mercoledì 27 febbraio 2013

lunedì 25 febbraio 2013

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La rinuncia di Benedetto XVI ha dato l’occasione di formulare le più svariate ipotesi su quale potesse esserne il vero motivo a quanti è parso che quello dichiarato dal diretto interessato fosse falso. Così ne abbiamo sentite tante, alcune ai limiti del verosimile, ma quella più cretina in assoluto è senza dubbio quella offertaci da Marco Pannella:


In pratica, Benedetto XVI avrebbe dato corpo al passo evangelico nel quale Gesù raccomanda ai suoi apostoli:  «Non procuratevi né oro, né argento...» (Mt 10, 9-10), che poi sarebbe quello riportato nel fotomontaggio che fa da fondale nello stanzone al terzo piano di Via di Torre Argentina, opera di un garzone della scuola di Oliviero Toscani.  



Se sta lì, c’è un motivo. Da sempre, al pari dei cattolici che lo hanno frainteso, Marco Pannella è convinto che il Concilio Vaticano II sia stato tradito dalle alte gerarchie ecclesiastiche, che avrebbero sviato la Chiesa dal sentiero sul quale laveva messa Giovanni XXIII, per ricondurla nel solco della bimillenaria tradizione simoniaca che sempre ha soffocato, però senza mai spegnerla del tutto, la purezza del messaggio evangelico, che sarebbe tutto spirituale. Siamo dinanzi al «problema millenario» cui fa cenno Marco Pannella, quello che vede contrapposti, in ambito cristiano, quanti sostengono che la fede non debba cedere alle tentazioni del potere mondano e quanti invece ritengono che lincarnazione comporti necessariamente il saper stare al mondo, meglio se comodamente calzati. «Problema millenario» che peraltro si traduce nella contrapposizione, in ambito ecclesiologico, tra quanti sostengono che tra cattolicesimo e democrazia non vi sia alcuna incompatibilità, e nemmeno tra cattolicesimo e liberalismo, e chi invece ritiene che, se Cristo si è detto pastore, il suo popolo non può essere che gregge obbediente ai suoi apostoli, che da lui hanno avuto mandato di mungerlo e tosarlo.  
Con le dimissioni di Benedetto XVI siamo davvero a questo? La Chiesa rinuncia a «duemila anni di averi»? Vedremo vescovi e cardinali a piedi nudi come monaci tibetani? O almeno è questo che il vecchio Ratzinger pensa sia il da farsi? E allora, di grazia, perché ha deciso di abdicare? Il Codice di Diritto Canonico recita che il Sommo Pontefice è «supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici» (Can. 1273) e che ha «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Can. 331): bastava un motu proprio e in due minuti si liberava del fardello. Un motu proprio, in realtà, è atteso, ma pare servirà soltanto a snellire le procedure per lelezione del prossimo Papa: il vecchio Ratzinger si ritira, ma non vuole esser causa del minimo intoppo nello scorrere della successione da monarca a monarca.   
Ma poi, tra gli ultimi discorsi tenuti da Benedetto XVI, non vi è anche quello in cui è ribadita la condanna dellermeneutica del Concilio Vaticano II che è cara, tra gli altri, anche a Marco Pannella? Aveva già annunciato la rinuncia e diceva: «C’era il Concilio dei Padri, il vero Concilio, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i  media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. […] Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. […] Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie» (Incontro con i parroci e il clero di Roma, 14.2.2013).
Questo sarebbe il Pietro di cui parla Marco Pannella? E allora che cazzo dice? Soprattutto, perché lo dice? La risposta è di una semplicità disarmante. Marco Pannella ha guidato i suoi nel più nero fallimento politico e, ora che il mugugnare di sempre è diventato un coro di critiche sempre più rumorose, tenta di tenerli buoni consolandoli: si va a morire, ma le profezie si avverano, dunque si muoia in allegria.  



