venerdì 31 luglio 2020

Normalità (La Grande Sineddoche / 3)


Un mese fa, via Twitter, Pier Luigi Castagnetti ci comunicò ch’era deluso: neanche la pandemia era stata in grado di cambiare «il modo di pensare degli italiani». L’aveva sperato, evidentemente. Ma invano.
Ora qui potremmo discettare a lungo se esista, o meno, un modo di pensare degli italiani e, se sì, quale sia. Fatto sta che «modo di pensare» è «atteggiamento mentale» (Devoto-Oli), «insieme di principi e di convinzioni caratteristico di qcn.» (De Mauro), e che «italiani» implica una generalizzazione che resta tale anche nel caso in cui Castagnetti avesse inteso dire, come è assai probabile, «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani», ecc. Discettarne, insomma, imporrebbe innanzitutto chiederci quanto sia corretto ridurre milioni di persone a un «qcn.».
Io credo sia corretto solo a voler concedere che esista quel «carattere nazionale» che invece per molti autorevoli studiosi di scienze sociali è mera costruzione letteraria: considerare posture, gusti, inclinazioni, tic, che peraltro lesperienza quotidiana ci mostra diffratti in infinite varianti, come fedeli e coerenti espressioni di principi e convinzioni, per sussumerli in un organico sistema etico-estetico, quello dell«eccezionalismo negativo», che, come ormai ampiamente dimostrato, è uno stereotipo da sempre funzionale a una polemica ad andamento carsico.
Su queste pagine, riprendendo la riflessione che sulla questione fu sviluppata quasi trentanni fa da Giulio Bollati (Litaliano – Einaudi, 1983), mi sono intrattenuto già due o tre volte su questo stereotipo, di cui oggi due storici, Francesco Benigno e Igor Mineo, ricostruiscono la genesi (LItalia come storia. Primato, decadenza, eccezione – Viella, 2020), a partire da Giacomo Leopardi («il più cinico de popolacci»), passando per Giuseppe Prezzolini («i cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi»), per Pier Paolo Pasolini («paese ridicolo e sinistro»), fino all«amoral familism» di Edward Banfield, in una scia di scorata denuncia di franco tenore moralistico, che spesso ha dato il segno dessere l’ultima risorsa di chi aveva perso una partita culturale e politica: era un limite antropologico a rendere gli italiani – «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani» – refrattari al superiore modello etico-estetico offerto loro dall’eroico ingegnere sociale di turno o dallintellettuale tanto più «antitaliano» quanto più innamorato dellItalia.
Storia di una lunga frustrazione, dunque, quella sintetizzata dal tweet di Castagnetti: «il modo di pensare degli italiani» non gli piace; aveva sperato che almeno la pandemia potesse cambiarlo; e in meglio, naturalmente, giacché non si dà speranza che non sia di segno ritenuto positivo da chi spera; un «meglio», che rimanda esplicitamente a una scala di valori, sulla quale «il modo di pensare degli italiani» ha da stare giocoforza di almeno una tacca sotto al modo di pensare di Castagnetti (o comunque a un modo di pensare che Castagnetti ritiene migliore). Ma abbiamo modo di sapere quale sia il modo di pensare che Castagnetti ritiene gli stia sopra di almeno una tacca? Nel tweet non vi fa cenno, dovremmo inferirlo da quanto di lui ci è noto, che – ahinoi! – è troppo poco. Pur essendo persona pubblica da molti decenni, infatti, Castagnetti è incolore come uno straccio milleusi dopo mille e un uso. Io, per esempio, ho memoria solo della volta in cui disse: «Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il Papa» (Corriere della Sera, 25.3.2009), che come «atteggiamento» mi è chiaro, ma mi lascia assai nel vago in quanto ai «principi» e alle «convinzioni». Di quale natura possono essere, per esempio, i tuoi principi e le tue convinzioni, quando devi obbedienza a un Papa che ti dice che candidarti alle elezioni non expedit, ma pure a quello che gli succede, e che invece dice che expedit, expedit eccome?
Sorvoliamo anche su questo punto, dunque, e limitiamoci piuttosto a considerare questo desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», da cui, a onor del vero, nessun essere umano è totalmente immune, ma che nell’uomo politico assume forme prossime alla smania. Comprensibilmente, sia chiaro, perché l’uomo politico – ogni uomo politico – letteralmente vive del consenso che riesce ad ottenere. Un maggioritario «modo di pensare» coincidente al suo, infatti, è la premessa indispensabile ad assicurargli che gli sia affidato il governo della cosa pubblica. Comprensibile la smania, dunque.
