lunedì 31 gennaio 2011
Ma chi è tanto idiota da poter credere al rilancio?
Concordo con chi sostiene che la lettera di Silvio Berlusconi al Corriere della Sera sia stata scritta da un ghostwriter (phastidio.net) e con chi si spinge ad attribuirla a Giuliano Ferrara (gadlerner.it), ma in entrambi casi non sono portati argomenti, e allora ci provo io. “Vorrei brevemente spiegare – si legge – perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale [l’imposta patrimoniale], in senso tecnico-finanziario e in senso politico”. Quel «preferirei di no» dovrebbe farci credere che Silvio Berlusconi abbia letto Bartleby the Scrivener di Hermann Melville, e questo è poco credibile: è più probabile che la lettera gli si sia stata scritta da un ghostwriter, dunque, ma perché proprio Ferrara? Perché più avanti si legge: “Gli atteggiamenti faziosi, ma anche quelli soltanto malmostosi e scettici, possono essere sconfitti”, e «malmostoso» è praticamente una firma. Dovrebbe significare pure che Ferrara ha letto Melville, ma questo non è strettamente necessario, perché Ferrara è di quelli che citano anche il sentito dire.
Risolta la questione filologica, si pone una domanda assai più seria: ma davvero Berlusconi è tanto disperato da pensare che il rilancio consigliatogli da Ferrara possa trovare sponde fuori dal centrodestra? C’è un solo serio liberista, un solo serio riformista, che può investire due soldi di fiducia in un vecchio puttaniere braccato nel suo bunker, che di liberalizzazioni e di riformismo si è sempre solo sciacquato la bocca, e sempre solo alle viste di una campagna elettorale? Davvero Berlusconi è così disperato? O davvero il paese è così idiota come gli suggerisce Ferrara?
Scimmiottature
¶ La lotta tra modernità e tradizione è trasversale in ogni società, e in ciascuna si assiste a un prevalere dell’una sull’altra, ma in nessuna si ha tale schiacciante predominanza della modernità sulla tradizione, o viceversa, per potere immaginare società moderne in lotta con società tradizionali, e viceversa. Le cose si complicano per la peculiarità che la tradizione assume in questa o in quella società, ma anche per una diversa idea della modernità in quella società e in questa. E tuttavia, in generale, possiamo dire che non c’è modernità senza secolarizzazione e non c’è tradizione senza richiamo al trascendente, sicché in ogni società assistiamo – in diversa forma e misura, e con diverso esito parziale della contesa – a una lotta tra dissacrazione e recupero del sacro, tra tendenza a trarre autorità dalla ragione o dalla fede, a fondare il potere sull’utile (come massima felicità per il maggior numero di individui) o sul bene (come sola verità e giustizia valide per tutti), tra tendenza al consenso o all’assenso.
domenica 30 gennaio 2011
L’umidiccio, per esempio
Il prolisso stanca, sì, ma vogliamo essere onesti? Anche il laconico può scassare considerevolmente la uàllera. L’umidiccio, per esempio. L’umidiccio mi fa un post che somiglia a una installazione al neon, di quelle molto concept e tutt’ammicco, che più di una citazione merita una fedele riproduzione: la sottostante.
Poi non dite che eccetera
30 gennaio 2011 Blog
Il 19 aprile 2010 e il 7 giugno 2009
Le due date fanno link a due post dell’umidiccio, laconicissimi pure quelli: niente più che una strizzatina d’occhio nel titolo e, oplà, Obama cuts funds to promote democracy in Egypt by 50% (Haaretz, 18.4.2010) e Obama and Democracy (The Wall Street Journal, 6.6.2009). Solit’ammicco, quasi un tic: Obama è peggio di Bush (così mi consolo che Bush ha perso, così non vi godete la vittoria di Obama).
Può starci? Può starci, in fondo scrivere può servire pure a scaricare tossine. Ma il taglio dei fondi per la promozione della democrazia in Egitto ha qualche relazione con la montante richiesta di democrazia che sale per le vie de Il Cairo? Se sì, è perché ti sei sintonizzato al mio tic.
Dite quello che volete, ma a questi sommi sacerdoti della brevitas preferisco gli indefessi chierici dai mille incisi.
E io perciò li schifo
Sono passati ormai tre giorni da quando la Süddeutsche Zeitung ha dato notizia del ritrovamento di un appello che Joseph Ratzinger firmò nel 1970, insieme ad altri otto teologi, per sollecitare la Conferenza episcopale tedesca a farsi promotrice di una revisione dell’obbligo del celibato sacerdotale, e i nostri vaticanisti sembrano trascurare la faccenda, sarà che a suo tempo il documento fu classificato come riservato (diskret). Fatta eccezione per due smilzi articoletti di Tarquini per la Repubblica e di Galeazzi per La Stampa, tutti tacciono: Magister, Zizola, Tosatti, Accattoli, Tornielli e Rodari, che su un qualsiasi inedito del futuro Benedetto XVI avrebbero altrimenti sparso inchiostro come incenso, struggendosi in mille smorfiette di estasi, non riescono a trovare due minuti per due righe.
Eppure il documento non è affatto privo di interesse. Accanto alla firma di Ratzinger si leggono quelle di Rahner, di Lehmen, di Semmelroth e i toni dell’appello sono alti, persino – se vogliamo – drammatici: al riguardo si parla della necessità (Notwendigkeit) di un provvedimento urgente (eindringlichen) ed esteso (für Deutschland und die Weltkirche im Ganzen). Se a questo si aggiunge che Ratzinger si è sempre pubblicamente espresso in favore dell’obbligo del celibato, mai contro, come interpretare il silenzio dei nostri vaticanisti? Direi che siamo dinanzi all’ennesima prova della loro disonestà intellettuale: riprendere la notizia della Süddeutsche Zeitung potrebbe causare qualche imbarazzo, meglio far finta che sia sfuggita. E io perciò li schifo, poi ditemi se senza buoni motivi.
Per l'eutanasia
Prodotto in Australia da Exit International e portato in Italia dall’Associazione «Luca Coscioni», lo spot che apre questo post, e che quasi certamente già conoscete, si pone il fine di aprire un dibattito pubblico su quel diritto di “scelta finale” che il 67,4% degli italiani riconosce al malato terminale, contro il 21,7% che lo nega e il 10,9% di astenuti [1]. Rifiutato dalle emittenti televisive a diffusione nazionale, lo spot circola da qualche giorno su due o tre tv locali, ma questo indigna lo stesso i vescovi italiani, che hanno dato incarico al professor Francesco D’Agostino di lagnarsene, ieri, sulla prima pagina di Avvenire.
Parole di fuoco. Si tratterebbe di “uno spot che offende la dignità dell’uomo e che quindi non può essere che definito indegno”, tanto più indegno perché “l’offesa che lo spot arreca alla dignità umana è particolarmente subdola. La dignità umana, infatti, è offesa non solo quando viene sadicamente umiliata, ma anche paradossalmente, quando viene ideologicamente esaltata”.
