Un
mese fa, via Twitter,
Pier Luigi Castagnetti ci comunicò ch’era deluso: neanche la
pandemia era stata in grado di cambiare «il
modo di pensare degli italiani».
L’aveva sperato, evidentemente. Ma invano.
Ora
qui potremmo discettare a lungo se esista, o meno, un modo di pensare
degli italiani e, se sì, quale sia. Fatto sta che «modo
di pensare» è
«atteggiamento
mentale» (Devoto-Oli),
«insieme
di principi e di convinzioni caratteristico di qcn.»
(De
Mauro), e che «italiani»
implica
una generalizzazione che resta tale anche nel caso in cui Castagnetti
avesse inteso dire, come è assai probabile, «quasi
tutti gli italiani»,
«la
maggioranza degli italiani»,
«tanti
italiani»,
ecc. Discettarne, insomma, imporrebbe innanzitutto chiederci quanto
sia corretto ridurre milioni di persone a un «qcn.».
Io credo sia corretto solo a voler concedere che esista quel
«carattere
nazionale» che
invece per molti autorevoli studiosi di scienze sociali è mera
costruzione letteraria: considerare posture, gusti, inclinazioni,
tic, che peraltro l’esperienza
quotidiana ci mostra diffratti in infinite varianti, come fedeli e
coerenti espressioni di principi e convinzioni, per sussumerli
in un organico sistema etico-estetico, quello dell’«eccezionalismo
negativo»,
che, come ormai ampiamente dimostrato, è uno stereotipo da sempre
funzionale a una polemica ad andamento carsico.
Su queste pagine,
riprendendo la riflessione che sulla questione fu sviluppata quasi
trent’anni
fa da Giulio Bollati (L’italiano
– Einaudi, 1983), mi sono intrattenuto già due o tre volte su
questo stereotipo, di cui oggi due storici, Francesco Benigno e Igor
Mineo, ricostruiscono la genesi (L’Italia
come storia. Primato, decadenza, eccezione
– Viella, 2020), a partire da Giacomo Leopardi («il
più cinico de’
popolacci»),
passando per Giuseppe Prezzolini («i
cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi»),
per Pier Paolo Pasolini («paese
ridicolo e sinistro»),
fino all’«amoral
familism» di
Edward Banfield, in una scia di scorata denuncia di franco tenore moralistico, che spesso ha
dato il segno d’essere
l’ultima
risorsa
di chi aveva perso una partita culturale e politica: era un limite
antropologico a rendere gli italiani – «quasi
tutti gli italiani»,
«la
maggioranza degli italiani»,
«tanti
italiani» –
refrattari al superiore modello etico-estetico offerto loro
dall’eroico
ingegnere
sociale di turno o dall’intellettuale
tanto più «antitaliano»
quanto più innamorato dell’Italia.
Storia di una lunga frustrazione, dunque, quella sintetizzata dal
tweet di Castagnetti: «il
modo di pensare degli italiani» non
gli piace; aveva sperato che almeno la pandemia potesse cambiarlo; e
in meglio, naturalmente, giacché non si dà speranza che non sia di
segno ritenuto positivo da chi spera; un «meglio»,
che rimanda esplicitamente a una scala di valori, sulla quale «il
modo di pensare degli italiani» ha
da stare
giocoforza di almeno una tacca sotto al modo di pensare di
Castagnetti (o comunque a un modo di pensare che Castagnetti ritiene
migliore). Ma abbiamo modo di sapere quale sia il modo di pensare che
Castagnetti ritiene gli stia sopra di almeno una tacca? Nel tweet non
vi fa cenno, dovremmo inferirlo da quanto di lui ci è noto, che –
ahinoi! – è troppo poco. Pur essendo persona pubblica da molti
decenni, infatti, Castagnetti è incolore come uno straccio milleusi
dopo mille e un uso. Io, per esempio, ho memoria solo della volta in
cui disse: «Noi
abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica.
Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il
Papa» (Corriere
della Sera,
25.3.2009), che come «atteggiamento»
mi
è chiaro, ma mi lascia assai nel vago in quanto ai «principi»
e
alle «convinzioni».