Questione più delicata, invece, quella relativa agli strumenti solitamente impiegati dall’uomo politico nel tentativo di ottenere un cambiamento del maggioritario «modo di pensare», che, esclusi i casi in cui voglia ricorrere alla violenza fisica, sono quelli coi quali solitamente si mette in atto il tentativo di persuadere o di convincere «qcn.» (sul fatto che tra le due cose vi sia una differenza rimando a quanto ne ho scritto qualche tempo fa, qui). Retwittando il tweet di Castagnetti, lho commentato a questo modo: «Un altro che ci aveva fatto un pensierino, e ora è deluso. Non hanno argomenti per “cambiare il modo di pensare” al prossimo, ma ne hanno una smania incontenibile: se la carota non basta, se il bastone non si può più, speriamo in un’epidemia». In un tweet, si sa, ci va tutto e niente. Dal mio restava fuori quanto qui proverò a spiegare relativamente a quel desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», che ho concesso sia di ogni essere umano, e che in qualche misura dà ragione dell’assunto che fa di ogni uomo un aristotelico πολιτικόν ζώον. Io credo che il desiderio si trasformi necessariamente in smania quando la πολιτική come forma di cittadinanza, di partecipazione alla vita della πόλις, si trasforma in Politik als Beruf. Il riferimento al saggio di Weber, qui, sta a chiarirci che «professionista della politica» non è solo l’uomo di governo, il dirigente di partito, il parlamentare o qualsiasi altro eletto a questa o quella carica, ma, in senso lato, chiunque, «seppur in posizioni modeste dal punto di vista formale», eserciti (o aspiri ad esercitare) «unazione sugli uomini», partecipi (o aspiri a partecipare) «al potere che li domina», e soprattutto abbia «il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana».
«Sentimento» assai più comune di quanto si potrebbe credere, perché tratto distintivo di quella variegata schiera di intellettuali che è sul mercato altrettanto variegato delle consulenze, delle partecipazioni a task force di varia natura e varia finalità, che non a caso sembra registrare un gran traffico in tempi segnati da una patente crisi della politica. Difficile dire se questa crisi sia causa o effetto dell’odierna povertà di riflessione intellettuale nel paese, perché da sempre qui in Italia, come daltronde altrove, lintellettuale ha avuto qualcosa di serio da dire solo quando in favore o contro il Principe, e quando il Principe era tanto forte da potergli offrire vantaggi o minacciarne lesistenza, quando insomma Politik als Beruf e Wissenschaft als Beruf si articolavano in modo dialettico. Più in generale, cè da rilevare che, col tempo (il punto di rottura può essere identificato con la fine della Seconda Guerra Mondiale), la soluzione all«eccezionalismo negativo» ha smesso di essere il recupero dell«eccezionalismo positivo» sul modello dei fasti del passato, ma la conquista di una «normalità» che come punto di riferimento aveva le società nordeuropee, quelle di cultura anglosassone, ecc. È questa «normalità» che probabilmente era nelle deluse speranze di Castagnetti, e riprendere in mano Un paese normale di Massimo DAlema (Mondadori, 1995) può essere utile ad averne unidea, ma anche a capire quanto essa fosse in franca antitesi alla «normalità» di sempre, quella dell«eccezionalismo negativo», cui da poco Silvio Berlusconi aveva dato piena legittimità, liberandola da ogni senso di colpa, e addirittura dandole ragioni di autocompiacimento. Due «normalità» in contrapposizione da sempre, l’una dell’Italia com’è, l’altra di come dovrebbe essere. Di come poteva cambiare grazie alla pandemia, di come pare che neppure la pandemia è stata in grado di cambiare.
Un articolo apparso su Il Post lo scorso 26 luglio è la glossa più eloquente al tweet di Castagnetti: «Ora che l’emergenza si è attenuata eccola di nuovo di fronte a noi l’idea della normalità. Non più la normalità ridotta e condizionata dal coronavirus, ma quella aumentata, baldanzosa, quella che prova a superare la pandemia di slancio. Così oggi si scontrano, spesso con grande violenza, due idee per il prossimo futuro. Da un lato una normalità che aspira a una tranquillizzante restitutio ad integrum. [...] Dall’altro l’idea di una nuova normalità, che nasce e cresce come inedita occasione. Una normalità dai tratti rivoluzionari: diventare migliori grazie al coronavirus, controbatterne gli effetti distruttivi trasformando quello che ci è capitato in una possibilità». Parrebbe esserci, così, una residuale speranza, ma «sembra piuttosto evidente che la nostra nuova normalità […] sarà molto simile a quella vecchia, e per i giovani di questo Paese la soluzione migliore continuerà ad essere quella di andarsene. Per provare a salvarsi in qualche modo. Per garantirsi una vita finalmente normale».
Ho chiuso lultimo paragrafo de La Grande Sineddoche dicendo che «il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che l’esito può esserne previsto dall’andamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi». Col ricorso ad una locuzione come restitutio ad integrum, che in medicina sta per completa guarigione, pare evidente la vocazione a uscire dal conflitto con le ossa rotte.

