domenica 29 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (allegati)

«Dopo qualche giorno dall’inizio dell’epidemia di coronavirus – scrive Giulio Fatti (Dipartimento di Scienze Fisiche, Informatiche e Matematiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) – ha iniziato a sembrarmi evidente che la gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni lasciasse alquanto a desiderare, e che rispondesse a delle esigenze politiche diverse, e probabilmente incompatibili, sia con un contenimento efficace del contagio, sia con la limitazione dei suoi effetti. Ho allora iniziato a raccogliere, giorno per giorno, le dichiarazioni di politici, funzionari, uomini delle istituzioni, e le misure da loro prese. Ho incluso anche le dichiarazioni e le note da parte dei rappresentanti delle imprese, dagli industriali ai negozianti, e dei sindacati, per mettere in mostra le relazioni tra componenti del corpo sociale e politica. Ho raccolto anche alcune interviste e dichiarazioni da parte di virologi, epidemiologi, medici ed esperti in generale, per cogliere anche il legame che esiste tra discorso scientifico e responsabilità politica».
Qui trovate il materiale grezzo, che su fogli di OpenOffice Writer (dimensione del carattere 14, interlinea 1,5) occupa 115 pagine (su Quarantena trovate il testo riordinato in cinque paragrafi: Comparsa e negazioneMinimizzazione e diffusioneEsplosione, Contenimento e Chiusura e controllo).

Ho spostato qui sotto il testo integrale dell’articolo di Gennaro Carotenuto, di cui avevo riportato ampi stralci in coda all’ultimo post, di qui il titolo dato a questo paragrafo di «nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima». Carotenuto individua con grande lucidità le questioni sollevate dal modo in cui si è affrontata la gestione dellepidemia, la cronistoria redatta da Fatti illustra al meglio come esse siano venute a prendere corpo, lasciandone intuire il perché: materiali documentali che non mi azzardo a portare a sostegno di quanto ho fin qui scritto sulla vicenda, ma che offro allattenzione del lettore per dargli modo di considerare in cosa mi smentiscano, prima di tirare i fili della mia riflessione (paragrafi 6 e 7).  