venerdì 22 febbraio 2013

Quel grumo di convenienza reciproca

La prima descrizione clinica di un caso di impostura è di Karl Abraham (1925). Scrisse che il millantatore «non si era sentito amato da bambino e sentiva in sé un profondo desiderio di dimostrarsi degno dell’amore di tutti», sapendo bene tuttavia che prima o poi le sue bugie si sarebbero rivelate tali agli occhi del mondo e che ciò avrebbe dato «prova a lui e agli altri di non meritare questo amore» (Opere – Bollati Boringhieri, 1978 – pag. 164). Potremmo dire che la truffa più crudele dell’impostura sia giocata dall’impostore stesso a proprio danno, in cambio di un utile che spesso non è mai goduto appieno e in vista di una punizione che egli sente necessaria perché si ritiene indegno dell’affetto e della stima che pure cerca di lucrare facendo carte false.
Se l’ipotesi di Abraham vi sembra zoppicante proprio su quell’utile che non è mai goduto appieno, il caso di Oscar Giannino ne raddrizza l’andatura: tutto ciò che ha millantato (due lauree, un master e una partecipazione allo Zecchino d’Oro) non gli tornava affatto indispensabile a sostenere la sua reputazione, anzi, avesse dichiarato fin da subito che era un autodidatta, probabilmente l’avrebbe vista accresciuta.
Tutto sommato, ciò che sappiamo è troppo poco per trattare la vicenda come un caso clinico, e tuttavia qualche dato anamnestico ci è fornito dallo stesso paziente: è figlio di genitori tutt’altro che abbienti, aveva una gran premura di rendersi economicamente indipendente, subiva enormemente il fascino del salotto che desiderava gli schiudesse le porte, e tuttavia non se ne riteneva degno. Mentire non gli è servito a entrarvi, ma a farlo coi requisiti che egli a torto riteneva indispensabili. Solo in apparenza v’è contraddizione con la sua battaglia per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, perché il meccanismo che porta l’impostore a infliggersi una punizione per il suo inguaribile deficit di autostima è tutto inconscio, mentre cercare di rimuovere il pregiudizio che vede il merito maturare in virtù di un iter burocratico è faccenda tutta razionale.

Sulla vicenda che ha visto per protagonista Oscar Giannino si è detto e scritto tanto, più spesso per cader nell’ovvio e dunque per dar libero sfogo al biasimo e allo scherno, sennò per dargli un soldo di pietà. Poco o niente si è detto di Luigi Zingales, e ritengo sia dovuto a un’autocensura: se si doveva biasimare Giannino, si doveva necessariamente esser grati a chi ne aveva smascherato l’impostura, ma al posto di Zingales quanti avrebbero fatto altrettanto, inguaiando un amico e mettendo a repentaglio gli esiti di una comune intrapresa? Ha vinto il riserbo e sulla sua onestà intellettuale, che era la più puntuale negativa della disonestà intellettuale di Giannino, ha prevalso una sospensione di giudizio: avremmo preferito che a smascherare il millantatore fosse stato un suo avversario o uno che caccia bufale per professione.
L’impostore eventuale che è in ognuno di noi – e parlo della porzione più vulnerabile del nostro Io, quella che nessuna autostima riesce mai a soddisfare – ha dimostrato di non tollerare che la punizione possa esserci inferta dal mondo per il venir meno della complicità che di solito ci aspettiamo da un amico e ancor più, forse, da un sodale. Chi si fosse permesso di dire che riteneva Zingales una carogna avrebbe giocoforza dato voce al Giannino che ha pudicamente celato in seno. Meglio sorvolare.

Sono disposto a scusare la debolezza di Giannino, ma penso occorra dir chiaro che Zingales è stato esemplare nel mostrare una virtù tanto rara da sembrare un crimine: ha sacrificato sull’altare della correttezza quel grumo di convenienza reciproca che per pigrizia – solo per pigrizia – chiamiamo amicizia. Perché sarà pur vero che Plato amicus, sed magis amica veritas. E io nutro la certezza che, passato il peggio, Giannino troverà modo di esser grato a Zingales. 

