mercoledì 16 settembre 2020

Raffaele Alberto Ventura, Radical choc, Einaudi 2020





«... probabilmente questa volta è davvero troppo tardi...»
(pag. 308)

Ho avuto modo di leggere a fine luglio lultima fatica di Raffaele Alberto Ventura (Radical choc – Einaudi, 2020), da ieri in libreria, perché, via email, lautore me ne ha inviato una copia in coda a un breve scambio di battute riguardo a quanto avevo scritto negli otto post apparsi su queste pagine tra aprile e maggio sotto il titolo «nulla sarà più come prima»/«tutto sarà come prima». Ho avuto anche modo di rileggerlo, dunque, e per ben quattro volte, perché, al netto delle critiche che qui saranno mosse a Radical choc – e anticipo che saranno critiche assai severe – occorre innanzitutto riconoscergli un pregio che di questi tempi non è da poco: si presenta come un saggio, e lo è davvero. In ciò è, senza dubbio, lavoro assai più serio dei suoi precedenti due, Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017) e La guerra di tutti (minimum fax, 2019), che in modo anche fin troppo autocompiaciuto si adeguavano alla logica dell’intrattenimento che oggi sembra essere imperante nella saggistica italiana, e che, nel recensire il secondo dei due volumi, mi ha fatto scrivere: «Nessuna articolazione, nessuna tesi, dunque neppure lonere dellargomentazione: immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni, suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma, scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che oggi è un must per l’intellettuale à la page» (Malvino, 18.7.2019). Forse troppo duro, concedo, ma è che ne La guerra di tutti ho visto, come scrivevo, nientaltro che «una glossa a Le ultime avventure di Gummo», un thriller metafisico tra il visionario e il grottesco dato alle stampe nel 2005, in cui, trasfigurato in Violent Unknown Event, già faceva capolino leschaton che poi sarebbe diventato il chiodo fisso di Ventura.
Sia chiaro, a buon diritto egli può sostenere che, con gli altri due volumi, Radical choc chiude (chissà perché, però, scrive «apre») una trilogia, ma ciò che era atmosfera in Teoria della classe disagiata, e posa ne La guerra di tutti, qui è finalmente discorso. Non so dire quanto questa progressione sia stata scientemente programmata, ma, dovessi ricorrere a unimmagine, direi che con Radical choc siamo al «vieni, ti farò vedere le cose che devono accadere» (Ap 4, 1), mentre in Teoria della classe disagiata tutto era sospeso in un assai ambiguo «quel tempo è vicino» (Ap 1, 3), e ne La guerra di tutti cera il monito alle sette chiese della post-modernità (Ap 2, 1 – 3, 22). Importante precisare, però, che, sulle «cose che devono accadere», Radical choc ci offre due finali. LApocalisse di Ventura, insomma, è interattiva col lettore, lasciandogli la scelta dello scenario che più sattagli al suo umore. Ma di questo si dirà poi.

Si presenta come un saggio, dicevo, e lo è davvero. Non rinuncia, tuttavia, a qualche gigionismo che oggi pare indispensabile a catturare lattenzione del lettore, in primis quel mix di alto e basso che da qualche tempo sembra un dovere di chi sente la premura di stornare il sospetto di accademismo, ma in gran parte le citazioni non sono esornative, una tesi che non sia data alla personale interpretazione del lettore cè e, se pure con qualche forzatura in due o tre passaggi, cè pure unarticolazione argomentativa. Resta il problema di quel «ton apocalyptique adopté naguère en philosophie», come definito da Jacques Derrida (1983) nel suo commento al Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie di Immanuel Kant (1796).
Derrida scrive: «Kant è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono qualche beneficio […] Quale beneficio? Quale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono far paura? Vogliono far piacere? A chi e come? […] In vista di quali interessi, a quali fini vogliono arrivare con queste proclamazioni accese sulla fine imminente o sulla fine già avvenuta?»; e, facendo propria lanalisi di Kant, sostiene che si tratta di «mistagogia escatologica»: «Lescatologico dice leschaton, la fine, o piuttosto lestremo, il limite, il termine, lultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia […] Questa gente si colloca fuori dal comune, ma ha in comune questo: dice se stessa in un rapporto immediato e intuitivo con aria di mistero. […] Kant prende in considerazione tutta una lista differenziale e una linea storica di questi mistagoghi; ma riconosce a tutti loro un tratto comune: essi non mancano mai di considerarsi dei signori, degli esseri di élite, soggetti superiori, distinti, e a parte nella società».
Perché essi siano credibili, tuttavia, occorre che i segni della prossima fine (di un mondo, se non) del mondo siano altrettanto credibili. A tal fine, la forzatura è inevitabile, ma in fondo è da sempre che si fanno prognosi facendo violenza ai sintomi. Da quanto tempo i testimoni di Geova annunciano la seconda venuta del Messia e la fine dei tempi? Da quanto tempo i marxisti annunciano che le contraddizioni interne del capitalismo stanno per farlo implodere? Leschaton, daltronde, non dà costantemente ragione della sua urgenza nei momenti di crisi, seppure nella sua versione light (quel «nulla sarà più come prima» ormai diventato un luogo comune che pare appropriato pure ad ogni taglio di capelli)? Questa urgenza impone che il sintomo venga interpretato – insieme – come inedito e fatale. Sicché la seduzione o lintimidazione che lannuncio della catastrofe attende come premio implica una sorta di complicità da parte del lettore (quello che Ratzinger ha definito «anticipo di simpatia»), che non ho dubbi Ventura otterrà dal lettore che da sempre è il più comune, e cioè quello che non ha ragion dessere fuori dalla sua contemporaneità. 

