È
stato solo un incidente. Col voto segreto può capitare ed è capitato. Poco
male, via, perché la Camera annullerà l’emendamento delle opposizioni che oggi è
passato al Senato. Detto da chi non sopporta il bicameralismo.
giovedì 31 luglio 2014
mercoledì 30 luglio 2014
Ricordano che fu fondata da Gramsci
Piangono
la chiusura de l’Unità, ricordano che fu fondata da Gramsci, e bla bla bla. Non
si capisce, però, che senso avesse ancora. Era l’organo del Pci, che oggi non c’è
più. Al suo posto c’è un Pd che affida le riforme costituzionali, e che
riforme, a una signorina che qualche giorno fa rivendicava con fierezza di
essere ispirata da Fanfani. Via, si chiuda l’Unità. Se non per debiti, almeno
per pudore.
martedì 29 luglio 2014
Un cazzo di niente
Il
governo Monti si insedia il 16 novembre 2011 e nel primo mese di
vita ottiene l’approvazione del ddl che introduce nella Costituzione il
pareggio di bilancio da parte della Camera (30 novembre) e del Senato (15
dicembre), in entrambi i casi all’unanimità. Nel frattempo emana la manovra
fiscale cosiddetta anticrisi che prevede un gettito di 30 miliardi di euro in
tre anni e che viene approvata alla Camera (16 dicembre), a larga maggioranza.
Il secondo mese inizia con l’approvazione della manovra al Senato (22
dicembre), anche qui a larga maggioranza, e termina con l’approvazione alla Camera
della risoluzione unitaria sullo stato della giustizia (17 gennaio). Il terzo
mese vede il varo di misure di liberalizzazione in vari settori economici
(20 gennaio), l’approvazione alla Camera della Legge Comunitaria 2011 (2
febbraio) e il primo dei provvedimenti cosiddetti svuotacarceri (15 febbraio).
Nel quarto mese abbiamo l’approvazione del ddl cosiddetto milleproroghe
2012 (23 febbraio), il positivo passaggio al Senato del ddl sulle
liberalizzazioni, la nascita dell’Authority sui trasporti e il riordino delle
tariffe sull’energia (1° marzo). Il quinto mese vede il varo della
riforma del mercato del lavoro (23 marzo) e quello della riforma del catasto
(16 aprile).
Tutta roba che potrà piacere o no, ma un bel mucchietto di roba.
Il
governo Letta si insedia il 28 aprile 2013 e nel primo mese di
vita blocca il pagamento della rata di giugno dell’Imu ed eroga i fondi per la
cassa integrazione ordinaria e per quella straordinaria (17 maggio). Il secondo
mese inizia con l’approvazione del ddl per l’abolizione del finanziamento
pubblico ai partiti e il varo di un decreto-legge su alcuni bonus fiscali (31
maggio), mentre al Senato (3 giugno) e alla Camera (5 giugno) passa il decreto
sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Pochi giorni dopo l’esecutivo
vara il cosiddetto decreto del fare che contiene misure anticrisi per il
rilancio dell’economia e lo sviluppo del paese (15 giugno), mentre due
settimane dopo è la volta della modifica alla Riforma Fornero (24 giugno). Il
secondo mese dell’esecutivo si chiude col decreto che blocca temporaneamente l’aumento
dell’Iva (26 giugno) e con la presentazione del disegno di legge sull’occupazione
giovanile grazie allo sblocco di 1,5 miliardi di euro dal fondo europeo (28
giugno). Il terzo mese vede la presentazione da parte dell’esecutivo di
un ddl costituzionale per l’eliminazione delle Province (5 luglio) e il suo
impegno a portare in Parlamento ogni decisione relativa a spese militari (16
luglio), chiudendosi con l’approvazione alla Camera delle misure economiche d’urgenza
proposte dal governo (26 luglio), che col quarto mese vedrà l’approvazione
anche da parte del Senato (7 agosto). Dopo pochi giorni il governo annuncia
tagli per 50 milioni sulle auto blu del parco macchine della Presidenza del
Consiglio e sugli aerei della flotta di stato (12 agosto). Due giorni dopo il
Consiglio dei Ministri approva un decreto legge sul femminicidio (14 agosto),
mentre di lì a due settimane è la volta di un decreto legge su pubblica
amministrazione e precariato giovanile (26 agosto). Il quinto mese l’esecutivo approva
un decreto legge sul welfare dello studente, con agevolazioni sui libri di
testo e provvedimenti per la tutela della salute a scuola (9 settembre).