martedì 19 febbraio 2013

Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia

Il M5S non è più un «movimento» ma è diventato una «comunità». Tutto sommato ha poca importanza se sia vero, e ne ha ancor meno se Beppe Grillo ne sia convinto quando lo dice. La cosa importante è la reazione dei suoi quando lo urla dal palco: sembra ci credano, sembra riescano a trovarci motivo di orgoglio, sembra abbiano trovato risposta a un bisogno di appartenenza.
Questa è l’unica novità dello Tsunami Tour, che per il resto è replica del solito one-man-show: i grillini si sentono «comunità». Così diventa finalmente chiaro di cosa volesse essere embrione il «non-partito» creato dalla Casaleggio Associati: in questione, dunque, non era la struttura del M5S, ma la sua stessa natura, che ora mostra i caratteri distintivi della cosa «prepolitica».
D’altronde, definirla «antipolitica» è sempre stato improprio. In senso stretto, infatti, l’«antipolitica» non esiste: anche il rifiuto più netto delle varie espressioni della dimensione politica di per se stesso è un atto politico, né può trovare forma che non sia politica. Peraltro è definizione che Beppe Grillo e i suoi non hanno mai fatto propria, e che anzi hanno sempre respinto.
In secondo luogo, anche a voler dare al termine il significato che in sé condensa i tratti peculiari del populismo e del qualunquismo, l’«antipolitica» rimane categoria in cui il M5S è sempre stato stretto. È luogo di raccolta, infatti, di numerose suggestioni culturali dalle più varie provenienze (giacobinismo, luddismo, pauperismo, ecologismo, democrazia diretta, un po’ di filosofia New Age) che vi confluiscono perdendone la specificità, pur senza arrivare a una vera e propria sincresi: un guazzabuglio di umori, insomma, più che di idee, nel quale chi ha inclinazione alla deriva qualunquista o quella populista trova modo di sentirsi al servizio della palingenesi.
Alla pars destruens della sistematica grillina («comunque vada, sarà un bagno di sangue») viene così ad aggiungersi quella construens («puntiamo al 100%»). Finalmente è chiaro che la polemica antipartitocratica trovava solo un’occasione nell’analisi del sistema politico italiano, ma che in realtà era mossa da un’urgenza profonda, che potremmo definire esistenziale.
Il «partito», infatti, si dà sempre come «parte» di una società, che legittimamente aspira a farsene maggioranza, mentre tende a farsi coincidente con la «società» o con lo «stato»  solo quando esprime velleità totalitarie. Solo in quel caso assume la forma «organica» della «comunità», che invece si dà sempre come un «tutto», fuori dal quale c’è sempre l’estraneo o il nemico.
Lo statuto di questo «tutto» è necessariamente quello dell’«organismo vivente», sicché l’appartenenza ad esso è strettamente funzionale – possiamo parlare di vera e propria cogenza – alla riproduzione della struttura gerarchica che nel «corpo» lega le parti in quell’unità di fine che comunemente è detta «vita», assicurata dalla piena rispondenza di ogni «membro» al «capo».
Ecco, dunque, che tutte le discussioni sul deficit di democrazia interna al M5S perdono significato: in una «società», in un «partito», in un «movimento» esse hanno sempre un senso, e guai se non lo hanno, ma in una comunità lo perdono inevitabilmente, perché non è dato «corpo (umano)» che si regga sulla relazione democratica delle sue parti: la necessità di un Io genera un vincolo di subordinazione tra le «parti» e, se questo viene a mancare, l’«organismo» smette di essere vitale.
Altrettanto vale per la struttura gerarchica a cerchi concentrici che è tipica della setta e che dà statuto al vincolo di subordinazione. Perciò perde senso anche la critica di settarismo che in tanti hanno mosso a Beppe Grillo, perché non si dà setta senza struttura di tipo «organico». Altrettanto vale per le accuse di gestione proprietaria del M5S: non è data titolarità di un «organismo vivente» senza che l’Io se ne possa dire pienamente padrone.
Così, se guardiamo alla «communio» come carattere fondativo della «communitas», ci troviamo dinanzi al modulo ancestrale di organismo «prepolitico» e, per ciò che riguarda il M5S, che non è più un «movimento» ma è diventato una «comunità», il cerchio si chiude. Qui gli individui sono chiamati a restare essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, proprio al contrario di ciò che si realizza nella «società» e nel «partito» – e in massima misura nella «società» e nel «partito» che siano davvero democratici – dove gli individui rimangono essenzialmente separati nonostante ciò che li unisce.
Siamo dinanzi a una «cosa» che ieri era ridicola e oggi è mostruosa. Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia.   

lunedì 18 febbraio 2013

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Se MPS è banca da sempre in mano al Pci/Pds/Ds/Pd, Fassino non avrebbe dovuto dire a Consorte: «Allora abbiamo unaltra banca»? 

Mattei, Carandini, Rossi...





sabato 16 febbraio 2013

«Nulla sarà più come prima»?