Non varrebbe la pena di riaprire la discussione sul diritto di assistenza spettante a un individuo che in piena libertà e piena responsabilità abbia deciso di mettere fine ai propri giorni quando li ritenga fisicamente e/o psicologicamente intollerabili perché allo stadio terminale di una malattia ad esito letale: per D’Agostino e i suoi mandanti la questione non è negoziabile, il diritto non è ammissibile, e dunque sarebbe una perdita di tempo inutile. Per costoro – è arcinoto – la vita non sarebbe nella disponibilità di chi la vive, perché dono che Dio ha fatto all’uomo, ma del quale Dio può chiedergli conto in ogni momento, senza che l’uomo abbia neppure il diritto di chiedersi che cazzo di dono sia [2]. Per costoro – anche questo è arcinoto – non riveste alcuna importanza il fatto che un tale diritto non costituisca un obbligo per alcuno, ma un’opportunità per chiunque possa ritenerla indispensabile a se stesso: lo Stato sarebbe tenuto a recepire la norma dettata al riguardo dal magistero morale della Chiesa, e a imporla a tutti, credenti o meno, cattolici o no. Norma indiscutibile, sulla quale non sarebbe lecito neanche aprire una discussione, qualunque sia il parere della maggioranza – anche stragrande – dei cittadini: per la Chiesa – è arcinoto anche questo – la maggioranza (e la sua rappresentanza) è sacra solo quando sottoscrive il Catechismo [3].
Stando le cose a questo modo – dicevo – non varrebbe la pena di riaprire la discussione sul diritto di autodeterminazione dell’individuo, tanto meno con chi la pensa come D’Agostino, il quale è mandato a indignarsi proprio del fatto che qualcuno intenda discuterne, al punto da richiamare le autorità istituzionali – “e ce ne sono diverse che possiedono e dovrebbero riconoscersi e onorare una competenza in questo campo” – a prendere “posizione in merito”, cioè a vietare la messa in onda dello spot anche da emittenti private [4]. In pratica, di eutanasia non si potrebbe e non si dovrebbe discutere, né sulle reti nazionali, né su quelle private, perché deve essere scontato che sia “sempre da condannare e da escludere” (Catechismo, 2277). Eventualmente, si può discuterne solo per ribadire che non se ne può discutere. E tuttavia qualcosa da discutere c’è.
“Nello spot i fautori dell’eutanasia volontaria costruiscono un’immagine irreale e quindi ideologica dell’uomo, un’immagine nella quale il malato che «sceglie» la morte e chiede di essere ascoltato dal «governo» appare sereno, lucido, consapevole, coraggioso e quindi esemplarmente ammirevole: ma in tal modo [è sottratta] dignità, umiliandoli, a tutti i malati terminali che vivono la loro esperienza nella debolezza, nella solitudine, nella paura, nella fragilità e spesso nella disperazione, meritando paradossalmente il biasimo che va riservato ai pavidi, a chi non avendo il coraggio di chiedere l’eutanasia”.
È la condanna di un modello alternativo a quello proposto dalla Chiesa e pare che D’Agostino ne tema la concorrenza: pare evidente che il modello proposto dalla Chiesa possa avere successo solo in assenza di modelli alternativi. Non è prestato un gran servizio alla Chiesa: vince solo se corre da sola.
Non è chiaro, poi, perché debba definirsi “ideologico” il modello eutanasico e non quello che impone al malato terminale di tener duro sperando in un miracolo o per offrire le proprie sofferenze a Gesù: in entrambi i casi si tratta di una rappresentazione informata da valori assunti come irrinunciabili, ma perché i cattolici potrebbero rivendicarli tali per tutti, mentre ai non cattolici non sarebbe consentito di rivendicarli tali nemmeno per se stessi?
Ancora: le indicazioni statistiche in coda allo spot “sono inattendibili fino a che il termine [eutanasia] non sia rigorosamente precisato nel suo significato”. Come si dovrebbe precisarlo meglio? Eutanasia è eutanasia, e il 67,4% non ha esitato a esprimersi a favore, peraltro accanto a un 81,4% degli intervistati che si è dichiarato in favore del testamento biologico, che pure non sarebbe questione negoziabile per la Chiesa. E dunque che va cercando, D’Agostino? Gli brucia il culo che lo spot sia chiaro ed efficace, niente di più.
[1] In dettaglio, “ad essere favorevoli alla pratica dell’eutanasia sono soprattutto coloro che si identificano negli schieramenti di sinistra (76,5%) e centro-sinistra (69,7%) insieme a quanti non si riconoscono politicamente in nessuno degli schieramenti (67,7%). Ma anche coloro che si riconoscono nell’area politica di destra (68,9%) e di centro-destra (60,3%) esprimono alte percentuali su questo quesito. Appare contrario a tale pratica il 30,6% di coloro che rientrano nell’area politica di centro” (Eurispes, 2010).
[2] L’arroganza di costoro arriva al punto di pretendere che questo debba valere anche per chi non crede in Dio, e questa è solo una delle tante piccole ragioni che non ci consentono di rattristarci troppo quando arroganti di altro credo ne sgozzano qualcuno, perché in fondo si tratta di un regolamento di conti tra fetenti. Insomma, sì, dispiace un poco, ma solo fino a un certo punto: chi pretende di avere in pugno una verità assoluta che debba valere per tutti, prima o poi, è costretto a fare i conti con un altro prepotente che ha in pugno un’altra verità assoluta.
[3] Sul punto, l’eutanasia dovrebbe essere vietata senza meno, perché “gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore” (Catechismo, 2324). Tuttavia è evidente che, se la dignità umana è offesa anche quando viene “ideologicamente esaltata”, come afferma D’Agostino, il solo punto fermo sta nel rispetto verso Dio, che gli sarebbe dovuto anche da parte del non credente. [Si potrà obiettare che è così anche per l’omicidio, ma sarebbe un sofisma, perché non c’è bisogno di credere in Dio per trovare accordo sul fatto che non possa dichiararsi legittimo uccidere chi non voglia essere ucciso. È solo dando per scontato il valore relativo della dignità umana, e relativizzandola a bene che non appartiene all’individuo, ma a Dio, che può legittimarsi la condanna morale del suicidio e dell’omicidio in base allo stesso principio. Tutt’è chiamare o no un Dio a garante della dignità umana, come se fosse scontato che senza non vi sarebbero adeguate garanzie: è quanto effettivamente sta nel magistero morale della Chiesa, senza essere ragionevolmente dimostrato.]
[4] Non si spinge a chiederne anche la rimozione dal web e questo è davvero singolare. Si tratta di “uno spot – scrive – che introduce, in un dibattito delicatissimo come quello sulla fine della vita umana, una dimensione mediatico-pubblicitaria, assolutamente indebita, pensata evidentemente per orientare (non però attraverso l’argomentazione, ma attraverso l’emozione) le decisioni dei parlamentari che saranno presto chiamati a votare in via conclusiva sul disegno di legge sul fine vita”. I parlamentari guardano solo le tv locali e non hanno accesso al web? Non potrebbero essere emotivamente condizionati guardando lo spot su Youtube? Viene il sospetto che a D’Agostino bruci il culo per altra ragione.
[Sullo stesso editoriale di Francesco D’Agostino segnalo il lucido intervento di Luca Massaro.]
sabato 29 gennaio 2011
Via, dite, come si fa a non odiarli?
A Lalibela, in Etiopia, c’è “un monolite di basalto rosato scavato nella roccia a forma di croce”, e tanto basti a testimoniare che pure lì “il cristianesimo è radicato fin dai primi secoli”, così scrive Lucetta Scaraffia (L’Osservatore Romano, 29.1.2011). Gliel’ha detto l’arcivescovo di Addis Abeba, monsignor Berhaneyesus Demerew Souraphiel, illustrandole il progettino che la Chiesa sta per finanziare in Etiopia: “una nuova e grande università cattolica che possa diventare il luogo di preparazione di nuove élites politiche”.
