta di
«mistagogia
escatologica»:
«L’escatologico
dice l’eschaton,
la fine, o piuttosto l’estremo,
il limite, il termine, l’ultimo,
ciò che viene in extremis a chiudere una storia […] Questa gente
si colloca fuori dal comune, ma ha in comune questo: dice se stessa
in un rapporto immediato e intuitivo con aria di mistero. […] Kant
prende in considerazione tutta una lista differenziale e una linea
storica di questi mistagoghi; ma riconosce a tutti loro un tratto
comune: essi non mancano mai di considerarsi dei signori, degli
esseri di élite, soggetti superiori, distinti, e a parte nella
società».
Perché essi siano credibili, tuttavia, occorre che i segni della
prossima fine (di un mondo, se non) del mondo siano altrettanto
credibili. A tal fine, la forzatura è inevitabile, ma in fondo è da
sempre che si fanno prognosi facendo violenza ai sintomi. Da quanto
tempo i testimoni di Geova annunciano la seconda venuta del Messia e
la fine dei tempi? Da quanto tempo i marxisti annunciano che le
contraddizioni interne del capitalismo stanno per farlo implodere?
L’eschaton,
d’altronde,
non dà costantemente ragione della sua urgenza nei momenti di crisi,
seppure nella sua versione light
(quel
«nulla
sarà più come prima» ormai diventato un luogo comune che pare appropriato pure ad ogni taglio
di capelli)? Questa urgenza impone che il sintomo venga interpretato
– insieme – come inedito e fatale. Sicché la seduzione o
l’intimidazione
che l’annuncio
della catastrofe attende come premio implica una sorta di complicità
da parte del lettore (quello che Ratzinger ha definito «anticipo
di simpatia»),
che non ho dubbi Ventura otterrà dal lettore che da sempre è il più comune, e
cioè quello che non ha ragion d’essere
fuori dalla sua contemporaneità.
Radical
choc
apre con una parafrasi dell’incipit
del Capitale
di Karl Marx: «Tutta
la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne
di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di rischi». Una
furbata o una cosa seria? Lasciamo scorrere il testo: «Viviamo
in un mondo popolato da rischi. Nel corso della sua storia, la
civiltà moderna si è data come obiettivo di controllare
l’incertezza delegando sempre maggiori funzioni a una minoranza di
individui specializzati che detiene il monopolio dei mezzi di
produzione cognitiva: funzionari, tecnici, manager, intellettuali,
scienziati, magistrati, periti...». Ma
questo vale solo per la «civiltà moderna»?
Non è così da sempre? Per le esondazioni del Nilo nell’Antico
Egitto, per la peste di Atene, per decidere a Roma cosa fosse fas
e cosa nefas,
per interrogare le stelle sul raccolto a Tenochtitlàn,
per sondare gli umori degli spiriti che aleggiavano sulla prateria
navajo o sulla foresta del Borneo, il compito non era delegato a
sacerdoti, oracoli, aruspici, sciamani, detentori del monopolio dei
mezzi di produzione cognitiva? «Il
Novecento ha segnato il trionfo di questa tecnostruttura, mostrando
la sua capacità eccezionale di garantire sicurezza ma anche
sviluppo: perché nella
dinamica della modernizzazione la sicurezza è condizione dello
sviluppo e lo sviluppo condizione della sicurezza».
Questa relazione è esclusiva della «dinamica
della modernizzazione»? In quale fase della
storia umana si è avuto sviluppo senza sicurezza o viceversa? E
quale Novecento ha segnato il «trionfo di
questa tecnostruttura»? Non il primo
Novecento, che in meno di trent’anni
ha concentrato due immani massacri e una crisi economica senza
precedenti. «Non avrebbe senso scrivere un
libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di
produrre dei saperi utili;
lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che
agli esperti viene chiesto e quello che possono fare».
E cosa c’è di nuovo? «Oggi
il sistema tecnologico sembra fare fatica a riprodurre, in quantità
e qualità sufficiente, quella stessa
competenza di cui ha creato il bisogno».
Oggi? Questo argomentare regge solo a ritenere l’oggi
gravido di quell’inedito
e di quel fatale che sarebbero stati sconosciuti all’ieri e
all’altrieri. Solo così si può configurare come inedito e fatale
lo scenario in cui, «a
fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno
competente nella pratica di quanto
dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati:
chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della
minoranza istruita quella del popolo, e ai radical
chic un radical
choc». Scenario che, in realtà, fatale
quanto si voglia, non è affatto inedito, né tantomeno ha la
modernità come precondizione. Vabbè che oggi ogni acquazzone è una
«bomba d’acqua»,
ma duecentomila ghigliottinati tra il 1789 e il 1793 non sono un
bello choc? Si direbbe che ogni sintomo che per Ventura fa prognosi
di catastrofe imminente ci riesca solo a non riconoscerlo come
ricorrente nel corso della storia, galleria di apocalissi annunciate
tra aneliti palingenetici e pulsioni catartiche, tra conati
chiliastici e orgasmi distopici, con un eschaton dietro l’angolo
e un catechon a spostarlo dietro l’angolo
successivo. Così, sì, vada per il «riflettere
sulle condizioni di riproduzione e legittimazione di una specifica
classe che usa la “conoscenza” come strumento di potere»,
ma quale classe dominante è stata in grado di potervi rinunciare?
E
dunque? «La tesi sull’ascesa e la caduta
dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti che
verranno sviluppati nel libro. Il primo è
quello di produzione
della sicurezza, che definisce la
vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di
riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e
di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il
secondo concetto è quello di rendimenti
decrescenti della competenza, che evoca la
tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di
là della sua
capacità di
ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi,
producendo così uno
stiramento. Il
terzo concetto è quello
di disrupzione della ragione,
che caratterizza la reazione “populista”».
Più che una tesi, dunque, una presa d’atto.
E tuttavia egregiamente presentata come ipotesi da verificare. Può
addirittura passare come onestà intellettuale, via. Poi c’è
che, rispetto a tanta aria fritta che di questi tempi ci rifila la
Premiata Rosticceria Einaudi, questa di Ventura almeno ha un po’
di gusto e consistenza: tempura di
lessico marxiano, direi. «Proponendo un esame
della contraddizione fondamentale del ciclo della
modernizzazione...»,
e indubbiamente c’è
del croccante.
Volpi. Taluni hanno proposto la fine dell'Olocene(l'epoca geologica nella quale è nata la civiltà umana) e hanno proposto come data di inizio dell'era geologica successiva il giorno del 1945 nel quale scoppiò la prima bomba atomica:le tracce dell'esplosione saranno infatti misurabili per un tempo lunghissimo, in tutta la terra .Rispetto ai terrori del passato la catastrofe (nucleare o climatica) potrebbe avere potrebbe avere una natura tale da non consentire una via di fuga nell'esodo.
RispondiEliminaLa nuova e presente era geologica si chiamerebbe Antropocene e sarebbe appunto iniziata il 16 luglio del 1945, data dello scoppio della prima bomba atomica a fissione. Ti ringrazio per le citazioni di Derrida :il Millenarismo è una sirena potente ed è salutare vederlo così descritto.
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