Gennaro Carotenuto
Tra limitazioni e sorveglianza
Il Mulino, 23.3.2020

Il virus giustifica la limitazione della libertà di circolazione. È limitata all’immediatezza delle rispettive abitazioni (non tutte confortevoli o salubri), nel comune di residenza in Italia, nella sospensione dello spazio Schengen in Europa. Andiamo a riscattare i nostri studenti Erasmus, come se d’improvviso Madrid o Lione o Colonia fossero dei luoghi estranei, se non ostili. Ognuno deve tornare al proprio posto, come se ognuno di noi avesse un suo luogo naturale e non altri, in una società che sembra non vedere l’ora di chiudersi.
Quasi come un dettaglio secondario ‒ con un dibattito frettoloso zittito dalla presunta urgenza e necessità ‒ è passata la restaurazione (momentanea?) delle frontiere tra gli Stati nazionali. È la dimensione sognata dai cosiddetti sovranisti. Fino a ieri tale posizione vedeva un mondo liberal-democratico e progressista contrapporvisi con vigore. Oggi, di fronte alla cogenza del morbo, quel mondo ne prende atto, nella speranza di non essere di fronte a un cambiamento strutturale del modo di vivere che abbiamo ereditato da Altiero Spinelli.
Da un giorno all’altro, quello che consideravamo un valore fondamentale corre il rischio di finire tra parentesi. La mozione d’ordine sociale che il morbo impone trova consenso generalizzato nell’opinione pubblica. È una messa in riga che ricorda quella – epocale, qui non siamo a tanto – che vide il movimento dei lavoratori, che pure aveva discusso per settant'anni di internazionalismo proletario, votare i crediti di guerra non appena la patria chiamò, nel 1914. E così gli operai francesi andarono a sparare contro i tedeschi e viceversa. La ricreazione era finita.
L’articolo 16 della nostra Costituzione prevede che la libertà di movimento valga «salvo le limitazioni che la legge stabilisce per motivi di sanità o di sicurezza». Oggi è sospeso un diritto così basilare da non essere mai stato in discussione (per chi ha un passaporto comunitario). Ancora un mese fa sarebbe stata una distopia che un italiano non fosse libero di scollinare l’Appennino. Molti hanno attaccato duramente Giorgio Agamben per la sua preoccupazione sulla vigenza oggi di uno «stato d'eccezione» e sui rischi per la democrazia in Europa prodotti dal Coronavirus. Alcune di queste critiche – penso a un articolo di Paolo Flores D’Arcais su «Micromega» – sono figlie di una cultura profondamente autoritaria che, di fronte al nemico esterno, obbliga a stringersi a coorte. Sui giornali, sui social, nel dibattito pubblico, invale improvvisamente un linguaggio militaresco. Siamo in guerra, si dice, e il virus è il nemico. I medici sono eroi (e lo sono), e chi si sottrae un disertore (ed è opinabile).
Oggi in Italia è l’opinione pubblica stessa, impaurita giustamente dal virus, a invocare maggior segregazione, più controlli, ulteriore coercizione per i presunti trasgressori. L’adesione di massa al dispositivo disciplinare della quarantena (che è un succedaneo del dispositivo securitario sull’immigrazione, sul quale è costruito il consenso delle destre, con le sinistre in continua difensiva) sta comportando fenomeni di delazione o di criminalizzazione per chi starebbe violando il decreto #iorestoacasa. La stigmatizzazione di quelli che per un motivo o per l’altro escono di casa, trattati come irresponsabili se non come veri e propri untori, ha dei tratti che ricordano quella dei sieropositivi al tempo dell'esplosione dell'Aids. Gli omosessuali, già oggetto di discriminazione, erano colpevolizzati per il male che era addebitato alla loro presunta devianza. «Le vite degli altri» sono sotto scrutinio. Il campione d’atletica Yeman Crippa, speranza olimpica azzurra, è stato denunciato dai vicini, e la costanza salutista dei podisti stigmatizzata dai più.
Alcuni governatori, non solo di destra, hanno preteso l’esercito in strada, non con funzioni ausiliarie nella lotta al morbo, come sarebbe ragionevole, ma per controllare i movimenti di una frazione della popolazione. I militari in strada, in democrazia, con funzione di ordine pubblico, restano una patologia della quale preoccuparsi, soprattutto di fronte alla crisi sociale ed economica, probabilmente la più grave della Repubblica, che non tarderà a esplodere e che già coinvolge milioni di precari e lavoratori informali.
Di fronte all’epidemia, l’imperativo di sorvegliare, e possibilmente punire, ottiene un consenso di massa. Sembra sfuggirci che l'epidemia, l’allarme, l’urgenza, la paura, così posti, rappresentano la realizzazione di un sogno autoritario, inducendoci a sottoporci volontariamente a misure coercitive. Di fronte alla crudeltà del morbo la risposta non può essere che unanime, immediata, urgente. Ma se non è tempo di pensare, resta solo il tempo di obbedire, che è sostanzialmente quello che stiamo facendo. L’ira delle autorità – e, a cascata, l’ira di molti cittadini – è convogliata contro pochi flâneur (costretti magari a vivere la quarantena in ambienti malsani), ai quali senza mezzi termini è addebitata la persistenza del contagio.
Solo con estrema fatica si è invece fatta strada la coscienza che, sino a oggi, al centro del cratere, nelle province di Milano, Brescia e Bergamo, mezzo milione di lavoratori sono stati costretti a muoversi, infettarsi e infettare per recarsi in fabbrica, in omaggio all’ideologia della produzione. Con estremo ritardo, in assenza di un confronto reale tra capitale e lavoro, da mercoledì 25 qualche fabbrica in più chiuderà. Difficile dire se sia stata una decisione tardiva del governo presieduto da Giuseppe Conte o una concessione di Confindustria.
Intanto tutti crediamo – o forse già solo speriamo – che qui e ora la quarantena sia necessaria come modo per tornare al più presto possibile alle nostre vite di prima. Ma come può la quarantena essere rappresentata come una mera misura di profilassi, che oggi vige e domani cadrà senza lasciare tracce? La quarantena di massa per il Covid19 è già ora il singolo evento biopolitico più importante della storia della Repubblica e non solo.
Domenica 22 marzo un miliardo di persone (né tutte uguali, né tutte sulla stessa barca) sono costrette nelle loro case, dalla favela della Rocinha a Río de Janeiro al Bosco verticale di Boeri a Milano. E qui vengo al punto. Il Coronavirus è davvero un evento eccezionale? O è solo il primo episodio tangibile in campo sanitario dell’ecocidio che stiamo già vivendo, e che in questo momento vede molteplici fenomeni drammatici, incluso l’inverno appena trascorso più caldo e siccitoso della storia (a febbraio in Italia +2,8 gradi e -80% di precipitazioni rispetto alla media), o la drammatica invasione delle locuste in Africa orientale?
Come per l’«acqua alta» a Venezia, moltiplicatasi come fenomeno negli ultimi anni, il Covid19 appare essere più un nuovo cedimento della biosfera che un evento eccezionale. La pandemia è destinata a durare molti mesi, secondo molteplici studi anche un paio d’anni. Sappiamo tutti che misure coercitive come la quarantena non sono sostenibili socialmente oltre un periodo di poche settimane. In quanto fenomeno destinato a ripetersi, nella stessa forma pandemica o in altre forme imprevedibili, è pensabile che le libertà fondamentali possano coesistere con urgenza, paura, pericolo di vita? O quelle libertà saranno vittime sacrificali, con il nostro consenso, in una nuova temperie storico-ambientale che non saprà più considerarle intangibili? È la pandemia il male assoluto al quale tutto è sacrificabile, mentre il modello economico vigente continua a non essere in discussione? Quanta parte dell’opinione pubblica, così incline oggi a obbedire (l’obbedienza è deresponsabilizzante), non considera un gran sacrificio rinunciare a pezzi di libertà?

venerdì 27 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (5)