“Certo – scrive la Scaraffia – in un Paese dove molti sono i bambini che muoiono di denutrizione e malaria, dove aumenta costantemente il numero dei ragazzi abbandonati, a prima vista il progetto di una università non sembra di prima necessità. E invece questo progetto della Chiesa cattolica è importante e merita aiuto perché può servire a creare un futuro all’Africa”: excusatio non petita, perché coi propri soldi ciascuno può fare quello che gli pare. Se si sente costretto a motivare? Lasciamo perdere.
Qui, con quelli che serviranno a costruire un’università cattolica in mezzo a una miseria così nera, ci si potrebbe solo porre la questione del come questi soldi siano della Chiesa, giacché di suo la Chiesa non produce denaro ma lo lucra, e tuttavia anche su questo non è il caso di stare a sottilizzare. La questione è un’altra: il futuro che si intende assicurare all’Africa passa per le élites politiche che la Chiesa intende produrre in loco. Con quale diritto? Quello del monolite di basalto rosato. Via, dite, come si fa a non odiarli?
Ora, se in Etiopia dovessero mai ammazzare un prete o far saltare un chiesa, quale sarebbe la differenza tra cristianofobia e anticolonialismo?
venerdì 28 gennaio 2011
A beffa de’ grulli
Suppongo non sia esagerato definire criminale – dico proprio: criminale – l’andare a puttane senza usare il preservativo, soprattutto se ci si va molto spesso, e con puttane sempre diverse, tanto più se questo avviene in un paese come l’Italia, dove le puttane non hanno i diritti e i doveri di ogni altro paese civile e dove – a beffa de’ grulli – vige un articolo del codice penale che punisce con l’ergastolo “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni” (art. 438), senza fare alcuna differenza tra germi patogeni.
Non sto suggerendo alla Procura di Milano di indagare se Silvio Berlusconi abbia fatto uso di preservativo con tutte le puttane passate per Arcore, ma di cogliere l’occasione offerta da tanto dibattito sul fare la puttana e sull’andare a puttane per pensare a una legge quadro sulla prostituzione, che metta l’Italia in linea con l’Europa. Non avremo dibattuto invano.
Fallacy / 2
Abbiamo già visto come per Jeremy Bentham sia impossibile la piena fedeltà alla tradizione senza ricorso al “sofisma di autorità” (qui). Tuttavia è uno dei “sofismi di pericolo” (“il cui contenuto è il pericolo che nelle sue varie forme e il cui fine è di reprimere senz’altro ogni discussione suscitando allarme”) a fare della fedeltà alla tradizione uno strumento di soggezione: “Il sofisma in questione viene usato quasi tutte le volte che sulle persone di chi governa o sul modo in cui si governa vien pronunciata un’espressione che implica condanna o censura: il sofisma consiste nel fingere di considerare questa condanna o censura, se non intenzionalmente certo tendenzialmente, gravida di pericoli per il governo stesso («opponendovi a chi governa, vi opponete al governo stesso»). […] Di fatto questo sofisma non è se non un modo d’asserire, con parole diverse, che nessun abuso va riformato e che sulla cattiva condotta d’una persona che ricopra una carica non si deve far motto che possa ispirare un qualche sentimento di disapprovazione”. È il sofisma che lega indissolubilmente, fino a farli coincidere, la carica e la persona che la riveste.
Bentham scrive che la condizione più auspicabile è quella che consente ai governati di ridimensionare chi governa senza che venga suscitato allarme in loro sulle sorti del governo stesso. Certo, “chi accetta una carica pubblica sa bene che si espone a imputazioni, alcune delle quali possono essere ingiuste. […] Nella misura in cui ciò avviene, si verifica effettivamente un male, ma anche in questo caso il male non è mai scevro da un bene che vale a compensarlo: nei funzionari contribuisce ad alimentare l’abitudine a considerare la propria condotta suscettibile di esame e a promuovere nel loro animo quel senso di responsabilità da cui dipende la bontà della condotta e in cui un retto comportamento trova la sua migliore garanzia”, giacché “ogni governo non è altro che un mandato”.
Non è data cogenza del tautologico e dell’autoreferenziale fuori dall’interesse ultimo di una oligarchia che sappia far coincidere nell’abuso il fine e il mezzo di un’istituzione: questo è quanto concludevamo la volta scorsa. Oggi possiamo concludere che un governo realmente democratico è dato solo in un mandato che sia inteso come servizio gravoso e ingrato.
Resti dov’è
Fossi in lei, gentile Presidente della Camera, terrei duro e non mi dimetterei. Nulla la obbliga, nemmeno l’impegno preso in quel video nel quale prometteva di farlo “se dovesse emergere che Tulliani è il proprietario [del bicamere di Montecarlo]”: i documenti sventolati in aula da Frattini non lo certificano in modo irrefutabile (“utilizzatore beneficiario” non è ancora “proprietario”). Resti dov’è: Montecitorio non può sollevarla, Palazzo Chigi e Quirinale meno che mai. Metta in giro la voce che ha pestato a sangue suo cognato, gli chieda di sdebitarsi dei guai che le ha causato mostrandosi due o tre volte in pubblico con un braccio ingessato e la testa incerottata in più punti, e gli faccia dire che è scivolato per le scale l’ultima volta che è venuto a far visita alle nipotine. Se conosce un poco gli italiani, non dovrebbe sfuggirle che questo sarà apprezzato assai più delle sue dimissioni.
“Non è un problema di pubblica moralità”
Silvio Berlusconi ha il culo flaccido, si sa, ma Il Foglio fa opera di misericordia e lo intervista sull’imposta patrimoniale che Giuliano Amato ha proposto sul Corriere della Sera dello scorso 22 dicembre, vestendo l’ignudo di uno splendido mutandone liberale, dentro il quale il Cav. può far vanto di glutei estremamente tonici: “Patrimoniale mai. […] Bisogna fare esattamente il contrario: liberalizzare, privatizzare, riformare e incentivare la crescita dell’occupazione qualificata, della spesa per infrastrutture, dell’istruzione e della ricerca, insomma delle occasioni di sviluppo che generano il futuro di un grande paese, e farlo attraverso meccanismi che limitino l’invadenza insopportabile dello stato fiscale”.
È quello che Silvio Berlusconi va dicendo dal 1994, rimandandolo sempre, anzi, facendo sempre l’esatto contrario: nessuna liberalizzazione, per non toccare i monopoli e i privilegi delle corporazioni; privatizzare solo se svendendo agli amici, ai sodali e ai famigli; fanculo ai disoccupati; infrastrutture, sì, prego rivolgersi al comitato di affari che sta all’ombra del governo; tagli all’istruzione e alla ricerca; non un euro di tasse in meno, basta promettere di farlo ogni 3-4 anni. Viene il sospetto che la patrimoniale ci sarà, che non si possa farne a meno – troppo tardi per riformare il sistema economico italiano, forse era già troppo tardi nel 1994, non rimane che raschiare il fondo del bidone – e viene il sospetto che Giulio Tremonti già si stia scervellando per trovarle un nome diverso.
Al momento, però, la natica sembra tornata soda, come sempre quando c’è aria di elezioni: “Se la mia parabola politica ha un senso, questo senso è nell’estendere e tutelare la libertà del cittadino, conferendo alla società e alle famiglie quel peso, quella centralità, quella autonomia e quella libertà economica e civile che la vecchia Italia non è stata capace di dar loro”. Tutto dovrebbe avere realizzazione negli ultimi tre minuti della parabola, perché finora il centrodestra ha esteso e tutelato solo la libertà del cittadino Silvio Berlusconi, che si andava arricchendo mentre società e famiglie si impoverivano.
