Anche
se sono considerati sinonimi, c’è un’enorme differenza tra
persuadere e convincere, come d’altronde è evidente
fin dall’etimo: per-, infatti, esprime l’attuazione di un
fine, che qui è il -suadere, cioè l’indurre a fare,
con quanto di suavis sta nell’induzione di chi induce, ma
anche nel fare cui si è indotti (in altri termini, la soavità
del persuasore riesce a rendere soave il da fare che
spetta al persuaso); con-, invece, esprime la comune vittoria
che premia chi ha cercato di convincere e chi infine si è
convinto (nel convincimento, anche se solo a
posteriori, si scopre che il fine – riconoscere la validità di
quanto si intendeva dimostrare valido – era comune a entrambi).
Diremmo che, nel primo caso, dopo che si è ottenuta la persuasione,
persistono un persuasore e un persuaso, mentre nel secondo, dopo che
si è ottenuto il convincimento, viene meno ogni distinzione tra
vincitore e vinto.
Se
tuttavia persuadere e convincere sono sinonimi, una
ragione c’è, anzi, ce ne sono tre: chi cerca di persuadere e chi
cerca di convincere hanno medesimo fine nell’ottenere il consenso
dell’uditorio; le rappresentazioni del persuadere e del convincere
si tengono sulla stessa scena e le parti interpretate sono
sovrapponibili; chi è persuaso e chi è convinto fanno quanto
consegue dalla persuasione e dal convincimento senza che da quanto
fanno, né da come lo fanno, si possa desumere con certezza alcunché
di specifico del persuadere o del convincere che lo ha determinato.
Se non dal movente, se non dall’azione, se non dagli effetti, da
cosa possiamo desumere, allora, quanto fa la differenza che sta
nell’etimo?
La
tentazione sarebbe quella di appuntare l’attenzione sugli strumenti
utilizzati, dando in premessa che la persuasione abbia miglior presa
su individui più sensibili alla suavitas di pseudo-argomenti
che fanno leva su istinti e fantasie, mentre il convincimento possa
ottenere successo solo su individui inclini a far vincere, sempre e
comunque, la ragione, contro ogni cedimento a passioni e a
pregiudizi. Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di incorrere
nell’errore di credere che persuasione e convincimento abbiano
cogente specificità di strumento, il che non è, come dimostra il
fatto che non di rado la persuasione fa appello alla ragione, mentre
il convincimento non esclude affatto il richiamo alle emozioni.
Si
potrà obiettare che la ragione cui fa appello chi persuade finisce
sempre per rivelare la sua aleatorietà in un processo logico che in
ultima analisi è dimostrabilmente erroneo; parimenti, sarà sempre
possibile dimostrare che le emozioni messe in gioco da chi cerca di
convincere non muovono il processo logico, ma ne sono mosse.
Obiezioni sostanzialmente valide, ma si concederà che dimostrare
l’una e l’altra cosa non sarà sempre facile, e dunque non potrà
avere saldo valore dirimente. Nulla, allora, ci consente di
distinguere in modo agevole e immediato un tentativo di persuasione
da un tentativo di convincimento?
Per
Perelman si deve fare attenzione a chi è indirizzato il tentativo:
«Il discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere,
mentre quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere»,
perché «un discorso convincente è quello le cui premesse e i
cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in
linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale»,
dacché conseguirebbe – questo non lo dice, ma penso sia lecito
inferirlo – che quello persuasivo abbia efficacia solo laddove la
particolarità dell’uditorio sia data da una specifica tendenza ad
assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di pregiudizi.
Diremmo, dunque, che quanto più il discorso sembra rivolgersi a
chiunque tanto più alta è la probabilità che siamo dinanzi
a un tentativo di convincimento, mentre quanto più sembra rivolgersi
a qualcuno tanto più è probabile che siamo dinanzi a un
tentativo di persuasione.
Ma
questo regge come regola generale? Potrebbe anche reggere, se non
fosse che «uditorio da convincere» è concetto assai più
astratto di «uditorio da persuadere», perché
identificare qualcuno è assai più facile che
identificare chiunque, e qui identificare è da
intendere in senso letterale: riconoscere un’identità, cioè
l’unicamente idem a se stesso, che nell’«uditorio
particolare» ha tratti concreti, agevolmente riconoscibili, ma
che nell’«uditorio universale» assume forma di idealtipo.
Poi c’è che, se il convincimento tende ad annullare le differenze
tra individuo e individuo (universalizzandoli) mentre la persuasione
tende a rimarcarle (ripartendoli), dopo aver convinto una parte
dell’uditorio, una differenza si sarà comunque realizzata rispetto
a quella che non si è riusciti a convincere, dando comunque
all’«universale» qualcosa di «particolare»: i
convinti faranno «partito» non meno dei persuasi.
Sul
punto, dunque, neanche Perelman sa darci una
regola generale che possa dirsi
affidabile, il che, per il rispetto che gli si deve, ci fa disperare
possa essercene una: non resta che giudicare caso per caso, senza
peraltro poter escludere la possibilità che persuasione e
convincimento siano compresenti.
Riprendendo, infatti, il noto adagio di Chaignet, secondo cui «a
persuadermi è sempre un altro, a convincermi solo me stesso»,
c’è
il caso in cui «altro»
e «me stesso»
coincidono: è quello in cui l’individuo
si fa massa.
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