Io la penso in altro modo, ma la rinuncia di Benedetto XVI dà la pressoché unanime sensazione che «nulla sarà più come prima», che qualcosa di enorme sia accaduto, stia accadendo o accadrà di sicuro. In realtà, questo convincimento trova molte sfumature, non solo in relazione alla dinamica di quanto sarebbe ineluttabilmente conseguente alla rinuncia, ma anche alla natura stessa del cambiamento, alla sua portata e agli ambiti che ne saranno toccati. Così, per molti siamo alla «rivoluzione» (già in atto o imminente), per altri invece si tratta di «riforma», mentre altri si tengono sul vago e parlano di «choc», oppure ritengono che adesso – come minimo – sia inevitabile un Concilio. E alcuni sostengono che l’ufficio petrino non sarà più lo stesso, altri ipotizzano un effetto a cascata sull’intero impianto ecclesiologico per come fin qui strutturato, altri addirittura vedono l’innesco a miccia corta o lunga per un rivolgimento dottrinario, che alcuni immaginano fecondo e altri catastrofico, mentre alcuni, tra questi ultimi, vedono erosi perfino i plinti teologici sui quali poggia la Chiesa, perché verrebbe messo in discussione il dogma dell’infallibilità papale.
A leggerle tutte, queste analisi, si rimane un po’ confusi: è evidente innanzitutto che, pur partendo tutte dallo stesso punto, divergono da subito, e accelerando in vario modo, per direzioni perfino opposte, nel campo delle ipotesi. E ognuna lascia dubbi. Non si capisce, in primo luogo, perché il Codice di Diritto Canonico consenta al Sommo Pontefice di poter rinunciare al suo ufficio, se da ciò può conseguire – e la pressoché unanime sensazione è che ora necessariamente ne consegua – lo stravolgimento di ciò che invece intende garantire. In questo caso, poi, siamo dinanzi a un testo che dovrebbe assicurare l’inattaccabilità di una struttura che nella sua dimensione gerarchica trova realizzazione della sua natura «organica», cioè di «organismo vivente» che sopravvive solo nel rispetto della funzione delle parti nel suo tutto, e non parliamo di un qualsiasi «stato organico», ma del «corpo mistico» di Cristo. Non sta scritto, qui, che il Papa ha «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa»? Qualsiasi cambiamento abbia a cuore – sia «riforma», sia «rivoluzione» – non può ottenerlo come e quando vuole? «Non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice», chi può impedirgli, dunque, di ottenere ciò che vuole da regnante piuttosto che cercare di ottenerlo abdicando? Se «nulla sarà più come prima», dunque, se qualcosa di enorme è accaduto, sta accadendo o accadrà in seguito alla sua rinuncia, insomma, Benedetto XVI non poteva farlo accadere anche rimanendo dov’era? Non bastava volerlo? Se non l’ha voluto, è accaduto, sta accadendo o accadrà contro la sua volontà, dunque per un calcolo errato.
E allora cominciamo a fare un po’ di chiarezza, anche se di sicuro non arriveremo a stabilire cosa cambierà, e quanto, e come: se il cambiamento si rivelerà positivo per le sorti della Chiesa, a Benedetto XVI non dovrà essere attribuito alcun merito. E invece gliene si stanno attribuendo molti, senza poter esser certi che vi saranno cambiamenti, tanto meno se si riveleranno positivi. Se il cambiamento si rivelerà deleterio? È chiaro che la colpa non potrà essere attribuita a lui, ma a chi ha infilato nel Codice di Diritto Canonico la facoltà di rinuncia, che però è nella piena disponibilità del Papa da quando esiste il Papato. D’altronde la rinuncia di Celestino V quale «rivoluzione», quale «riforma» ha portato? Provocò uno «choc»? Sì, probabilmente. Ma ciò che dal XIII secolo ad oggi è cambiato in relazione all’ufficio petrino in qual misura si deve a quella rinuncia? Gli storici della Chiesa non vi danno alcun conto.
Che bordello, eh? E allora proviamo a sbrogliare il gomitolo tirando il filo in un altro punto. Diamo per pienamente efficaci sul clero e sul laicato gli effetti psicologici di questo evento che di sicuro ha solo il fatto che è relativamente raro, e chiediamoci se può essere in grado di portare alla revoca del dogma dell’infallibilità papale, alla ridefinizione del ministero petrino, alla riforma dell’istituto episcopale o del corpo cardinalizio. Potrebbe accadere solo sulla base di un autoripensamento dell’intera struttura ecclesiale, cosa che, quando accade, impiega tempi così lunghi da assorbire e neutralizzare ogni singolo evento, per quanto traumatico sia. Controprova? Si citi nella storia della Chiesa una sola svolta cruciale che possa dirsi effetto di un evento puntiforme, sebbene fin lì inedito, o di rilevante portata.
La Chiesa cambia solo con la lentezza che le dà la sensazione di essere immutabile: se l’istituto petrino muterà ancora, come d’altronde è andato continuamente mutando da Pietro a oggi, non sarà per ciò che Benedetto XVI ha deciso di fare, e questo lo sa bene innanzitutto Benedetto XVI. E allora? E allora siamo alle solite. Ancora una volta ci scappa di dire che «nulla sarà più come prima» perché l’evento che abbiamo davanti è sovradimensionato dalla vicinanza.