A favorire tutto questo c’è stato anche Il Foglio, con quella “lunga storia di contiguità e perfino di complicità” che ora, in coda alla parabola, sarà ripensata in “una serie di lettere che alcuni foglianti scriveranno al presidente del Consiglio”, inaugurata da Giuliano Ferrara sullo stesso numero che pubblica l’intervista all’Amor Loro. È qui che si rivela il fine ultimo dell’opera di misericordia: “All’inizio degli anni Novanta, per salvare la sua ghirba e la sua robba, lei ha messo al sicuro un po’ anche noi, i nostri piccoli e grandi interessi, le nostre idiosincrasie umiliate dai gendarmi, le nostre poche virtù e la nostra insofferenza per il cipiglio borioso di borghesi raramente dignitosi, spesso poco coraggiosi e sempre radicalmente bisognosi”. Con lei, amato Cav., è pure Il Foglio a mostrare il culo flaccido: non c’è che lo stesso mutandone per coprire entrambi.
“Non è un problema di pubblica moralità. Nel 1968 ci siamo storicamente liberati del «comune senso del pudore», categoria arcigna e censoria dell’Italia anni Cinquanta, e ne lasciamo volentieri gli avanzi ai pm politicizzati e a quella parte della sinistra azionista, incarognita con la bella Italia alle vongole, che li segue triste e avvilita”. È interessante leggerlo su Il Foglio, che per anni ci ha rifilato interminabili pipponi sulla esiziale crisi di quella morale pubblica che è andata a farsi fottere per colpa del Sessantotto. Neanche lo si poteva nominare, il Sessantotto (si raccomandava la pudica espressione “1967+1”), e adesso Silvio Berlusconi e le sue puttane diventano espressione di una emancipazione dei costumi sessuali. Almeno per oggi, su Il Foglio, non c’è trippa per gatti teocon, e il Sessantotto non è da combattere. Almeno per oggi, “lasciamo volentieri gli avanzi” dell’amato senso del vietato e del peccato, che ha fatto forte l’occidente cristiano, alla sinistra azionista e ai parrucconi togati. Almeno per oggi, al diavolo la lectio ratzingeriana e viva il bunga-bunga.
E allora come la mettiamo? “È una questione politica. Il Sultano è il Sultano. Lei deve difendere pubblicamente, in modo generoso verso tutti gli italiani e anche verso la platea dei suoi amici, il suo comportamento. [...] Deve accettare un contraddittorio televisivo, deve parlare con schiettezza e capacità autoriflessiva della sua vita personale che è finita, in parte grottescamente deformata dal demoniaco meccanismo delle intercettazioni telefoniche, sotto gli occhi, negli orecchi e sulla bocca di tutti. [...] Accetti generosamente una posizione debole, sfidi un D’Avanzo in tv, e vedrà che ne uscirà più forte”.
E allora come la mettiamo? “È una questione politica. Il Sultano è il Sultano. Lei deve difendere pubblicamente, in modo generoso verso tutti gli italiani e anche verso la platea dei suoi amici, il suo comportamento. [...] Deve accettare un contraddittorio televisivo, deve parlare con schiettezza e capacità autoriflessiva della sua vita personale che è finita, in parte grottescamente deformata dal demoniaco meccanismo delle intercettazioni telefoniche, sotto gli occhi, negli orecchi e sulla bocca di tutti. [...] Accetti generosamente una posizione debole, sfidi un D’Avanzo in tv, e vedrà che ne uscirà più forte”.
Ricapitolando: vendiamo il Colosseo, costruiamo il ponte sullo Stretto di Messina, marchionniziamo le dinamiche socio-economiche, mettiamo in primo piano Antonio Martino per far dimenticare Nicole Minetti e così ci sentiamo liberisti; poi, andiamo in tv per fare il pieno di simpatia e complicità di quanti vogliano concedere che concussione e prostituzione minorile siano conquiste del Sessantotto e così ci sentiamo libertari. E quando un D’Avanzo dovesse far presente che fino a ieri il Sessantotto era la causa di tutti i mali che strozzano la società italiana, buttar lì: “Il Sultano è il Sultano”. Come a dire: non per me.
mercoledì 26 gennaio 2011
Non impareranno mai
“C’è un senso di smarrimento, c’è un involgarimento del discorso pubblico”, disse a un certo punto Massimo D’Alema. Era lo scorso 28 ottobre e teneva un dibattito pubblico con monsignor Rino Fisichella: parlava di Europa cristiana, di etica pubblica, di bene comune, buona e cattiva laicità, e cose così. Dai massimi sistemi era inevitabile una scivolatina ai minimi e così l’Arguto Baffino evocò il Cattivo Esempio: il pessimo marito, l’incallito puttaniere, lo spergiuro, il blasfemo, il corruttore dei costumi via etere, l’oltraggio vivente a una certa dignità della persona, quello che si fa vanto di aver studiato dai salesiani e di avere quintali e quintali di zie suore, ma che poi dei Dieci Comandamenti se ne sbatte altamente. E rivolto al Fisichella implorava: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”.
Era lo stesso Fisichella che aveva argomentato in difesa di Silvio Berlusconi per l’eucaristia ai funerali di Raimondo Vianello, lo stesso Fisichella che gli aveva contestualizzato un “Orcodìo!”, e D’Alema implorava un aiutino al Fisichella. Povero stronzo, lui e tutti quelli che hanno chiesto e chiederanno un aiutino alla Chiesa contro il Pubblico Peccatore. Il Foglio ha ragione a prenderli per il culo dopo la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco.
C’è una sinistra che ancora si ostina a voler dialogare con la Cei e la Santa Sede sulla base di un malinteso cristianesimo, sempre emarginato nella Chiesa, quando non eretico. Questa sinistra reputa di poter essere utilmente neotogliattiana nel trattare con le gerarchie ecclesiastiche e, ‘fanculo, fa piacere a vedere che ogni volta, come stavolta, si spezza i denti. Non impareranno mai, poveri comunistelli.
[cfr. Leonardo]
[cfr. Leonardo]
martedì 25 gennaio 2011
Vicino al punto di non ritorno
Iva Zanicchi era molto combattuta, poverina, ma ha finito per non raccogliere il “cordiale invito” ed è rimasta, Dio solo sa quanto le costerà in disturbi neurovegetativi. Però questo non vuol dire niente, perché un qualsiasi altro esponente del Pdl, ministro del governo o attivista di base, non avrebbe esitato: un Bondi, anche un Sacconi, naturalmente un Gasparri, ancor più una Santanché, ma ovviamente un Sallusti, una De Girolamo, un qualsiasi cicciobello in doppiopetto profumato di mentina, per non parlare di un Bonaiuti o di un Verdini (non escluderei neppure un Ferrara) – via, non sarebbe restato un solo istante in più. Con Iva Zanicchi – e questo è molto strano – Silvio Berlusconi ha sbagliato il calcolo o forse no, può darsi che, conoscendo la fiera indole dell’europarlamentare, abbia deliberatamente voluto testarsi. E non ha superato il test.
Non è ancora il punto di non ritorno, ma ci siamo abbastanza vicini. Il gioco l’ha inventato lui e gli hanno detto: “Peccato, il prezzo non è giusto”.
“Oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo”
Mercoledì scorso ho scritto che “le sorti di Silvio Berlusconi e del suo governo sono ancora lontane dall’essere prevedibili, checché ne pensi chi lo ama e chi lo odia”, chi spera che regga e chi spera che cada; che, “fino a quando non sarà possibile capire come butta, la linea ufficiale della Chiesa non potrà che mantenersi ambigua”, evitando di scoraggiare troppo l’una o l’altra speranza; che, “fino a quando Silvio Berlusconi avrà la forza di restare in piedi per dare al Vaticano ciò che il Vaticano chiede, prevarranno la condanna del peccato e un occhio di riguardo per il peccatore”; e insomma invitavo a non aspettarsi molto dal cardinale Angelo Bagnasco. È andata proprio così, anzi, a potersi dire soddisfatto della prolusione che Sua Eminenza ha tenuto al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana è più chi vuole Silvio Berlusconi in sella che chi lo vuole sotto gli zoccoli.
Che accade, in pratica? “Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti che siano – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”. La soluzione indicata da Sua Eminenza va “oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo”: una tirata d’orecchie a Silvio Berlusconi se è vero – ma chissà se poi è vero – che va a puttane, e una tirata d’orecchie a chi gli tende “tranelli”, ricambiato, “in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni” e che vede gli uni e gli altri “contribui[re] al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione”.
Sembrerebbe che la soluzione offerta della Cei (si tratta di un vero e proprio lodo Bagnasco) sia in questi termini: Silvio Berlusconi promette di tenere in gabbia l’uccello e di non dare pretesti ai suoi detrattori; le opposizioni promettono di rinunciare a spallate e a ribaltoni; la magistratura chiude un occhio e archivia tutto.
Intanto, mentre Silvio Berlusconi nega di aver mai pagato prestazioni sessuali, tanto meno a minorenni, molti di quanti gli rinnovano fiducia e stima continuano a ripetere: “Ciascuno a casa propria fa quello che gli pare”, aggiungendo per la parte penalmente rilevante: “Pensava che Ruby avesse 24 anni”. È evidente che ritengano lecito l’andare a puttane, e non hanno torto, perché in Italia non è illegale, come non lo è il fare la puttana. Diciamo che la legge dello Stato non recepisce la severa condanna della prostituzione che sta nella dottrina morale della Chiesa, che la definisce “piaga sociale” (Catechismo, 2355). Diciamo che il presidente della Cei non ha chiesto una legge che dichiari illegale tout court la prostituzione.
Era in oggetto la salvezza del Paese, non delle anime dei cittadini: Sua Eminenza ha a cuore il Paese, al di là del bene e del male, e soprattutto pare conoscerlo assai bene. Mezza Italia, infatti, quella che tifa per Silvio Berlusconi, ritiene che indagare sull’ipotesi di un reato grave come la prostituzione minorile sia da considerare una lesione della privacy, un grave attacco al prestigio del Presidente del Consiglio e un odioso tentativo di impedire all’individuo, soprattutto se in grado di poterselo permettere, che sia il cazzo a dettargli la legge morale quando è a casa propria. Non c’è dubbio che Sua Eminenza pensi a questo quando parla di “debolezza etica”, ma come può liquidarla chiamandola “libertarismo”, mettendola in contrapposizione a un “moralismo” che qui si limiterebbe a pretendere da Silvio Berlusconi meno della metà di quello che la Chiesa chiede a tutti? Sul piano morale, rispetto alla prostituzione, in cosa si traduce questa posizione moderata di Sua Eminenza tra “moralismo” e “libertarismo”?Intanto, mentre Silvio Berlusconi nega di aver mai pagato prestazioni sessuali, tanto meno a minorenni, molti di quanti gli rinnovano fiducia e stima continuano a ripetere: “Ciascuno a casa propria fa quello che gli pare”, aggiungendo per la parte penalmente rilevante: “Pensava che Ruby avesse 24 anni”. È evidente che ritengano lecito l’andare a puttane, e non hanno torto, perché in Italia non è illegale, come non lo è il fare la puttana. Diciamo che la legge dello Stato non recepisce la severa condanna della prostituzione che sta nella dottrina morale della Chiesa, che la definisce “piaga sociale” (Catechismo, 2355). Diciamo che il presidente della Cei non ha chiesto una legge che dichiari illegale tout court la prostituzione.
Ecco che nello smalto brillante della dottrina morale della Chiesa si intravvede il buchetto marcio dell’ipocrisia: “Passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese”. La prostituzione non è il vero problema, il vero problema sta nell’immagine generale del Paese.
Se un poco conoscete la sua gente
Direi che fare un passo indietro per mandare avanti la figlia – quel tipo di figlia – sia un’ipotesi che Silvio Berlusconi può aver scartato, ma non prima di averla presa attentamente in considerazione, e comunque penso che non l’abbia ancora scartata: la tiene da parte, perché è ancora convinto di poter resistere, e nemmeno è detto che abbia torto. Voglio dire che inorridiamo all’idea, la esorcizziamo ritenendola assurda, ci consoliamo pensando al fatto che di assurdo ne abbiamo avuto già abbastanza e adesso il cielo vorrà risparmiarcene altro, ma se un poco conoscete la sua gente – e la conoscete – perché no? Perché non la figlia – quel tipo di figlia – al posto del padre?
lunedì 24 gennaio 2011
I vescovi indiani
Ci sono notizie che mi mandano in bestia.
“New Delhi (Agenzia Fides) – I Vescovi indiani accettano e accolgono con rispetto la decisione della Corte Suprema di commutare in ergastolo la condanna a morte comminata a Dara Singh, l’uomo colpevole di aver arso vivo il missionario australiano Graham Steines e i suoi due figli in Orissa, nel 1999…”
Già questo basterebbe a farmi girare le palle. “I Vescovi indiani accettano…”. Mai capito perché si debba usare la maiuscola per vescovi e non per idraulici, notai, geometri, ecc., ma non perdiamoci in dettagli, transeat, veniamo al punto: che vuol dire “accettano”? Potevano non “accettare” la decisione della Corte Suprema? E che vuol dire “accolgono con rispetto” (peraltro dopo “accettano”)? Anche questi sono dettagli, è vero, ma qui non si può sorvolare: questo atteggiamento dei vescovi indiani è tipico di tutti i vescovi del mondo, e francamente è odioso, sicché occorre soffermarci, anche solo un attimo.
Quando si decide contro il loro gradimento, anche per miserabilissime questioni, i vescovi di tutto il mondo si stracciano le vesti (solo metaforicamente, perché farlo davvero sarebbe un peccato), si buttano a terra e strepitano che li si sta ammazzando di botte. Rimani in piedi, sgomento, a vederli agonizzare e ti chiedi: ma hanno solo detto che le antenne della loro radio causano tumori e leucemie, hanno solo fatto una multa e ordinato di abbassare i livelli di inquinamento elettromagnetico – che cazzo hanno da agonizzare?
Tutto il contrario se la decisione di un tribunale è gradita, anche se però dipende dal livello del gradimento. Se è molto gradita, saltano in groppa ai giudici e li trattano da ronzini della loro pastorale: non potevano che decidere bene, perché cristianamente ispirati. Se la decisione è gradita, sì, ma così così, assumono una posa condiscendente, ma un po’ annoiata, come per dire: sì, ma non può fottercene di meno, fate un po’ come vi pare, “accettiamo e accogliamo con rispetto”.
[Inciso: noi occidentali siamo ormai abituati e, quando i vescovi fanno così, ci limitiamo a sorridere o a incazzarci, ma voi credete che musulmani, indù e animisti siano così coglioni da non trarre qualche odioso pregiudizio cristianofobo da atteggiamenti del genere, portandolo talvolta a sanguinolenta maturazione? E poi ci vogliamo lamentare se ogni tanto ardono vivo un cristiano?]