Di quale natura possono essere, per esempio, i tuoi principi e le tue
convinzioni, quando devi obbedienza a un Papa che ti dice che
candidarti alle elezioni non
expedit,
ma pure a quello che gli succede, e che invece dice che expedit,
expedit
eccome?
Sorvoliamo
anche su questo punto, dunque, e limitiamoci piuttosto a considerare
questo desiderio di voler cambiare l’altrui «modo
di pensare»,
da cui, a onor del vero, nessun essere umano è totalmente immune, ma
che nell’uomo politico assume forme prossime alla smania.
Comprensibilmente, sia chiaro, perché l’uomo politico – ogni
uomo politico – letteralmente vive del consenso che riesce ad
ottenere. Un maggioritario «modo
di pensare» coincidente
al suo, infatti, è la premessa indispensabile ad assicurargli che
gli sia affidato il governo della cosa pubblica. Comprensibile la
smania, dunque.
Questione più delicata, invece, quella relativa agli
strumenti solitamente impiegati dall’uomo politico nel tentativo di
ottenere un cambiamento del maggioritario «modo
di pensare»,
che, esclusi i casi in cui voglia ricorrere alla violenza fisica,
sono quelli coi quali solitamente si mette in atto il tentativo di
persuadere o di convincere «qcn.»
(sul
fatto che tra le due cose vi sia una differenza rimando a quanto ne
ho scritto qualche tempo fa, qui).
Retwittando il tweet di Castagnetti, l’ho
commentato a questo modo: «Un
altro che ci aveva fatto un pensierino, e ora è deluso. Non hanno
argomenti per “cambiare il modo di pensare” al prossimo, ma ne
hanno una smania incontenibile: se la carota non basta, se il bastone
non si può più, speriamo in un’epidemia».
In un tweet, si sa, ci va tutto e niente. Dal mio restava fuori
quanto qui proverò a spiegare relativamente a quel desiderio di
voler cambiare l’altrui «modo
di pensare»,
che ho concesso sia di ogni essere umano, e che in qualche misura dà
ragione dell’assunto che fa di ogni uomo un aristotelico πολιτικόν
ζώον.
Io credo che il desiderio si trasformi necessariamente in smania
quando la πολιτική
come
forma di cittadinanza, di partecipazione alla vita della πόλις,
si trasforma in Politik
als Beruf.
Il riferimento al saggio di Weber, qui, sta a chiarirci che
«professionista
della politica» non
è solo l’uomo di governo, il dirigente di partito, il parlamentare
o qualsiasi altro eletto a questa o quella carica, ma, in senso lato,
chiunque, «seppur
in posizioni modeste dal punto di vista formale»,
eserciti (o aspiri ad esercitare) «un’azione
sugli uomini»,
partecipi (o aspiri a partecipare) «al
potere che li domina»,
e soprattutto abbia «il
sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende
storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana».
«Sentimento»
assai più comune di quanto si potrebbe credere, perché tratto
distintivo di quella variegata schiera di intellettuali che è sul
mercato altrettanto variegato delle consulenze, delle partecipazioni
a task force di varia natura e varia finalità, che non a caso sembra
registrare un gran traffico in tempi segnati da una patente crisi
della politica. Difficile dire se questa crisi sia causa o effetto
dell’odierna
povertà
di riflessione intellettuale nel paese, perché da sempre qui in
Italia, come d’altronde
altrove, l’intellettuale
ha avuto qualcosa di serio da dire solo quando in favore o contro il
Principe, e quando il Principe era tanto forte da potergli offrire
vantaggi o minacciarne l’esistenza,
quando insomma Politik
als Beruf e
Wissenschaft
als Beruf si
articolavano in modo dialettico. Più in generale, c’è
da rilevare che, col tempo (il punto di rottura può essere identificato
con la fine della Seconda Guerra Mondiale), la soluzione
all’«eccezionalismo
negativo» ha
smesso di essere il recupero dell’«eccezionalismo
positivo» sul modello dei fasti del passato, ma la conquista di una «normalità»
che come punto di riferimento aveva le società nordeuropee, quelle
di cultura anglosassone, ecc. È questa «normalità»
che probabilmente era nelle deluse speranze di Castagnetti, e
riprendere in mano Un
paese normale
di Massimo D’Alema
(Mondadori, 1995) può essere utile ad averne un’idea,
ma anche a capire quanto essa fosse in franca antitesi alla
«normalità»
di
sempre, quella dell’«eccezionalismo
negativo»,
cui da poco Silvio Berlusconi aveva dato piena legittimità,
liberandola da ogni senso di colpa, e addirittura dandole ragioni di
autocompiacimento. Due «normalità»
in
contrapposizione da sempre, l’una
dell’Italia com’è, l’altra di come dovrebbe essere. Di
come poteva cambiare grazie alla pandemia, di come pare che neppure
la pandemia è stata in grado di cambiare.