giovedì 14 febbraio 2013

Solo una preghiera


Lui lo conosciamo da decenni, non ci ha sorpreso più di tanto. Di lei, invece, almeno fino a tre giorni fa, non sapevamo niente, potevamo solo tirare a indovinare. Era offesa o divertita? Era imbarazzata o stava il gioco? Si sentiva ferita dalla gratuita volgarità del vecchio sporcaccione o era onorata di star lì a duettare con quel vulcano di simpatia? Ho riguardato la scena una dozzina di volte e sarà che difetto della sensibilità che sarebbe stata necessaria, ma non sono riuscito a cogliere alcun disagio in chi tre giorni dopo avrebbe dichiarato che invece era paralizzata dallimbarazzo, e sì che ero avvantangiato dal guardare il video dopo aver letto la sua dichiarazione. Ovviamente credo alla signora e le chiedo scusa per non essere stato in grado di intuire la paralisi. Solo una preghiera, nel caso dovesse capitarle una disavventura simile: per evitarmi sensi di colpa, potrebbe darmi un cenno di paralisi stando zitta? Non dico arrossire, sbiancare, svenire, ma ammutolire ed evitare di sorridere? 

mercoledì 13 febbraio 2013

Non abbastanza vivo, non abbastanza morto


Tra le tante stupidaggini che ci è toccato sentire a commento della rinuncia di Benedetto XVI spicca quella di quanti l’hanno definita un «atto rivoluzionario». A costoro è inutile far notare che la rinuncia è nella piena disponibilità del Papa da quando esiste il Papato, perché si tratta di quei poveri di spirito ai quali pare ardito ogni gesto che rompe una consuetudine, anche quando si tratta di ciò è contemplato dalla legge.
Altrettanto inutile sarebbe far notare a quanti hanno d’istinto tirato fuori il bignamino, per dire che si è trattato di un gesto di «viltade», che la gran parte dei medievalisti rigetta ormai da decenni la vulgata dantesca del «gran rifiuto» sulla base di solidi argomenti in favore della tesi che Celestino V sia stato costretto a firmare una bolla scritta dal cardinal Caetani, e che quindi l’analogia vale quanto un soldo bucato: insinuare che l’Alighieri possa aver dato una versione infedele dei fatti per costoro sarebbe un trauma, meglio evitarlo.
Come interpretare, allora, la decisione di lasciare il pallio sulla tomba di Pietro da Morrone? Penso si tratti del tentativo di accreditarsi unimmagine che è farlocca solo per chi sa che nella Chiesa convivono senza contraddizione, anzi traendone forza, i Caetani e i Morrone. 

A un livello di stupidaggine appena inferiore a queste due letture stanno le rispettive versioni attenuate.
Per alcuni, infatti, «le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un’oggettiva desacralizzazione della sua carica […] che in questo caso suona come un invito a ridefinire le gerarchie delle cose, a stabilire priorità più autentiche, […] da[ndo] una lezione spirituale di segno fortissimo» (Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera, 13.2.2013); in più, «la decisione di Benedetto XVI si colloca dentro il profondo cambiamento avvenuto nell’autocoscienza ecclesiale ed ecclesiologica con il Vaticano II: è una Chiesa che si pensa secondo una reale storicità» (Serena Noceti – l’Unità, 13.2.2013).
Si tratta della tesi dell’«atto rivoluzionario», però attenuata nella convinzione che la rinuncia di Benedetto XVI sia «seme fertile» di «riforma». Meno stupida, ma non di molto, perché basta riandare all’ermeneutica del Vaticano II, sulla quale il dimissionario ha martellato da Rapporto sulla Fede (Edizioni Paoline, 1985) fino a l’altrieri, per capire che questa interpretazione della rinuncia è pesantemente forzata. L’errore, a mio modesto avviso, sta nel pensare che con l’abdicazione di Benedetto XVI l’ufficio petrino prenda – sia un bene o un male  a secolarizzarsi. In realtà è secolarizzato da sempre, perché il mandato di Cristo che si legge in Mt 16, 18 è il risultato di uno stravolgimento del testo originario.