Questo Graham Steines aveva due figli, quindi non era un prete cattolico: infatti era un pastore evangelico, ma i vescovi se ne assumono la tutela giuridica post mortem dichiarandosi soddisfatti a nome suo per la commutazione della condanna a morte a ergastolo per il suo assassino. Si dirà: vabbe’, è il solito ecumenismo peloso, ma in fondo sulla pena di morte evangelici e cattolici hanno opinioni simili… Ecco, no, manco per il cazzo, non è così. Però “i vescovi indiani accettano e accolgono con rispetto”, a nome di Graham Steines.
Fosse tutto. Non lo è.
“… In un comunicato inviato all’Agenzia Fides, la Conferenza Episcopale afferma: «La Chiesa ha sempre tenuto una posizione chiara sulla pena di morte, in quanto crede fermamente nella possibilità del pentimento e del cambiamento di vita. Anche nel caso di Dara Singh, la Chiesa vuole dare l’opportunità di cambiare la sua vita, anche se ha commesso un crimine odioso. La Chiesa pensa a custodire e promuovere la vita, piuttosto che a toglierla, e per questo dà molta attenzione ai valori del perdono e della riconciliazione»…”
Ora, pure i bimbi in età da stupro ad opera dei catechisti sanno che il Catechismo recita: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”, e allora perché dire che la Chiesa “crede fermamente nella possibilità del pentimento e del cambiamento della vita” come si trattasse di un principio in assoluta contraddizione col condannare un reo a morte? Non è così, non è affatto così, perché se è vero che “i casi assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”, “quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”, la Chiesa consente il ricorso alla pena di morte, in culo a ogni “possibilità del pentimento e del cambiamento della vita”, che non stanno né in mano ai giudici, né in mano ai vescovi, ma solo in mano a Dio, o no? E allora di cosa stiamo parlando? Bisogna aguzzare l’occhio sul passaggio successivo, solo in apparenza anodino:
“… I Vescovi ribadiscono che la Corte ha rifiutato l’istanza di cancellare del tutto i reati ascritti all’uomo, confermando la condanna per tutti coloro che aderiscono a forze estremiste che tendono a dividere il paese e a turbare l’armonia sociale. Inoltre la Chiesa esprime la sua perplessità per la parte conclusiva del giudizio, in cui la Corte deplora «l’uso della forza o della provocazione per interferire nel credo di qualcuno». «Parlando di conversioni forzate – nota il comunicato dei Vescovi – si può dare l’impressione che sia proprio il problema della conversione religiosa il fattore scatenante del crimine commesso»: fatto, questo, che i Vescovi smentiscono categoricamente…”
Eccoli lì: “accettano e accolgono con rispetto la decisione della Corte Suprema”, ma per saltare i groppa ai giudici e gratificarli di un sublime zuccherino avrebbero gradito una sentenza di condanna che indicasse il movente di Dara Singh in una insensata cristianofobia.
La Chiesa non fa proselitismo. Tanto meno forzato. O almeno non lo fa più. Esattamente, ad essere pignoli, da quando non ne ha più la forza. Da quando non l’ha più – potenza della grazia! – ha dimenticato perfino di averla esercitata dappertutto per il battesimo forzato di ebrei, indios e aborigeni. Cumuli di morti sepolti nella storia, puff!
“…. La Chiesa, notano, «ha sempre asserito che non crede e che non sostiene alcun tentativo di conversione forzata, e che lo considera come un insulto alla dignità della persona». Il testo ricorda che la conversione è «una scelta che avviene nel profondo dell’animo umano, grazie all’incontro con Dio, e che la stessa Costituzione indiana garantisce la piena libertà di coscienza e di religione», principi che la Chiesa ha sempre rispettato pienamente. (PA) (Agenzia Fides 24/1/2011)”
Ma come si può cadere dalle nuvole quando ne sgozzano uno? E come si può restarne dispiaciuti?
Coniglio mannaro
Delizioso refuso di Paolo Martini nel corso della Presentazione dei programmi della giornata (Radio Radicale, 24.1.2010): “Arnaldo Bagnasco”. Senza alcun dubbio si tratta del più forlaniano presidente della Cei.
domenica 23 gennaio 2011
“Il Papa si occupi dei preti pedofili”
“Con il dovuto rispetto per le alte cariche dello Stato della Chiesa, che si dichiarano preoccupate per le leggi e per la morale italiane, riteniamo che farebbero bene ad occuparsi in primis dei casi di pedofilia all’interno delle loro comunità. Casi confessati e quindi più diseducativi delle ipotesi di reato contestate all’Italia”.
Fatta da Francesco Nucara, esponente politico di una maggioranza che si è sempre fatta forte dell’ingerente appoggio delle alte gerarchie vaticane, la dichiarazione si mortifica in uno sbocco di stizza, come lo sputo in faccia a chi ti ha tradito. Peccato, perché è molto bella. Andrebbe corretta nel finale (ad essere accusato di prostituzione minorile è solo Silvio Berlusconi, non l’Italia) e forse quel “dovuto rispetto” è ironia superflua, ma poi è perfetta, come peraltro è data in sintesi dal titolo della nota di agenzia: “Il Papa si occupi dei preti pedofili”. Pertinente, acuta, asciutta. Anche per questo dispiace che nessun esponente politico delle opposizioni, neppure uno di quelli che più sono in odore di laicismo, sia stato capace di farsi scappare di bocca qualcosa di simile, almeno finora.
La priorità è liberarsi di Berlusconi e un aiutino dalla Cei e dalla Segreteria di Stato Vaticano non dispiace: non c’è stato un solo autorevole esponente delle opposizioni che abbia ritenuto prioritaria la difesa della laicità dello Stato, nessuno che abbia avuto l’ardire di consigliare al Papa di farsi i cazzi suoi, anzi c’è stato addirittura chi ha supplicato la Provvidenza (Massimo D’Alema a monsignor Rino Fisichella: “Ingeritevi! Se non ora, quando?”).
Ecco, venitemi a chiedere il voto contro Berlusconi in nome della laicità che sarebbe patrimonio culturale del vostro partito, e vi faccio fare le scale a calci.
Fatta da Francesco Nucara, esponente politico di una maggioranza che si è sempre fatta forte dell’ingerente appoggio delle alte gerarchie vaticane, la dichiarazione si mortifica in uno sbocco di stizza, come lo sputo in faccia a chi ti ha tradito. Peccato, perché è molto bella. Andrebbe corretta nel finale (ad essere accusato di prostituzione minorile è solo Silvio Berlusconi, non l’Italia) e forse quel “dovuto rispetto” è ironia superflua, ma poi è perfetta, come peraltro è data in sintesi dal titolo della nota di agenzia: “Il Papa si occupi dei preti pedofili”. Pertinente, acuta, asciutta. Anche per questo dispiace che nessun esponente politico delle opposizioni, neppure uno di quelli che più sono in odore di laicismo, sia stato capace di farsi scappare di bocca qualcosa di simile, almeno finora.
La priorità è liberarsi di Berlusconi e un aiutino dalla Cei e dalla Segreteria di Stato Vaticano non dispiace: non c’è stato un solo autorevole esponente delle opposizioni che abbia ritenuto prioritaria la difesa della laicità dello Stato, nessuno che abbia avuto l’ardire di consigliare al Papa di farsi i cazzi suoi, anzi c’è stato addirittura chi ha supplicato la Provvidenza (Massimo D’Alema a monsignor Rino Fisichella: “Ingeritevi! Se non ora, quando?”).