[segue]


venerdì 3 luglio 2020

La Grande Sineddoche / 2


L’accezione estensiva può portare un termine anche assai lontano dal suo significato proprio, e la procedura che opera questo allontanamento sfrutta sempre lo strumento di una figura retorica. Non ci sorprenderà, dunque, che metafora o metonimia, iperbole o litote, possano conferire a un termine un’accezione che distorce anche sensibilmente il significante. A posteriori, tuttavia, il significato dell’accezione estensiva sarà sempre riconoscibile come quiescente, potenziale, in quello proprio del termine.
Si prenda, per esempio, un termine come scrittura, che da mera «operazione dello scrivere» una figura retorica come l’antonomasia fa diventare Scrittura, e cioè «Parola di Dio». Al significante, che ci parla di cosa indubbiamente scripta, laccezione estensiva dà il significato di cosa eminentemente orale (Verbum), ma ci è chiaro che solo una «voce divina» può dettare un «testo sacro»: lorale quiesceva nello scritto, la figura retorica lo ha destato e reso attivo.
Quale figura retorica dà a senso, che viene da sensus, participio passato di sentire, che vuol dire percepire, e cioè cosa eminentemente soggettiva, laccezione estensiva di «contenuto logico oggettivamente valido» (Treccani), «criterio ultimo di giudizio» (De Mauro), «congruenza con un ordine logico, con la verosimiglianza, e anche con la realtà effettiva e attuale» (Devoto-Oli), con quella valenza di dato oggettivo che così spesso va a esprimere in locuzioni del tipo «il senso della vita», che da «quel che percepisco sia la vita» diventa «quel che la vita oggettivamente è», «il vero e inconfutabile significato della vita», ecc., con ciò conferendo oggettività a un termine che esprime la pura soggettività del sentire? La sineddoche – la figura retorica che ci dà la parte per il tutto – e questo accade anche per altre accezioni di senso, come quella di direzione («il senso di marcia»), quella di logicità («il senso di una proposizione») e quella di conformità («ai sensi della vigente normativa»): un vettore diventa orientamento, una congruenza diventa sistema, una corrispondenza diventa adeguamento.

Ho chiuso lultimo post dicendo che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ma – di sponda – lo diventa sempre. Bene, accade come per il senso, che da soggettivo percepire di una cosa riesce a imporsi come suo vero e inconfutabile significato: la «sponda» è la figura retorica. Potremmo azzardare, dunque, che tutte le forme di vita associata sono piani su cui si saggia lefficacia delle figure retoriche, selezionando quelle in grado di rendere generalmente accettabile la trasformazione del significato proprio di un significante in quello della sua accezione estensiva. Non mi si fraintenda, però. Non intendo insinuare che le dinamiche relazionali siano riducibili a quelle che nel foro pubblico decidono le sorti evoluzionistiche dei significanti, mi limito a suggerire che il successo e il fallimento delle operazioni messe in atto per rendere efficace questa o quella figura retorica siano la più trasparente sovrastruttura del conflitto sociale. Ne conseguirebbe che il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che lesito può esserne previsto dallandamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi.

[segue]