Anche
qui valga quanto sopra: saranno state iniziative sagge o no, utili o meno, ma
certo non si può dire che il governo non abbia combinato niente.
Veniamo ora ai primi cinque mesi del governo Renzi, il governo del cazzaro che si atteggia a uomo del fare. Il suo esecutivo vede la luce il 22 febbraio di quest’anno e in cinque mesi e una settimana cos’ha combinato? Ha messo 80 euro nelle buste paga di qualche milione di dipendenti pubblici alla vigilia delle Europee, e ancora non si sa dove caverà la copertura, anzi si parla di una manovra di autunno. Le riforme costituzionali annunciate sono a zero, e così la legge elettorale. Pubblica amministrazione? Jobs Act? Che altro? È un governo che dichiara di incarnare il dinamicissimo modello del fare per fare, e che ha fatto? Un cazzo di niente.
Veniamo ora ai primi cinque mesi del governo Renzi, il governo del cazzaro che si atteggia a uomo del fare. Il suo esecutivo vede la luce il 22 febbraio di quest’anno e in cinque mesi e una settimana cos’ha combinato? Ha messo 80 euro nelle buste paga di qualche milione di dipendenti pubblici alla vigilia delle Europee, e ancora non si sa dove caverà la copertura, anzi si parla di una manovra di autunno. Le riforme costituzionali annunciate sono a zero, e così la legge elettorale. Pubblica amministrazione? Jobs Act? Che altro? È un governo che dichiara di incarnare il dinamicissimo modello del fare per fare, e che ha fatto? Un cazzo di niente.
Chi sono io per giudicare?
Risparmierò
al mio lettore la lunga lista dei versetti che attestano quanto segue: Gesù fa
presente ad apostoli e discepoli che saranno diffamati, perseguitati e uccisi per
la loro fede, e che di questo dovranno andar fieri e lieti. Eviterò pure di
sollevare la questione sulle ragioni del perché lo faccia presente, così
potremo fare a meno di intavolare le solite estenuanti e inconcludenti discussioni
sul fatto che sia realmente esistito, abbia realmente detto ciò che riportano i
vangeli, ecc. Diciamo che oggi non mi sento in vena polemica e voglio prendere
per oro colato quello che sostengono i suoi seguaci. A farlo, tuttavia, ricavo
un gran fastidio da tutto questo strepitare per i cristiani che vengono
ammazzati in India, in Pakistan, in Siria, in Nigeria, ecc. Passi per chi non è
cristiano e protesta per ragioni umanitarie, anche se, così facendo, rivela
scarsa sensibilità verso chi antepone l’inestimabile valore della vita eterna a
quello comparativamente miserabile della vita terrena. Quello che irrita,
invece, è il lamento dei cristiani cui giungono le notizie del massacro di cui
sono fatti oggetto i loro fratelli: danno corpo al messaggio evangelico, e in
cambio ottengono il bene più prezioso che sia dato conquistare agli uomini,
perché far tutto questo casino? Perché sporcare la purezza del mandato che Gesù
ha consegnato a chi lo ama con l’arida infografica di una geopolitica che sa di
Risiko? Il peggio, tuttavia, sta nell’accusa di indifferenza. Chi dice che sia
indifferenza? Io, per esempio, non sono affatto indifferente alle stragi di
cristiani che si consumano qua e là. Devo dire, anzi, che d’istinto sarei portato
a dolermene. Sempre d’istinto sarei portato ad indignarmi, a far qualcosa, foss’anche
il poco che in mio potere, perché la carneficina cessi, chessò, firmare
appelli, partecipare a veglie reggendo una candela accesa, ecc. Niente di
peggio che lasciarsi andare all’istinto, è proprio il cristianesimo ad avercelo
insegnato. Dolermi per i cristiani che lì sono bruciati vivi e poco più in là