Ecco, venitemi a chiedere il voto contro Berlusconi in nome della laicità che sarebbe patrimonio culturale del vostro partito, e vi faccio fare le scale a calci.
venerdì 21 gennaio 2011
La “silvana cerva” e “il più grande pensatore di tutti i tempi”
“Non devi costringermi a darti la caccia come una silvana cerva,
ma uscire dall’antiquato antro delle tue sibillinità, scacciare le remore,
inorgoglirti dei tuoi sentimenti per me, e prendere tu le mie mani per porle su te.
Se non vuoi, dimmelo, e vedrai che troverò il modo di non morirne.
Lo sai che avevo, fin qui, sei fidanzate e, benché sia pronto a dedicarmi a te,
non sono però intenzionato a rinunziare al mondo in cambio di nulla”
(pag. 33)
Il labirinto femminile di Alfonso Luigi Marra è tutto in copertina, dove di sé dice: “Uno straordinario epistolario d’amore in sms tra Luisa, giovane avvocatessa, e Paolo, il titolare del grande studio legale in cui lavora, che ha il doppio dei suoi anni. Le pagine d’amore più belle mai scritte, ma anche un’analisi eccezionale affinché la coppia e la società superino lo strategismo e l’inciviltà sentimentale ed emotiva che oggi le soffoca”. La Commedia di Dante Alighieri aspettò due secoli e mezzo prima di dirsi Divina in copertina e ci vollero quasi cent’anni perché il lavoro di Gregor Mendel si rivelasse geniale, ma qui l’opera del Marra non ha tempo da perdere e dà per acquisito l’immancabile successo di critica (“le pagine d’amore più belle mai scritte”) con l’indiscusso riconoscimento dell’essere venuta a liberarci senza meno e niente meno che dal soffocante “strategismo”.
Dovremo parlare a lungo di questo “strategismo”, al momento soffermiamoci su Paolo, “titolare d[i un] grande studio legale”, e su Luisa, “avvocatessa”. Il Marra – informa Wikipedia – “è un avvocato cassazionista con studio a Napoli” (non sappiamo quanto “grande”): c’è dell’autobiografico nel suo libro? E a una collega dà dell’“avvocatessa”? A un uomo di lettere come lui non dovrebbe sfuggire l’intenzione ironica o addirittura spregiativa che sta nel termine: perché non usa “avvocato(a)” per Luisa? Tutto sommato non ha importanza, andiamo al sodo: sì, nel libro del Marra c’è dell’autobiografico. “Luisa, creata per sintetizzare in lei caratteri, aspetti e parti di un po’ tutte le donne e le esperienze sentimentali della mia vita, alcune lontanissime, ancorché focali, come quella, non più ritrovata, mai dimenticata, della soavissima nudità di una popolanina napoletana distesa tra me e i tiepidi umidori notturni della spiaggetta di Nisida, cullati noi dai lenti mormorii equorei, mentre i suoi occhi dorati dalla luna mi pervadevano l’anima e mi smarrivo nelle voluttà dello svolgersi della sua passione, quando l’ansito del suo respiro, al culmine del farsi profondo, meraviglioso si volse in un canto d’amore bellissimo, antichissimo, dolcissimo, che mi pervase ragazzo di una struggente stupefazione e dissolse le pareti di un antro in cui non sapevo di essere liberando su noi l’onda del firmamento pullulante di stelle. E Paolo, il titolare del grande studio legale in cui lavora, che ha il doppio dei suoi anni, e anche lui ho creato per sintetizzare in un unico io narrante i molti me attraverso i quali ho vissuto quelle esperienze” (pag. 284).
Chi è arrivato a pag. 284 delle 368 del libro di Marra è a Le chiavi di lettura delle precedenti 283 (Prima parte), che contengono lo “straordinario epistolario d’amore in sms” (in realtà anche in e-mail) intercorso tra la sintesi di tutti i Marra fin qui possibili e la sintesi di tutte le donne che gliel’hanno data, quasi sempre previo tormento; la Seconda parte potremmo definirla di corredo teorico, composta com’è di microsaggi, ciascuno di poche paginette, su La non dialogicità sessuale e la non orgasmicità femminile quali effetti delle politiche del potere economico per inibire il confronto, su La consumazione delle culture dell’amore fin qui vigenti, sulla Definizione dell’amore, sue cause, suo modo di insediarsi nel sistema mentale, e sua alterazione a opera del potere economico, su L’inversione in favore dell’uomo del rapporto di forza dopo l’istituzione della coppia e su Il maliardismo. Fin dai titoli di questi rivoluzionari contributi alla liberazione della coppia e della società dallo “strategismo” è evidente che il Marra non si sia limitato a scopare: scopava, ma intanto studiava i problemi inerenti, avvalendosi di una originale rielaborazione del metodo empiriocriticista di Avenarius e rigirandosi nel macinato di Reich, Fromm e Marcuse come un pesciolino nella farina prima di passare all’olio della sua padella.
Non è per scoraggiare il lettore di questa recensione dalla lettura della Seconda parte o per sottovalutare la corda lirica che il Marra fa risuonare nell’epistolario, ma tutto il libro sta proprio ne Le chiavi di lettura, una settantina di pagine che sta come sospesa tra lo scopare-come-è e lo scopare-come-dovrebbe-essere: settanta pagine che, come s’è visto fin qui, non rinunciano ad attingere dall’esperienza pura per costruire una critica della sua dimensione fisica e di quella psichica così come percepite e agite nella proiezione della coppia sul vissuto sociale e sui processi di ampiezza antropologica.
Qui, ne Le chiavi di lettura, il problema è posto e risolto: il Marra trova esasperanti i rituali che a un certo tipo di donna – gliene sono capitate tutte di quel tipo – paiono indispensabili per dargliela e costruisce una teoria della liberazione. Superfluo dire che la fatica dei rituali sarebbe di gran lunga minore di quella che il Marra fa per dimostrarli superflui, ma qui sta il punto: al Marra non fa paura la fatica, ma lo “strategismo”.
In pratica, il Marra vorrebbe una donna che gliela dia perché lui è il Marra. “A prescindere dall’essere abbiente, affermato e noto, [Paolo, cioè il Marra] è diverso da chiunque: scrive cose senza precedenti in alcuna cultura; afferma, non per vanagloria, ma nel quadro di una vastissima operazione culturale rivolta a cambiare il mondo, di essere il più grande pensatore di tutti i tempi in un regime di sia pur riottoso e silente assenso: perché aggiunge molti altri argomenti che squassano i poteri dalle fondamenta senza che reagiscano minimamente. E, pur nella finta indifferenza generale, è circondato da una specialissima aura di riconoscimento” (pagg. 289-290). Che cazzo vuole di più, la Luisa? Perché mortificare questo padreterno alle avvilenti procedure che tradizionalmente sciolgono le ataviche ansie di chi vorrebbe darla, ma non vuole, però vuole, ma non vuole, però vuole? È presto detto: Luisa “vuole sposarlo perché sarebbe la riprova formale del suo volerla veramente e, dovesse rompersi il matrimonio, non subirebbe le conseguenze morali di un allontanamento dopo essergli un po’ «servita». Cose invero tutte molto comuni: così comuni da costituire un flagello planetario del quale vanno individuate le ragioni profonde: perché dietro le motivazioni apparenti che agitano il quotidiano, ci sono sempre quelle profonde che ne costituiscono la scaturigine. Paolo è cioè costretto a scontrarsi con i limiti di Luisa perché aggirarli significherebbe lasciarli irrisolti” (pag. 290).