Radical choc apre con una parafrasi dellincipit del Capitale di Karl Marx: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi». Una furbata o una cosa seria? Lasciamo scorrere il testo: «Viviamo in un mondo popolato da rischi. Nel corso della sua storia, la civiltà moderna si è data come obiettivo di controllare l’incertezza delegando sempre maggiori funzioni a una minoranza di individui specializzati che detiene il monopolio dei mezzi di produzione cognitiva: funzionari, tecnici, manager, intellettuali, scienziati, magistrati, periti...». Ma questo vale solo per la «civiltà moderna»? Non è così da sempre? Per le esondazioni del Nilo nell’Antico Egitto, per la peste di Atene, per decidere a Roma cosa fosse fas e cosa nefas, per interrogare le stelle sul raccolto a Tenochtitlàn, per sondare gli umori degli spiriti che aleggiavano sulla prateria navajo o sulla foresta del Borneo, il compito non era delegato a sacerdoti, oracoli, aruspici, sciamani, detentori del monopolio dei mezzi di produzione cognitiva? «Il Novecento ha segnato il trionfo di questa tecnostruttura, mostrando la sua capacità eccezionale di garantire sicurezza ma anche sviluppo: perché nella dinamica della modernizzazione la sicurezza è condizione dello sviluppo e lo sviluppo condizione della sicurezza». Questa relazione è esclusiva della «dinamica della modernizzazione»? In quale fase della storia umana si è avuto sviluppo senza sicurezza o viceversa? E quale Novecento ha segnato il «trionfo di questa tecnostruttura»? Non il primo Novecento, che in meno di trent’anni ha concentrato due immani massacri e una crisi economica senza precedenti. «Non avrebbe senso scrivere un libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili; lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare». E cosa c’è di nuovo? «Oggi il sistema tecnologico sembra fare fatica a riprodurre, in quantità e qualità sufficiente, quella stessa competenza di cui ha creato il bisogno». Oggi? Questo argomentare regge solo a ritenere loggi gravido di quell’inedito e di quel fatale che sarebbero stati sconosciuti all’ieri e all’altrieri. Solo così si può configurare come inedito e fatale lo scenario in cui, «a fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno competente nella pratica di quanto dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati: chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della minoranza istruita quella del popolo, e ai radical chic un radical choc». Scenario che, in realtà, fatale quanto si voglia, non è affatto inedito, né tantomeno ha la modernità come precondizione. Vabbè che oggi ogni acquazzone è una «bomba dacqua», ma duecentomila ghigliottinati tra il 1789 e il 1793 non sono un bello choc? Si direbbe che ogni sintomo che per Ventura fa prognosi di catastrofe imminente ci riesca solo a non riconoscerlo come ricorrente nel corso della storia, galleria di apocalissi annunciate tra aneliti palingenetici e pulsioni catartiche, tra conati chiliastici e orgasmi distopici, con un eschaton dietro l’angolo e un catechon a spostarlo dietro l’angolo successivo. Così, sì, vada per il «riflettere sulle condizioni di riproduzione e legittimazione di una specifica classe che usa la “conoscenza” come strumento di potere», ma quale classe dominante è stata in grado di potervi rinunciare?
E dunque? «La tesi sull’ascesa e la caduta dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti che verranno sviluppati nel libro. Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo così uno stiramento. Il terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione “populista”». Più che una tesi, dunque, una presa d’atto. E tuttavia egregiamente presentata come ipotesi da verificare. Può addirittura passare come onestà intellettuale, via. Poi c’è che, rispetto a tanta aria fritta che di questi tempi ci rifila la Premiata Rosticceria Einaudi, questa di Ventura almeno ha un po’ di gusto e consistenza: tempura di lessico marxiano, direi. «Proponendo un esame della contraddizione fondamentale del ciclo della modernizzazione...», e indubbiamente cè del croccante.

2 commenti:

  1. Volpi. Taluni hanno proposto la fine dell'Olocene(l'epoca geologica nella quale è nata la civiltà umana) e hanno proposto come data di inizio dell'era geologica successiva il giorno del 1945 nel quale scoppiò la prima bomba atomica:le tracce dell'esplosione saranno infatti misurabili per un tempo lunghissimo, in tutta la terra .Rispetto ai terrori del passato la catastrofe (nucleare o climatica) potrebbe avere potrebbe avere una natura tale da non consentire una via di fuga nell'esodo.

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  2. La nuova e presente era geologica si chiamerebbe Antropocene e sarebbe appunto iniziata il 16 luglio del 1945, data dello scoppio della prima bomba atomica a fissione. Ti ringrazio per le citazioni di Derrida :il Millenarismo è una sirena potente ed è salutare vederlo così descritto.

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