crocifissi, in fondo, è un riflesso profondamente egoista. È che io non credo
nella vita eterna, tanto meno nel fatto che la si conquisti facendosi ammazzare
da chi ha una fede concorrente. Do un valore alla vita terrena che nessun buon
cristiano sarebbe disposto a concedere abbia, e pretendere che il suo metro si
adegui al mio sarebbe, questa sì, la più scellerata delle violenze per potrei
infliggergli. La fede in un dio, poi. Io ne sono totalmente privo, sicché non
posso sindacare chi ce l’ha e la ritiene il bene più prezioso, al punto da
credere di valorizzarla a dovere versando il suo sangue. E chi sono io per
giudicare?
[...]
Il rifiuto di capire la differenza che c’è tra un embrione ed un bambino - più che incapacità nel coglierla, spesso è patente ostinazione nel negarla - trova impareggiabili momenti di comicità in molte delle farlocche argomentazioni dei no choice (impropriamente noti come pro life), che toccano punte di grottesco quando l’equivalenza è offerta nella fallacia detta di petitio principii in combinato disposto con quella detta ad misericordiam. È il caso offertoci ieri da Giuliano Ferrara (Il Foglio, 28.7.2014), che contestava la «la crociata Unicef a favore dei bambini di Gaza» perché a intestarsela sono «gli stessi che i bambini abortiti, un miliardo e più in trent’anni, fanno bensì preoccupare [...] ma non fino al punto di imporre una tregua al clash of absolutes, mettendo a discutere su come evitare gli aborti e la mentalità antinatalista i capi della pianificazione riproduttiva e demografica, annidati anche loro in cose tipo Unicef, e quelli che resistono nel mondo su una posizione pro life» (dove anche il lessico segnala un’evidente fatica nello star dietro a un nesso logico tanto sfuggente). In sostanza, la crociata a favore dei bambini palestinesi perderebbe credibilità in partenza con l’essere promossa e sostenuta da chi non muove un solo dito per contrastare la pratica delle interruzioni volontarie di gravidanza, peraltro dove è legalmente consentita. Volendo, poteva starci pure l’accusa di essere gli stessi che non hanno mai fatto nulla per dare un serio contributo alla ricerca scientifica che mira a riconoscere e combattere le noxae patogene che causano gli aborti spontanei, che negli ultimi trent’anni saranno stati almeno dieci volte più numerosi di quelli procurati. In realtà, a ben vedere, il ragionamento è viziato in partenza da una fallacia ben più grave, quella nota come argomento del tu quoque (ciò che affermi è falso perché il tuo agire non è conseguente ad esso): ce n’è per un’accusa di ipocrisia, ma nulla che tolga ragione all’appello umanitario (come invece sarebbe il far presente che è indirizzato male: è Hamas che usa i bambini palestinesi come scudi umani), tanto meno al diritto di interrompere una gravidanza non desiderata (segnalando che è proprio chi lo nega ad aver fregole di «pianificazione riproduttiva e demografica»). Non è tutto, perché avere a cuore la sorte dei bambini palestinesi sarebbe in contraddizione pure col non avere nulla in contrario alla fecondazione assistita, e qui ogni analisi logica non ha che da dichiararsi impotente a cogliere un valido nesso. Così com’è per l’altrettanto astruso riferimento alla pratica del cosiddetto «utero in affitto», la cui condanna morale stupisce tenuto conto che viene da chi sostiene che «siamo tutti puttane»: vendersi il culo è bello, fittarsi l’utero è sconveniente?
venerdì 25 luglio 2014
[...]