In qualche modo dovremmo esser grati ad ogni Luisa capitate a ogni Paolo che è nel Marra: l’avessero data facile, non avremmo avuto la vastissima operazione culturale in cui il Marra è impegnato da oltre un quarto di secolo. Sì, proprio un quarto di secolo, perché è da La storia di Giovanni e Margherita (1985) che il Marra batte sempre sullo stesso chiodo, che poi è lo stesso sul quale hanno battuto la fronte intere generazioni di giovanotti che chiedevano alla loro morosa la cosiddetta “prova d’amore”: scopare prima del matrimonio. Il battere del Marra, però, è rivoluzionario: non è quel “sì, ti sposo, ma prima dammela per dimostrarmi che mi ami davvero”, che a mio padre non servì molto, ora è un “dammela perché ti amo però sappi che non ti sposo”, che si propone come “dialogizzante”. Più rivoluzionario di così solo il pagarla.
Cazzullo elastico
Qui sopra è riprodotto un box sulla prima pagina de Il Foglio di oggi, venerdì 21 gennaio: citazione da un articolo di Aldo Cazzullo apparso sulla prima pagina del Corriere della Sera di ieri, secondo il ritaglio qui sotto riportato:
Ora, si può considerare onesto questo modo di ritagliare? Voglio dire: Il Foglio ha fatto dire ad Aldo Cazzullo quello che Aldo Cazzullo voleva dire? Procedo in modo empirico.
Non avevo letto l’editoriale sul Corriere della Sera. Avevo visto la firma di Cazzullo e avevo evitato. È che Cazzullo mi sta un po’ sul cazzo da quella volta che scrisse di essersi pentito di aver firmato un appello in favore di Rocco Buttiglione, vittima di discriminazione per aver discriminato i gay: scrisse che si era pentito “per la motivazione con cui [Buttiglione] ha votato contro la legge che doveva inasprire le pene per le aggressioni contro gli omosessuali”. Capitò che lo incontrassi per caso, la sera stessa, e gli chiesi se non si fosse trattato sempre dello stesso Buttiglione, e si scusò – sì, sembrava proprio scusarsi – dicendo che aveva firmato solo perché glielo aveva chiesto un collega de Il Foglio. Avrei voluto dirgli che non si impegna il proprio nome su un principio solo per non risultare scortese a un collega, finii col fargli capire che intellettualmente era stato disonesto. Insomma, da quella volta non lo leggo. E non lo avevo letto neanche ieri.
Quando ho letto il box su Il Foglio, mi son detto: ecco, è recidivo, stavolta si è pentito di aver scritto che le gerarchie vaticane fanno ingerenza nella politica italiana e chiede a Bertone di stigmatizzare il pubblico peccatore in Berlusconi; torna così a legittimare la discriminazione sulla base del peccato, diritto che aveva prima riconosciuto e poi negato a Buttiglione. Questo Cazzullo – mi son detto – è assai elastico sui principi. E sono andato a recuperare il suo editoriale.
Non era a affatto come pensato, era Il Foglio a farsi fare un favore da Cazzullo, stavolta senza neanche chiederglielo. Opportuno ritaglio e la richiesta di coerenza che Cazzullo fa alle gerarchie ecclesiastiche, perché sia resa evidente l’incoerenza di chi fa i Family Day e poi va a puttane, per giunta minorenni, diventa una richiesta di ingerenza per il bene del Paese. “Un contributo prezioso al Paese” – per Cazzullo – sarebbe una Chiesa coerente, ma qui – per Il Foglio – sarebbe la sua ingerenza. Ma a Cazzullo non piace essere scortese coi colleghi e chiuderà un occhio e anche stavolta sarà elastico sui principi.
giovedì 20 gennaio 2011
Burp
Denis mi ha inviato le 368 pagine di Labirinto femminile (Alfonso Luigi Marra, 2010) [*], Alessandro me ne ha inviato altre 389, quelle dell’Invito per la presentazione di persona sottoposta ad indagini che Silvio Berlusconi ha ricevuto di recente (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, N. 55781/2010) [*] e sono sballottato da un .pdf all’altro. Mai sofferto di mal di mare, ma mi sembra di riuscire a capire come si sente chi ne soffre.
[*] Grazie.
Salvo ulteriore smentita
Il cardinale Crescenzio Sepe smentisce quanto gli è stato attribuito l’altrieri e che ho citato in apertura ad un mio post di ieri: “Come in ogni uomo [anche in Silvio Berlusconi] c’è anche del bene e bisogna evitare che venga rappresentata solo una parte dell’immagine, solo la parte ombrosa”. Francamente non si capisce che senso abbia la smentita: qualsivoglia affermazione relativa a “ogni uomo” non vale anche per Silvio Berlusconi? E che cazzo di smentita è?
Sua Eminenza parlava in generale – manda a dire – non intendeva fare particolare riferimento a Silvio Berlusconi. Ma se io dico: “Come in ogni chierico [anche in ***] c’è una gran faccia di culo”, al posto degli asterischi ci va qualsiasi chierico, anche Sua Eminenza: che se senso ha che, dopo averlo detto, io mi smentisca dicendo: “Non mi riferivo a Sepe, parlavo in generale”? Ho detto: “Come in ogni chierico…”; e Sepe è un chierico; e allora che cosa voglio smentire? Semplice: voglio dire che non nego che Sepe abbia una gran faccia di culo, ma pensando a una gran faccia di culo non stavo pensando proprio a lui.
Mutatis mutandis, Sepe vuol farci sapere che ieri l’attualità politica non era in cima ai suoi pensieri: anche in Silvio Berlusconi c’è qualcosa di buono – questo è indubbio, perché Silvio Berlusconi è un uomo – ma, quando parlava dell’uomo ingiustamente rappresentato tutto ombroso, Sua Eminenza non pensava a lui.
È possibile, senza dubbio. Anzi, conviene andare alla fonte. La frase, che io ho tratto da un articolo su corrieredelmezzogiorno.corriere.it (Caso Ruby, Sepe assolve Berlusconi: non solo peccati, in ogni uomo c’è del bene), è stata pronunciata nel corso di un’intervista che Sua Eminenza ha concesso a Mario Platero (Radio 24) nel corso della sua visita alla comunità napoletana residente a New York ed è in risposta alla seguente domanda dell’intervistatore: “Queste persone conoscono il nostro paese, lo vivono da vicino, seguono anche un po’ le vicissitudini che stiamo passando: i cosiddetti peccati del Presidente del Consiglio, che in questi giorni vengono molto discussi. Ecco, qual è il suo pensiero, il suo consiglio, la sua opinione, la sua parola anche per queste comunità a proposito di quello che sta succedendo in Italia?”.
Sepe: “Beh, speriamo che tutti insieme, con l’aiuto, con la collaborazione di ciascuno, possiamo superare questi momenti di difficoltà. Lo dicevo anche nell’omelia. Ecco, bisogna evitare che venga rappresentata solo una parte dell’immagine, solo la parte ombrosa. Bisogna sapere che poi, come in ogni uomo, c’è anche del bene, così, in ogni città, in ogni paese, ci può essere anche del bene. E allora, certo, condannare ciò che è male, ma anche valorizzare ciò che è bene”.
È tutto chiaro: Berlusconi non è solo un peccatore, l’Italia non è tutta Berlusconi. Se ci pensate un attimo, v’è implicita una interessante questione logica che potremmo provare a risolvere grazie alla teoria degli insiemi. Meglio lasciar perdere, vero? A me viene il mal di testa solo a porre la questione.
Salvo ulteriore smentita, devo smentire quanto affermavo ieri: Sua Eminenza non gioca sull’ala destra, ma fa il jolly.
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