Versione attenuata del «gran rifiuto» per «viltade», invece, è quella del Cristo che «scende dalla croce» venendo meno al suo dovere di bere l’amaro calice fino alla feccia sul fondo, che pure Cristo pregò il Padre gli fosse risparmiato: è l’interpretazione data dal cardinale Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Giovanni Paolo II, che pure alla feccia si arrestò e chiese di essere lasciato libero di «andare alla casa del Padre». Meno sghemba dell’analogia con Celestino V, ma altrettanto impropria. Perché con un Papa in coma non si può convocare un conclave per eleggerne un altro.
Come ho già detto (vedi il post qui sotto), Benedetto XVI lascia perché sente che gli vengono meno le forze per ribaltare il segno del suo pontificato che è quello del fallimento, che non è solo politico, come tutti concordano nel sostenere, ma anche dottrinario. Con la salute malferma che si ritrova, il vecchio Ratzinger teme di dare a questo fallimento le dimensioni del dramma: quello di una Chiesa con un Papa che un ictus tiene inchiodato in un letto, non abbastanza vivo, non abbastanza morto. Probabilmente non è neppure questa evenienza che teme, perché già adesso si sente in condizione pressoché analoga.

Qualche mese fa scrivevo: «Quello di Benedetto XVI si sta rivelando uno splendido pontificato, almeno per noi anticlericali. Mai tanta merda è venuta a galla dal fondo dell’acquasantiera come in questi anni, immergerci due dita per farsi il segno della croce impone ormai più stomaco che devozione. Lunga, lunga vita a Benedetto XVI». Come interpreto la sua rinuncia? Ha voluto farci un dispetto. 

martedì 12 febbraio 2013

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1. Sulle ragioni che avrebbero spinto Benedetto XVI alla rinuncia dell’ufficio petrino ci tocca sentire le ipotesi più fantasiose, mentre la più banale pare sfugga a tutti: si tratta di un 86enne che soffre da tempo di seri disturbi cardiocircolatori e che in anamnesi ha almeno tre episodi di ischemia cerebrale (Roma, 1988; Bressanone, 1992; Les Combes, 2005). Molto probabilmente morirà per gli esiti di un infarto o di un ictus, ma chi può garantire che non entri in coma e ci rimanga per mesi o addirittura per anni? Da ogni punto di vista, ma soprattutto sul piano giuridico, si tratterebbe di una situazione assai più complicata di quella data oggi con la sua rinuncia.

2. «È immaginabile una situazione nella quale Lei ritenga opportuno che il Papa si dimetta?». Molto citata, in queste ore, la risposta che Benedetto XVI dà alla domanda postagli da Peter Seewald in Luce del Mondo (Libreria Editrice Vaticana, 2010 - pag. 53)

Non basta a fugare i sospetti che la rinuncia sia dovuta ad uno scoramento di Benedetto XVI, ad una sensazione di impotenza dinanzi allirriformabilità della «cosa vaticana» che lo avrebbe frustrato, deluso, intristito e indotto a lasciare. È che al dimissionario non si nega un po’ della benevolenza che volentieri si concede a chi muore. Così gli si concede sia unanima bella piovuta dal cielo in un nido di vipere. Di colpo ci si dimentica che  «in forza del suo ufficio, [aveva] potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che [poteva] sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, 331), ma non se n’è servito neppure per rimuovere un po  della  «sporcizia» di cui si lamentava alla vigilia della sua elezione al Soglio Pontificio. Di fatto, allontanava Viganò e si teneva accanto Bertone. Dunque lascia perché si è reso conto di essere inadeguato alla soluzione dei problemi? Macché. Ne era sommerso e diceva:

3. Accade ogni volta che muore un Papa, non fa eccezione un Papa dimissionario: si tende a dimenticare che merda duomo sia stato, chiudendo un occhio sui suoi difetti e costruendo virtù inesistenti. In questo caso, retroproiettando la rinuncia, si è arrivati a dire che non volesse diventare Papa, dimenticando quanto aveva rivelato suo fratello: «Joseph l’aveva sempre sognato, fin da quand’era bambino» (Süddeutschen Zeitung, 21.4.2005). 

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