Spettacolo
più sgradevole di quello che offre il bullo premiato dall’azzardo è solo quello
offerto dalla sua pupa, tanto più smargiassa dopo, quanto più apprensiva era
prima. Giocarsi il tutto per tutto le sembrava una pazzia, ma si sa che la pupa
non ha voce in capitolo sulle decisioni del bullo, le è concesso solo quel mettere
le mani avanti che d’istinto scappa a chi teme lo schianto, meglio se riuscendo
a farlo sembrare gesto scaramantico. Eccola, poi, quando il colpo è andato a
buon fine, precedere di un passo il bullo all’incasso. Non s’era detto che le
Europee non fossero un referendum sul Governo? Adesso no, adesso il voto del 25
maggio è un avallo alle iniziative dell’esecutivo, tutte. Il che può darsi che sia
pure vero, ma al momento è meglio che le elezioni anticipate bastino come minaccia
ai peones che non hanno la certezza di essere rinominati. Così, mentre il bullo
si fa gradasso per un consenso che non è meno farlocco dei grappoloni di
bubbole che gli escono di bocca, la pupa si vanta di aver scritto quella merda
di Costituzione che ha scritto come ispirata dalla volontà popolare – pardon,
della gente. Viene nostalgia delle tette della Minetti.
giovedì 24 luglio 2014
Se non è attentato alla Costituzione
Non
so se c’è qualcuno che abbia tenuto il conto delle volte che Giorgio Napolitano
ha esorbitato dalle prerogative che gli sono attribuite dall’art. 87 della
Costituzione, ma a naso direi abbia stracciato ogni record. Si obietterà che l’ha
fatto in modo meno plateale di qualche suo predecessore al Quirinale, ma direi
che questa debba essere considerata una aggravante più che una attenuante. Si
potrà altresì obiettare che il suo costante esorbitare abbia trovato ragione di
necessità a fronte dei pericolosi vuoti lasciati dall’iniziativa politica dei
partiti, dallo stallo degli esecutivi a fronte di una crisi senza apparente via
d’uscita, dall’attività legislativa del Parlamento ridotta alla stanca e pigra
vidima della decretazione d’urgenza, eccetera, ma ammesso e non concesso che l’abbia
fatto coi migliori intenti – ripeto: ammesso e non concesso – è innegabile che
tutto il suo operato abbia avuto articolazione e disegno, attribuendosi con ciò
un ruolo che non gli spettava. Obiezione che in qualche modo include queste due
e rigetta le rispettive controbiezioni invocando in suo supporto una
fattispecie di dottrina è quella che richiama alla cosiddetta Costituzione
materiale: in pratica – si può obiettare – che il Presidente della Repubblica «rappresent[i]
l’unità nazionale» può intendersi nel senso che egli debba o comunque possa, se
vuole, operarsi nel darle l’assetto che gli sembri più stabile, che «indic[a]
le elezioni delle nuove Camere [che poi se vuole] può sciogliere» debba o
comunque possa intendersi nel senso che tale facoltà possa avere funzione di
indirizzo dell’attività legislativa, che a lui spetti «promulga[re] le leggi ed
emana[re] i decreti aventi valore di legge» debba o comunque possa intendersi
nel senso che abbia diritto ad esprimere un parere vincolante in merito,
eccetera. È obiezione che con gli adattamenti del caso è stata ripetutamente
sollevata per ogni altra figura istituzionale, quasi sempre con fine dichiarato
di rendere più elastica la lettura della norma costituzionale, come per attualizzarla
senza sottoporla ad emendamento formale. Bene, non è stato proprio questo a creare
aree di sovrapposizione tra i poteri dello Stato che hanno legittima forza solo
quando sono correttamente distinti? E non è stata proprio questa eccessiva
elasticità a creare quei vuoti di responsabilità che hanno così spesso portato
al collasso dell’architettura istituzionale? Se oggi a questo vero e proprio
dissesto si cerca di porre un rimedio con riforme costituzionali che hanno la
pretesa di rattoppare un tessuto qui logoro e lì lacerato senza porsi alcun
problema sul fatto che la trama abbia ad esserne stravolta, per giunta su
iniziativa del Governo, a colpi di maggioranze non qualificate per una fase
costituente, e in fretta, e in forza di un’agenda che ha del surrettizio non
meno che dell’abborracciato, reclutando pacchetti parlamentari di nominati
sotto ricatto e minaccia, la responsabilità remota è di tutti, quella prossima –
e perciò efficace – è di chi ha condotto a questi passi sconsiderati. Se non è
attentato alla Costituzione – cos’è?