5. È estremamente impegnativo assumere, con Guy Debord, che lo spettacolo «è il momento storico che ci contiene» (La Société du Spettacle, 11) come «visione del mondo che si è oggettivata» (ibidem, 5), perché questo implica che l’evento non ci si offre, ma ci prende, e non in senso figurato, come quando diciamo che quel tal romanzo ci cattura, ci avvince, ma in senso letterale: l’evento ci fa suo, ci include, ci assorbe, come spaccato di un «rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini» (ibidem, 4).
Estremamente impegnativo, questo assunto, perché la sempre maggiore difficoltà che si ha nel distinguire una fiction da un reality, un catastrophic movie da un articolo de The Economist, non può lasciarci indifferenti, ma ci obbliga a una scelta analoga a quella che Morpheus offre a Neo (Matrix, 1999), e Marx al lettore de Die deutsche Ideologie (I, I, 1): mandar giù la pillola blu dello «jetzig Zustand» o quella rossa della «wirkliche Bewegung»? In altri termini: sentirci liberi e responsabili fruitori dello spettacolo che sembra scorrerci davanti o spalancare gli occhi sulla terribile realtà che ci rivela il farne parte (appartenergli)?
Tanto più terribile, questa realtà, se poi, con Richard Dawkins, assumiamo che il «meme» che ce la rappresenta (ce ne dà informazione), «proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite», è quello che ci ha «letteralmente parassitato», trasformandoci in «un veicolo per la [sua] propagazione» (The Selfish Gene, XI).
C’è chi ha descritto in modo assai brillante il modo in cui l’informazione prende forma di epidemia e, in un mondo globalizzato, di pandemia, coniando pure il termine che ne sottolinea la stretta analogia: «infodemia». Si tratta di David Rothkopf, che in un suo saggio breve (When the Buzz Bites Back The Washington Post, 11.5.2003) scrive: «A few facts, mixed with fear, speculation and rumor, amplified and relayed swiftly worldwide by modern information technologies, have affected national and international economies, politics and even security in ways that are utterly disproportionate with the root realities»Anche in quel caso l’«infodemia» aveva per oggetto unepidemia (Sars), anche in quel caso a sostenerla era un virus (Sars-coV), anche in quel caso l’«infodemia» correva il rischio di far danni «far greater than the disease itself».
«Over the past two years – scriveva David Rothkopf – information epidemics have left many airlines and the global tourism industry in intensive care. But their future effects may be greater still. Unchecked, they could usher in a period of profound new forms of economic inefficiency, opportunities for the irresponsible and for demagogues to practice new forms of social disruption or manipulation, and a set of serious new problems for policymakers dealing with challenges from public health to international affairs». Diciassette anni dopo, sembra una profezia o il plot di un fumetto distopico? 
Vediamo più in dettaglio: «These Internet- or media-borne viruses create global panics, trigger irrational behavior, blur our vision of important underlying problems, strain our infrastructure, buffet markets and undermine governments». Direi dia un quadro abbastanza fedele dello spettacolo che non ci è stato offerto ma ci ha preso (una «visione del mondo che si è oggettivata», come si è detto).
Ma in cosa consiste? «It is a complex phenomenon caused by the interaction of mainstream media, specialist media and internet sites; and “informal” media, which is to say wireless phones, text messaging, pagers, faxes and e-mail, all transmitting some combination of fact, rumor, interpretation and propaganda. It can be rendered more difficult to understand by multiple languages, cultures and attitudes toward the free and open flow of information. It involves consumers of information ranging from officials to private citizens who have varying abilities to see the whole information picture, varying degrees of sophistication about what to do with the information they have, little opportunity to authenticate data before acting on it, and little if any training in understanding or controlling the rapidly changing information picture».
Cosa ne consegue? «The result is distortion, confusion and a sometimes profound incongruity between the underlying facts and their implications. For example, without minimizing the potential danger posed by Sars, it is worth remembering that the number of deaths from the disease worldwide is still a tiny fraction of, say, the number of Americans who choke to death each year on small objects, which is estimated at 4,700. Yet, fear of the disease has devastated Asian economies».
Diciassette anni dopo, ci risiamo, ma stavolta la «devastation» si annuncia assai più ampia. E tuttavia farlo presente sembra voler «minimize the potential danger posed» dal Sars-coV-2: opporsi all«infodemia» sembra voler favorire la pandemia. In altri termini, chi contesta lo spettacolo corre il rischio di beccarsi una querela dal Patto trasversale per la scienza, una scienza che, dopo aver smarrito le virtù di umiltà e prudenza, esibisce i muscoli da bouncer sulla soglia della realtà-spettacolo, dove va in scena la stucchevole retorica che si compiace di mettere lAdagio di Samuel Barber come sottofondo al servizio che au ralenti mostra una colonna di camion carichi di bare, e sul quale poi Myrta Merlino spalmerà tutto il suo sentimentalismo.

mercoledì 25 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (intermezzo)


Avete letto sull’ultimo numero de The Economist l’articolo di Kim Sung-su (Covid-19 in Italy)? Dice che fin dall’inizio è stato chiaro che si avesse a che fare con una «unknown illness» causata da un «aggressive virus». Buio totale sul paziente 0, ma si era subito individuato il paziente 1: si sapeva che, appena s’era sentito male, era andato «to an emergency room, where he is isolated with an unknown flu», ed è qui, però, che «the contagion is passed on to others who spread it throughout the city», sicché in pochi giorni «many more people show pronounced symptoms», con quanto è ovvio ne seguisse, e cioè «rumours of the outbreak spread», «people begin to panic» e, in due o tre settimane, «hospitals become overwhelmed».
Assai benevolo col governo, Kim Sung-su, riconoscendogli che non era facile decidere il da fare: dice che, «while disparaging the need for a quarantine, administrators and politicians are confronted with a catastrophic situation», non c’è da biasimarli che siano stati costretti a ricredersi mettendo in atto misure assai severe. Di fatto – dice – ora che «the quarantine is initiated» e «those displaying symptoms are further isolated in an infected quarantine zone», i risultati si fanno attendere, il che fa temere che a breve, dopo tanto cantare dai balconi, agli «uninfected» possano girare i coglioni col rischio che scendano in strada e «riots break out».
Il pezzo chiude con una domanda inquietante: si avrà una «deadly gun battle between the mob and the soldiers», visto che per tenere la gente chiusa in casa si è pensato a impiegare l’Esercito? E qui onestamente mi pare che si esageri, no? Quasi quasi mi metto in posa da blogger militante e vi invito ad inondare di proteste la mail-box di letters@economist.com. Prego, fate copia-incolla e spedite: «Sir, ma quella merda di Kim con chi crede di avere a che fare? Noi siamo un popolo serio e responsabile, crediamo nelle istituzioni e sappiamo fare sacrifici, potremmo resistere anche due anni chiusi in casa...».