Un articolo apparso su Il
Post
lo scorso 26 luglio è la glossa più eloquente al tweet di
Castagnetti: «Ora
che l’emergenza si è attenuata eccola di nuovo di fronte a noi
l’idea della normalità. Non più la normalità ridotta e
condizionata dal coronavirus, ma quella aumentata, baldanzosa, quella
che prova a superare la pandemia di slancio. Così oggi si scontrano,
spesso con grande violenza, due idee per il prossimo futuro. Da un
lato una normalità che aspira a una tranquillizzante restitutio
ad integrum.
[...] Dall’altro l’idea di una nuova normalità, che nasce e
cresce come inedita occasione. Una normalità dai tratti
rivoluzionari: diventare migliori grazie al coronavirus,
controbatterne gli effetti distruttivi trasformando quello che ci è
capitato in una possibilità».
Parrebbe esserci, così, una residuale speranza, ma «sembra
piuttosto evidente che la nostra nuova normalità […] sarà molto
simile a quella vecchia, e per i giovani di questo Paese la soluzione
migliore continuerà ad essere quella di andarsene. Per provare a
salvarsi in qualche modo. Per garantirsi una vita finalmente
normale».
Ho
chiuso l’ultimo
paragrafo de La
Grande Sineddoche
dicendo che «il
conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche
che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che l’esito
può esserne previsto dall’andamento delle loro sorti in campo nei
momenti di crisi». Col ricorso ad una locuzione come restitutio ad integrum, che in medicina sta per completa guarigione, pare evidente la vocazione a uscire dal conflitto con le ossa rotte.
[segue]
O le palle rotte, considerato il torpido élan vital dei due citati.
RispondiEliminaho notato che praticamente nessuno, al bar, per strada, con i parenti o con gli amici, si esime dall'esprimere la sua sulla gestione della pandemia. Al di la' delle sfumature, le diverse opinioni si dividono in due campi, quello di chi pensa che si è fatto (e si fa) troppo e quello di chi pensa che si è fatto (e si fa) troppo poco. Mi chiedo da dove possa nascere questa divaricazione dato che non sembra essere possibile ricondurla a una differenza di ceto sociale o di cultura. Al di là di questa questione che per me rimane aperta ho notato che quasi nessuno è soddisfatto della gestione. Azzardo quindi l'ipotesi, ricollegandomi al tema del post, che in Italia la smania di (alcuni) politici di cambiare il modo di pensare degli italiani sia in stretto rapporto con la smania di questi ultimi di criticare pregiudizialmente i primi.
RispondiElimina"Timido totalitarismo"?
RispondiEliminaTroppi non riescono (o se lo impediscono) a capire che il totalitarismo, al di là del breve periodo, è destinato al fallimento. Quand'anche moderata o permissiva, una strutturazione sociale totalitaria manca della capacità di evoluzione e adattamento capace di rispondere ai cambiamenti che inevitabilmente si producono nelle condizioni materiali. L'illusione di efficacia alimentata dalla prontezza di risposta, maschera la povertà delle risposte producibili.
Sono molto perplesso, perché non sono pochi ad aver sperato che la pandemia avrebbe portato dei cambiamenti negli italiani.
RispondiEliminaApprendo che pure Castagnetti Pierluigi lo sperava.
Resta da capire se egli sperava che gli italiani cambiassero la loro idea nella sua: anche se non è ben chiaro quale essa sia, a parte il provenire dallo scoutismo agesci.
Se così è, brindo senz'altro a quella mancanza di cambiamenti che egli invece lamenta.
Stia bene, sempre utile passar di qua.
Ghino La Ganga