venerdì 18 luglio 2014
[...]
Se
la sentenza che lo condannava era politica, non si può escludere lo sia anche
quella che lo assolve. Se è fin troppo chiaro quale fosse il fine della sentenza
che lo condannava, occorre chiedersi quale sia quello della sentenza che lo
assolve. Dunque possiamo evitare di attendere le motivazioni che la Corte d’Appello
è tenuta a depositare entro i prossimi 90 giorni – daranno una lettura
diametralmente opposta a quelle della condanna in primo grado e, al pari di
quelle, saranno meramente funzionali al fine che oggi politicamente impone
altra lettura dei fatti di quell’ormai lontano 2010 – e passare a considerare
le ragioni politiche che hanno reso superflua la conferma della condanna o
perfino utile – sul piano politico, ovviamente – l’assoluzione odierna. Prima
di farlo, tuttavia, occorre chiederci cosa ci consenta di poter far nostra sia la
tesi che in questi anni è stata sostenuta da Berlusconi e dai suoi, e cioè che
la condanna fosse politica, sia quella che da domani in poi sarà a buon diritto
sostenuta da chi ci dirà che lo è stata anche l’assoluzione. Senza
contraddizione, peraltro, perché la politica ha occorrenze tutte contingenti, e
ovviamente mutevoli. Direi ce lo consenta la grande versatilità con quale la
magistratura legge gli atti: sempre gli stessi, ma lì a comprovare gravi reati
e qui a concludere non sussistano. La libera interpretazione, d’altronde, è
nella natura del giudizio. E sulla libertà, si sa, grava il rischio dell’errore.
In quanto all’errore, poi, è umano trovarsi ad esserne vittima o autore. Vai a
capire, così, se fu un errore condannare Berlusconi, allora, o non lo sia l’averlo
assolto, ora: impossibile cavare il ragno dal buco. Conviene rispettare le
sentenze, e questo è ovvio, ma anche evitare di commentarle, perché ogni
commento, positivo o negativo, finisce per essere, intenzionalmente o meno, un’opinione
politica. Ma non siamo nell’epoca in cui la politica dichiara con fierezza di
poter fare a meno delle opinioni per dover dare conto solo ai fatti? E allora
sia: ieri prevalevano le forze che volevano l’eliminazione politica di Berlusconi
per via giudiziaria, l’unica che si è rivelata efficace, e oggi prevalgono
quelle che gli concedono una via di fuga, in cambio di qualcosa. E non c’è bisogno
di pensare che la magistratura che oggi lo assolve sia organica a tale disegno,
come d’altronde non c’era bisogno di sospettare che quella che ieri lo ha
condannato fosse pedina del complotto ai suoi danni. Come diceva Gorgia: nulla
esiste; se esiste, non è conoscibile; se è conoscibile, non è comunicabile. Si
aggiunga: se è comunicabile, non è delicato.