Fermi, non lo fate, scherzavo: i virgolettati li ho presi dalla scheda che en.wikipedia.org dedica a The Flu (South Korea, 2013), di cui Kim Sung-su, quello che vi ho spacciato come firma dellautorevole settimanale britannico, è stato il regista: un catastrophic movie daltissimo livello, che già dal decimo minuto ti pare di esserci dentro e, sarà che tosse e starnuti sono in stereofonia, ti senti immerso in una nuvola di goccioline assassine, e poi posti di blocco ovunque, elicotteri, droni, cadaveri a pacchetti e sfusi, e poi il buono che si immola, il cattivo che approfitta della situazione... E ti prende, cazzo se ti prende. Ti prende al punto che dimentichi che è un film e ti viene da pensare: «Nulla sarà più come prima»Insomma, uno spettacolo. Quando potete uscire, procuratevelo, non ve ne pentirete. Ovviamente se amate il cinema di evasione.

domenica 22 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (4)


4. Poco meno di 5.000 morti, al momento. Poco più della metà di quanti lanno scorso morirono dinfluenza. In cosa è lecito, e in cosa no, comparare, di là dai numeri, i morti dellanno scorso a quelli di questanno, data levidente differenza del modo in cui ce ne fu data notizia allora e ce nè data oggi?
In entrambi i casi, cè di mezzo un virus. In entrambi i casi, è controverso in che misura il virus sia assassino di suo e in che misura sia favorito da vecchiaia e altre malattie, sta di fatto che in entrambi i casi la percentuale di morti giovani e senza altre malattie è estremamente basso (sui poco meno di 5.000 di questanno il report dellIss del 20 marzo ne dà solo 6: almeno in questo – solo in questo, se si vuole – l’influenza dello scorso anno ha fatto molto peggio). Questione estremamente interessante, dunque, questa del «per» e del «con», ma i morti sono morti, sia che per il 2019 si debba andare a cercarne il numero sul sito dellIss, sia che per il 2020 ci venga risparmiata la fatica con un martellante aggiornamento minuto per minuto, agonia e cremazione in diretta. Di sicuro cè che, a voler morire col conforto della generale partecipazione emotiva, non conveniva farlo lanno scorso: rimandare duna dozzina di mesi avrebbe assicurato cordoglio istituzionale, milioni e milioni di prefiche a gratis, funerali in diretta e, soprattutto, il palpito di Lili Gruber.
Ma oltre a questa differenza, che tuttavia non è da poco, ce ne sono altre, e sono tante. Del virus influenzale – lanno scorso erano due, lA(H1N1)pdm09 e lA(H3N2) – sappiamo un sacco di cose, mentre del Sars-coV-2 (Covid-19 è l’affezione che induce) sappiamo com’è fatto (struttura, componenti, sequenza genomica), ma troppo poco ancora relativamente a ciò che, cedendo all’antico e irrinunciabile vizio di antropomorfizzare tutto, troviamo giusto chiamare carattere, comportamento, tattica, ecc.
Unaltra differenza, e bella grossa, è che per il virus influenzale abbiamo un vaccino, mentre per questo coronavirus no. A tal riguardo, chi storce il muso a sentire la Capua o la Gismondo correlare il Covid-19 allinfluenza dovrebbe chiedersi quanti morti farebbe ogni anno il virus influenzale, se con una copertura vaccinale del 57% ne fa 8.000. Niente, è domanda che pare non abbia alcuna ragion dessere. Limpressione è che avere a disposizione un vaccino anti-influenzale, che peraltro pochi sanno non rende immuni al 100%, autorizzi a considerare gli 8.000 morti come problema senza soluzione, la cui causa del decesso, dunque, sarebbe da accettare come «normale» causa di morte, routine del morire che non ha niente di particolare per meritarsi un riflettore. In fondo accade pure per i morti sul lavoro, che nel 2018 sono stati 1.218 (limitandoci ai casi ufficialmente dichiarati tali), ma di certo non hanno avuto il quarto dattenzione che i media hanno finora dedicato ai morti «per» e/o «con» Covid-19: morti che diremmo «strutturali», data lalmeno apparente intangibilità della «struttura», e che in fondo hanno avuto buon gusto e discrezione di non affollare un mese solo e una sola regione, morivano con la «normalità» con cui si muore in una guerra a bassa intensità.
Basterebbero questi elementi a motivare (e diciamo pure giustificare) la spettacolarizzazione dellepidemia in corso, ma, senza comprendere quale funzione abbia – in generale e nello specifico – lo spettacolo che ce la rappresenta, siamo ancora lontani dal capire perché, e come, il sasso, rotolando, possa diventare valanga, travolgendo tutto e tutti, al punto dal non poter neppure immaginare che dietro la tragedia ci sia un ordito. Sarebbe stato necessario un piano sofisticatissimo, bastava una comparsa fuori posto e addio valanga. Perché è chiaro – e nessuno può negarlo – che da una valanga siamo travolti. Resta solo da capire se si sia lasciato rotolare il sasso nel modo in cui è rotolato per ignavia o in obbedienza alla logica che mette lemergenza al servizio dello spettacolo, che – è il caso di precisarlo subito, e dando la parola a Guy Debord, la guida che ci accompagnerà in questo paragrafo – «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini», e che «non può essere compreso come labuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini [ma] piuttosto [come] una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta [e insomma] di una visione del mondo che si è oggettivata»In tal senso, è del tutto secondario cosa lo spettacolo metta in scena, perché linteresse che lo sostiene risponde ad uneconomia (in senso lato) che ha immutabile ratio intrinseca, in guerra e in pace, quando il re della finanza è lorso e quando è il toro, quando torna conveniente laccumulo e quando la redistribuzione.
Se il lettore è disposto a rinunciare al pregiudizio che nello spettacolo vede solo intrattenimento ricreativo, per coglierlo come ri-creazione della realtà, vedrà che siamo nello stesso girone in cui tempo fa, su queste pagine, abbiamo trovato il terrorismo. Lì la guida era Brian Jenkins, unanimamente considerato massimo esperto del problema, e anche lui, come farà Guy Debord, ci chiedeva lenorme sforzo di mettere da parte le passioni, dicendoci che «terrorism is theater» e che «terrorists want a lot of people watching, not a lot of people dead», sicché le passioni finiscono non solo per celare la natura del problema, ma per esserne parte, e decisiva, se non determinante: qui, nel caso del sasso, con quel che sta tra abbrivio e valanga.
Ci chiede troppo, Guy Debord, quando ci invita a considerare che, «nellinsieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante» e che «non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo» al punto da poterlo definire come «il momento storico che ci contiene»?
Suona un po apodittico, è vero, sarà il caso di chiarire. Lo faccio fare a Mario Perniola, che in due testi (Contro la comunicazione, Einaudi 2004; Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009) ha descritto in modo magistrale le ragioni che fanno dello spettacolo, e della comunicazione massmediatica che ne è il «theater», realtà tanto pervasive da riuscire a sostituirsi, dopo averla distorta e annullata, a quella dei fatti che si è presa cura di rappresentarci. Citare i passaggi salienti dei due testi imporrebbe un larghissimo uso del virgolettato, mi limiterò a una sintesi.
Mario Perniola dice che solo in tempi assai recenti lumanità s’è posta la domanda sul senso di ciò che viveva individualmente e collettivamente: la risposta era data in partenza dalla condizione sociale, dal sapere tramandato e dai rituali. Il relativo benessere che ha segnato gli ultimi due secoli e lo sviluppo delle scienze sociali hanno consentito, per certi versi imposto, che la domanda fosse formulata e che la risposta, esatta o no, fosse il progresso: si era al mondo per progredire, il motore della storia era razionale e progressivo, ogni regressione era solo episodica, se non apparente.
Via via che ci si allontanava dalla seconda guerra mondiale, che col suo esito ha segnato il trionfo di questa concezione, essa ha cominciato ad andare in crisi: «traumi» e «miracoli» hanno messo in discussione la linearità del processo storico con la loro inspiegabilità e la loro imprevedibilità (il maggio francese del 1968, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino del 1989, l’attentato alle Twin Towers del 2001). Stupore, eccitazione, sconcerto: stati d’animo che hanno cercato, e trovato nei media, la soluzione formale della risposta nella postura dello spettatore che si misura con la suspense e il colpo di scena, il deus ex machina e l’happy end, il flash back e il déjà vu. In altri termini, la comunicazione ha dato vita a un simulacro di partecipazione all’evento che, da un lato, consente di sentirsi immersi in esso solo a patto di restarne fuori e, dall’altro, impone che esso si esaurisca nella sua rappresentazione: siamo l’evento in quanto platea rappresentata in scena. Perciò non ha nulla di contraddittorio o di paradossale affermare, come fa Mario Perniola, che «la comunicazione aspira ad essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende anche e soprattutto l’antitotalitarismo. È globale nel senso che include anche ciò che nega la globalità».
Nel passare a Guy Debord, comunque, è importante chiarire che «comunicazione» e «spettacolo» non sono coincidenti, perché l’una è forma e l’altro è contenuto, come ci illustra il § 24 de La Société du Spectacle: «Se lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata».
Altrettanto importante è aver chiara la sostanziale univocità degli elementi che in tale contesto sembrano diversificarsi e perfino contrapporsi nell’offrirsi come ventaglio di opzioni: «La falsa scelta nel campo dell’abbondanza spettacolare, scelta che risiede nella giustapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli (principalmente significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente esclusivi e ramificati, si sviluppa in lotte di qualità fantomatiche, destinate ad appassionare l’adesione alla trivialità quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei regionalismi o dei razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità delle posizioni gerarchiche nel consumo. Così si ricompone l’interminabile serie dei contrasti derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle elezioni. Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le cose che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse» (§ 62).
Ancor meglio nei Commentaires sur la Société di Spectacle: «Il potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario, centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno una politica-spettacolo, una giustizia-spettacolo, una medicina-spettacolo o tanti altri “eccessi mediali” così sorprendenti. […] Con una certa frequenza, i padroni della società affermano di essere serviti male dai loro dipendenti mediali; più spesso rimproverano alla plebe degli spettatori la tendenza ad abbandonarsi senza ritegno, in modo quasi bestiale, ai piaceri dei mass media. In questo modo si nasconderà, dietro una moltitudine virtualmente infinita di presunte divergenze mediali, quello che è al contrario il risultato di una convergenza spettacolare voluta con notevole tenacia» (III).
Ma per il prossimo paragrafo, dove vedremo come tutto questo si fa esemplare nella gestione mediatica dell’epidemia di Covid-19, torna utile anche un altro punto: «Si sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che l’economia ha cominciato a fare apertamente guerra agli umani. […] Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo, ha soppresso le ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche dell’attività dei “ricercatori”. Non si chiede più alla scienza di capire il mondo o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa» (XIV). In questo frangente, come la monaca di Monza, «la sventurata rispose»

venerdì 20 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (3)