Amor vincit omnia
Tale
è la quantità di cazzate che Marco Bona Castellotti riesce a stipare in poco
più di 3.500 battute spazi inclusi – parlo dell’articolo che firma per Il Foglio di mercoledì 16 luglio – che
viene un sospetto: avrà voluto divertirsi a pigliarci per il culo?
Scrive dell’Amor vincit omnia del Caravaggio e
attacca il pezzo con un aneddoto tratto da Le
vite de’ pittori messinesi di Francesco Susinno che potrebbe dare indizio
di «inclinazioni pedofile» del
Merisi, però afferma non ne costituisca prova. Perché citarlo, allora? Perché
allo Staatliche Museen di Berlino, dove è esposto il dipinto, «un gruppo di signori e signore tedeschi ne
hanno chiesto la rimozione con l’accusa di essere un’immagine che può
alimentare la pedofilia». Quand’anche l’alimentasse, dovrebbe indurci
almeno a sospettare che il Caravaggio fosse pedofilo? Di soggetti in età
prepuberale ritratti nudi è piena la storia dell’arte: la questione si solleva
anche per Il bagno del neonato di
Benozzo Gozzoli e per la Sacra famiglia
con San Giovannino di Andrea Mantegna?
Domande che oggi non hanno senso,
conviene consultare le fonti storiche per verificare se il dipinto del Caravaggio le
abbia sollevate in epoca anteriore a quella in cui la pedofilia ha cominciato
ad essere riconosciuta in quanto tale. Bene, c’è da constatare che non le abbia mai sollevate, e non è nemmeno difficile capire il perché: la nudità di un
fanciullo ha cominciato a scandalizzare solo da poco più di un secolo in qua. Quando
il Caravaggio si vedrà censurata la prima versione di San Matteo e l’angelo, il problema non era l’angelo prepubere seminudo
ma il santo con la faccia da rozzo contadino, per giunta coi piedi sporchi. Se la
Congregazione dei Palafrenieri gli rifiuterà la Madonna del serpe, non sarà per il Gesù sui sei-sette anni che lì è ritratto interamente
nudo, ma per gli abiti da pezzenti che stanno addosso alla Vergine e a Sant’Anna.
Alla Controriforma non dà alcun fastidio la nudità di bambini, ragazzi,
adolescenti o adulti, se si tratta di soggetti maschili: il problema si pone
solo per i soggetti femminili, uno per tutti valga l’esempio dei guai che capitarono ad Agostino Carracci per gli affreschi di Palazzo Farnese. C’è anzi
da rilevare che quando la nudità crea qualche problema, com’è nel caso in cui
si commissionano a Daniele da Volterra i mutandoni per le pudenda ritratte da
Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, la questione non tocca mai
soggetti in età prepuberale, e per una semplicissima ragione: il ragazzo nudo evoca sempre, o quasi, l’ideale di innocenza, non sollecita mai reazioni di scandalo, perché in
pratica è considerato un essere asessuato. E per l’Amor vincit omnia abbiamo una prova diretta in ciò che scrive il
cardinale Federico Borromeo nel suo De
pictura sacra: nulla da ridire sull’inverecondia del soggetto, si limita a biasimare l’eccessivo entusiasmo che l’impressionante realismo del dipinto provocava in
chi l’osservava.