3. Chi definisce «virale» la diffusione di qualcosa che non è un virus, come oggi sempre più spesso accade per tutto ciò che riesce ad ottenere una rapida ed ampia diffusione negli spazi designati alla comunicazione pubblica, mostra di aver fatto propria la «teoria del meme» esposta da Richard Dawkins in The Selfish Gene (1976) e, se lo fa senza mai averne sentito parlare, allo stesso tempo se ne offre a comprova. In questo libro più citato che letto, infatti, viene avanzata l’ipotesi che la tendenza a replicarsi non sia un’esclusiva di quell’unità funzionale del genoma che chiamiamo gene, ma anche di quell’«unità di trasmissione culturale» (o «unità di imitazione») che qui è battezzata «meme», abbreviazione di «mimeme», con rimando al greco μίμημα (imitazione, e dunque anche copia, duplicato, ecc.), ma anche al francese «même» (stesso, medesimo, ecc.): «Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo – scrive Richard Dawkins – così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione»; e tuttavia l’analogia con la trasmissione del materiale genetico dai genitori ai figli che si ha con la fusione dei gameti non pare soddisfarlo appieno nell’illustrare al lettore come esattamente agisca un «meme», e allora eccolo, e nello stesso capoverso, a proporne un’altra: «Quando si pianta un meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente parassitato e si trasforma in un veicolo per la propagazione del meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite», chiarendo che «esempi di meme sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi» e che «la selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio lambiente culturale».
Credo ce ne sia abbastanza per poter dire che anche la stessa «teoria del meme» sia un «meme» e che il largo impiego del termine «virale» dimostri che ha attecchito mica male. Il fatto, poi, che abbia attecchito anche in chi non ha mai letto The Selfish Gene mi pare che evidenzi anche un’altra caratteristica della «viralità» del «meme»: come non c’è bisogno di sapere cosa sia un virus, né come sia fatto, né donde venga, né come agisca, perché, senza volerlo, si sia costretti ad ospitarlo, offrendogli strumenti per replicarsi e contagiare chi ci è prossimo, così possiamo essere vettori e diffusori di un’idea che può arrivare ad assumere la dimensione epidemica del senso comune, anche senza sapere come sia nata, chi l’abbia messa in giro, cosa le dia modo di eludere o addirittura affrontare e abbattere le difese immunitarie del nostro senso critico. In fondo non accade pure col motivetto scemo che ci troviamo a canticchiare senza sapere chi l’abbia scritto, né dove l’abbiamo sentito la prima volta?
Ma c’è altro ancora a dirci della «viralità» del «meme»: come alcuni virus sembrano scomparire dopo essere stati gloriosi protagonisti di una travolgente epidemia, per tornare a farsi vivi solo dopo un certo lasso di tempo, e semmai più aggressivi di prima, in virtù di una mutazione del loro materiale genetico che rende inutile la cosiddetta «immunità di gregge» raggiunta in seguito alla loro prima comparsa, così certe idee trovano modo di avere diffusione molto rapida e molto estesa, per poi trovarsi ad essere messe pesantemente in discussione dal senso critico che nei loro confronti viene acquisito dalla popolazione che hanno «contagiato», e così dar l’impressione che non possano più riattecchire in essa, per poi riuscirci, invece, dopo aver subìto qualche anche minima mutazione che consente loro di ingannare le difese immunitarie che fin lì sono riuscite a tenerle lontane; talvolta, tuttavia, il ritorno dell’epidemia o il revival dell’idea non hanno neppure bisogno di questo riaggiustamento, perché può bastare che l’organismo ospite, individuo o collettività, sia debole, vecchio, affetto da altre patologie, perché il sistema immunitario perda memoria. Se però, come s’è detto, «la selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio lambiente culturale», è a questo che va posta attenzione per dar conto degli immensi danni che può causare un «meme» nei confronti del quale in passato si era riusciti a produrre anticorpi efficaci: è in un ambiente culturale debole, vecchio, malato, che un «meme»già debellato dal senso critico, trova occasione per riattecchire, e questo capita tanto più spesso quanto più a lungo e per più volte ha avuto modo di causare danni in passato.
Un esempio ci è dato dal «meme» della catastrofe naturale (terremoto, peste, carestia, ecc.) come punizione divina, che, da un lato, è altamente contagioso e, dall’altro, causa danni anche più seri dell’evento di cui si serve. Perché le catastrofi naturali sono un dato di fatto, ma il «meme» che ce le presenta come pene per colpe che devono essere espiate, lungi dal farcele affrontare per quel che sono, dando così congrua soluzione al problema che pongono, ci induce a credere che se ne possano neutralizzare gli effetti solo pagando un prezzo altissimo, in grado di placare l’ira della divinità che, anche involontariamente, si è offesa.
Ovviamente non è detto che questo «meme» debba presentarsi proprio nella forma qui descritta, che è quella ancestrale: la catastrofe può essere dovuta anche all’offesa che si è arrecata a un ordine di cose o di valori che, deliberatamente o meno, si è stravolto, e che l’espiazione mira a reintegrare almeno in modo simbolico. Nel caso della peste (e dei suoi surrogati o succedanei), per esempio, la colpa che ha inflitto il castigo è, di caso in caso, la peccaminosa promiscuità di cui il morbo si serve per passare da corpo a corpo, la cancellazione dei confini tra le genti che ne facilita la diffusione, la perdita di un’identità che era fedeltà a una tradizione e al cui posto ora troviamo un volto sfigurato dai bubboni: non si ha piena riparazione, non si ha adeguata espiazione, senza il ripristino, ancorché formale (il sacrificio è innanzitutto simbolo), dell’ordine di cose e di valori che si è infranto. E il sacrificio deve essere, insieme, espiatorio e propiziatorio, non può esaurirsi in misure sanitarie proporzionate al problema, ma deve avere in sé i tratti della compunzione che apre la via alla catarsi morale: non può e non deve bastare che gli appestati stiano nel lazzaretto e gli altri si limitino ad evitare il contagio con la profilassi; la dimensione epidemica del morbo impone che contagiati e no si sentano popolo sotto la stessa guida; che lo «stato di eccezione» le conferisca una legittimità oltre ogni legalità; che sull’altare su cui si consuma il sacrificio brucino garanzie e diritti; che il rito sia emotivamente partecipato, e anzi sia banco di prova per saggiare il tenore emotivo dell’obbedienza; ma soprattutto è necessario che all’esterno ci sia un nemico (senza nemico non si dà «stato di eccezione»), e qualcuno che all’interno si presti all’accusa di favorirlo (poco importa se fondata o no, perché si dà imputazione di intelligenza col nemico con la sola intelligenza che mette in discussione il «meme»); più di tutto, però, è necessaria un’autorità che sia allo stesso tempo sacerdote, medico e soldato, perché sia assicurato un ordinato svolgersi del rituale sacrificale, che insieme deve essere alienazione e spettacolo.
Qui possiamo congedarci da Richard Dawkins e affidarci a un’altra guida, Guy Debord.



domenica 15 marzo 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (2)


2. Incrociando le affermazioni fatte laltrieri da Massimo Galli (MG), primario del reparto di Infettivologia dell’Ospedale Sacco di Milano (Circo Massimo, Radio Capital) e da Maria Rita Gismondo (MRG), che presso lo stesso presidio ospedaliero è direttrice del dipartimento di Microbiologia Clinica (Laria che tira, La7), trovo conferma di quanto scrivevo la scorsa settimana sulla base dei dati noti al momento. Meglio farlo dire a loro, oggi, piuttosto che ripetermi: «il numero reale dei contagiati dal coronavirus è più alto di quello ufficiale» (MG); «almeno il 60% della popolazione ha avuto o avrà contatto con il coronavirus» (MRG); «non scambiamo il numero dei positivi col numero dei malati: il 90% dei positivi non ha sintomi o ha sintomi molto lievi» (MRG); «la percentuale di letalità [fin qui attribuita al virus] è più alta di quella reale, perché stiamo facendo i calcoli solo sui casi sintomatici e non sulla stima globale» (MG) (probabilmente – aggiungeva – anche inferiore allo 0,88% riscontrato nella Corea del Sud, dove i test sono stati effettuati a tappeto e comunque non sullintera popolazione); «più che la gente, questo virus uccide la sanità» (MRG).
Direi si possa trarne qualche conclusione. Poca roba, sia chiaro, perché del Covid-19, allo stato, «sappiamo ancora troppo poco» (MG, sempre ieri, ma a Ottoemezzo, La7). Proviamo.
Si tratta di un virus aggressivo e con un alto coefficiente di riproduzione (un R0 valutato tra 2,1 e 2,6). Letà media dei soggetti deceduti dopo esserne stati contagiati è di 80,3 anni, diceva, sempre laltrieri (agenzianova.com), Silvio Brusaferro (SB), presidente dellIstituto Superiore della Sanità (ISS). Perché non dico «uccisi dal Covid-19», ma uso la perifrasi «deceduti dopo esserne stati contagiati»? Perché proprio SB rivelava che «soltanto due persone non sono risultate al momento portatrici di patologie». Su questo punto, tuttavia, non è il caso di essere precipitosi, perché quelle «due persone» fanno parte di una quota assai ristretta dei 1.266 decessi al 13 marzo («poco più di cento», le cui cartelle cliniche sono arrivate alla sua attenzione «dagli ospedali di tutta Italia»): se il dato fosse significativo, potremmo al più inferire che più del 98% dei decessi non si ha senza presenza di altre patologie, quasi sempre molto serie, spesso associate (dal report dellISS del 5 marzo: «Il numero medio di patologie osservate [nei soggetti deceduti] è di 3,4»).
Come è evidente, è qui che nasce la questione che oppone chi sostiene che i decessi siano dovuti al Covid-19 e chi invece ritiene che da solo il virus ammazzi poco o niente. Si tratta della questione che la semplicistica sintesi giornalistica ha reso con le locuzioni «morti da» e «morti con», ma che in realtà esprime due diversi modi di approcciare lo stesso fenomeno: quello microbiologico e quello clinico. Il contenzioso che ne nasce è evidente al grande pubblico solo adesso, perché lemergenza lo porta in proscenio, ma, dietro le quinte, microbiologi e clinici si sono sempre presi a pugni.
Si prenda il caso dellinfluenza stagionale che, come illustravo nel precedente paragrafo di questo «nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima», ogni anno fa qualche centinaio di morti, per i microbiologi, ma diverse migliaia, per gli epidemiologi, che sono i clinici dei grandi numeri. È del tutto comprensibile, infatti, che il microbiologo tenda a concentrare tutta la sua attenzione sullagente patogeno, sulla sua morfologia, sulle sue caratteristiche chimico-fisiche, sulle sue modalità dazione, ecc. Del tutto comprensibile, altresì, che questo lo porti alla costruzione di un modello della sequenza degli eventi che dal contagio porta alla malattia, conferendole una linearità che tende a trascurare tutto ciò che può accelerarla, fino a farla precipitare, o frenarla, fino a interromperla. Non così il clinico, e ancor meno lepidemiologo, che fanno i conti con le diverse coniugazioni del paradigma: sul campo – nel singolo paziente, in una data popolazione – virus e batteri trovano fattori che esaltano o deprimono la loro azione. Per certi versi, siamo dinanzi alla stessa discrepanza che normalmente, quandanche trascurabile, si ha tra risultati «in vitro» e «in vivo» nella sperimentazione di un farmaco.
Ecco, dunque, perché oggi i millequattrocentoedispari morti fatti dal Covid-19 fanno molto più rumore degli oltreottomila fatti lanno scorso dallA(H1N1)pdm09 e dallA(H3N2), i virus che sostennero la solita influenza stagionale: stavolta i virologi hanno preso la scena, e il vocione del più borioso, del più arrogante, del più vanesio della categoria – il famigerato Roberto Burioni (RB) – è diventato assordante. È accaduto che la notorietà acquisita grazie alla polemica coi no-vax gli ha causato la tristemente nota sindrome da sovraesposizione mediatica, che ineluttabilmente porta a straparlare, quasi sempre con effetti tragicomici, come in questo caso è avvenuto col dar per certo che «in Italia il virus non cè», «cè più pericolo in un meteorite» e neanche dieci giorni dopo uscirsene con un instant book che nel sottotitolo associava il Covid-19 alla «peste».
Le leggi dello spettacolo sono categoriche: perché lintrattenimento abbia la massima copertura, ogni Burioni devessere bilanciato da un Vittorio Sgarbi (VS), e le posizioni in campo, per meglio far presa, devono essere esasperate. È un po come col porno, dove si impone che il pene sia lungo almeno quanto un avambraccio e leiaculato sia nellordine dei litri. E così in campo abbiamo visto le ragioni della microbiologia e quelle dellepidemiologia, ma mostruosamente distorte nei loro precipitati: lallarmismo e il negazionismo. Nel caso di Sgarbi, per esempio, affermazioni che nella loro sostanza erano in tutto coincidenti con quelle di MG ed MRG riportate nel primo capoverso di questo post hanno subìto una torsione nello sproposito.
Veniamo al dettaglio. VS afferma che, «sulla base di un unico dato vero, [e cioè] il numero limitato di posti negli ospedali per la terapia intensiva […], si vuole convincere gli italiani che cè un pericolo che non cè»: fa eco al «più che la gente, questo virus uccide la sanità» di MG, ma per dargli un di più di forza, di cui francamente non ha bisogno, deve arrivare alliperbole che un pericolo «non cè». Si compari questo atteggiamento a quello di Ilaria Capua (IC), che, rimproverata da un burioniano di aver paragonato il Covid-19 al virus influenzale, ha risposto: «Io non minimizzo affatto. [...] Ho lavorato decenni con linfluenza e trovo che ad oggi paragonare [il] Covid-19 [a una] “sindrome simil-influenzale” sia corretto ed esplicativo. Io sinceramente linfluenza lho sempre presa sul serio». Come non farlo, con una media di 8.000 morti ogni anno? Morti – sia chiaro – perché il virus influenzale ha trovato condizioni favorevoli soprattutto in pazienti anziani e affetti da altre patologie.
Questo significa che il Covid-19 non può uccidere anche un 39enne? Ovviamente no, ma può ucciderlo anche il virus influenzale e al momento non ci sono evidenze statistiche che segnalino un maggior rischio da Covid-19, perché tra gli 8.000 morti per influenza non mancano i 39enni e soprattutto, molto ma molto più rispetto ai morti da Covid-19, i bambini, e i neonati.
Anche qui, però, cè da segnalare un paradosso nelle argomentazioni di quanti storcono il muso a sentirsi dire che il Covid-19 impone misure di contenimento, sì, ma non autorizza allisteria, né a provvedimenti che, per evitare 100.000 contagi, 15.000 ricoveri in terapia intensiva e 6.000 decessi, possono far morire di fame mezza Italia. Da un lato, infatti, pare che essi tengano molto a sottolineare che il virus non ammazza solo anziani carichi di acciacchi (cè addirittura chi ha proposto di dare enfasi al dato, diffondendo immagini di qualche giovanotto in terapia intensiva, così, tanto per sensibilizzare i meno sensibili), con ciò rivelando, tuttavia, di attribuire un diverso valore alla morte in relazione a che età si muoia. Su ciò potremmo pure chiudere un occhio, solo però facendo nostro il parametro della vita media attesa, sul quale evidentemente essi contano di poter rappresentare agli insensibili più tragica la morte di un giovane che quella di un vecchio. Costoro, però, sono gli stessi che inorridiscono alla sola idea che, con un solo posto in terapia intensiva, si favorisca il giovane, penalizzando il vecchio.
Ma siamo prossimi a questo orrore? Impossibile prevederlo, di fatto i posti in terapia intensiva sono solo 5.300 in tutta Italia, e al momento 1.300 sono occupati da soggetti affetti da Covid-19. Per meglio dire: in gran parte si tratta di soggetti affetti da patologie che hanno favorito la vulnerabilità al Covid-19, rendendo così drammatica la polmonite che esso causa.
E così torniamo al punto di partenza: «più che la gente, questo virus uccide la sanità» (MRG). Con ciò che la sanità rappresenta in termini di protezione che uno stato assicura all’individuo e alla collettività. Ma di questo – e di quanto questo implichi in un momento in cui tanti mettono in discussione la democrazia – al prossimo post.