Possiamo concludere che il dipinto abbia sempre turbato chi avesse modo di osservarlo, ma mai perché solleticasse un’invereconda prurigine. E allora come salta in testa a uno studioso d’arte come Marco Bona Castellotti di tirare in ballo la pedofilia? Sarà mica perché il Caravaggio era omosessuale? Sarebbe prova che al professore ha fatto male l’assidua frequentazione coi ciellini. Tanto male da impedirgli di considerare l’idealizzazione della figura del fanciullo di cui il neoplatonismo ha lasciato segni per tutto l’Umanesimo e il Rinascimento. Ma questo non è tutto, perché Marco Bona Castellotti scrive che «il Giustiniani, nella sua galleria, teneva [il dipinto] coperto da un drappo, perché essendo il migliore dei quadri da lui posseduti, temeva oscurasse gli altri». Vero, ma il professore dimentica di dire che questo timore non fu mai del Giustiniani, ma di Joachim von Sandrart, che per qualche tempo fu il curatore della collezione. Ed è proprio dalle memorie del von Sandrart che abbiamo ulteriore conferma del fatto che nessun visitatore di Palazzo Giustiniani fu mai turbato dal dipinto, ed è da queste pagine che apprendiamo che non furono pochi, sicché è sconcertante che il professore scriva: «L’opera era di destinazione privatissima ed eventuali scandali non avrebbero mai oltrepassato i muri di Palazzo Giustiniani»; ancor più sconcertante che, dopo aver affermato che il soggetto sia «allusivo di sottaciute inclinazioni omoerotiche», il professore aggiunga che tuttavia sia «avventato supporre che [il dipinto] fosse una specie di emblema di una ristretta cerchia di omosessuali romani d’alto lignaggio, capeggiata dal marchese». Più che avventato direi non abbia alcuna base, e dunque perché farvi cenno? In quanto al fatto che l’Amor vincit omnia possa alludere alla potenza del desiderio omoerotico che infrange ogni freno morale, è evidente che al professore manchi la lezione di Maurizio Calvesi, che ha dimostrato con ampiezza e profondità di argomentazione che il soggetto sintetizzato nel motto latino è di chiara ispirazione al Cremona fedelissima città… di Antonio Campi del 1585, e altro non è che un’esaltazione dell’«Amor Virtuoso, cioè pur sempre di un amore sacro, divino», che ha la meglio sulle scienze e sulle arti (Caravaggio o la ricerca, poi in Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990).
Possiamo concludere che il dipinto abbia sempre turbato chi avesse modo di osservarlo, ma mai perché solleticasse un’invereconda prurigine. E allora come salta in testa a uno studioso d’arte come Marco Bona Castellotti di tirare in ballo la pedofilia? Sarà mica perché il Caravaggio era omosessuale? Sarebbe prova che al professore ha fatto male l’assidua frequentazione coi ciellini. Tanto male da impedirgli di considerare l’idealizzazione della figura del fanciullo di cui il neoplatonismo ha lasciato segni per tutto l’Umanesimo e il Rinascimento. Ma questo non è tutto, perché Marco Bona Castellotti scrive che «il Giustiniani, nella sua galleria, teneva [il dipinto] coperto da un drappo, perché essendo il migliore dei quadri da lui posseduti, temeva oscurasse gli altri». Vero, ma il professore dimentica di dire che questo timore non fu mai del Giustiniani, ma di Joachim von Sandrart, che per qualche tempo fu il curatore della collezione. Ed è proprio dalle memorie del von Sandrart che abbiamo ulteriore conferma del fatto che nessun visitatore di Palazzo Giustiniani fu mai turbato dal dipinto, ed è da queste pagine che apprendiamo che non furono pochi, sicché è sconcertante che il professore scriva: «L’opera era di destinazione privatissima ed eventuali scandali non avrebbero mai oltrepassato i muri di Palazzo Giustiniani»; ancor più sconcertante che, dopo aver affermato che il soggetto sia «allusivo di sottaciute inclinazioni omoerotiche», il professore aggiunga che tuttavia sia «avventato supporre che [il dipinto] fosse una specie di emblema di una ristretta cerchia di omosessuali romani d’alto lignaggio, capeggiata dal marchese». Più che avventato direi non abbia alcuna base, e dunque perché farvi cenno? In quanto al fatto che l’Amor vincit omnia possa alludere alla potenza del desiderio omoerotico che infrange ogni freno morale, è evidente che al professore manchi la lezione di Maurizio Calvesi, che ha dimostrato con ampiezza e profondità di argomentazione che il soggetto sintetizzato nel motto latino è di chiara ispirazione al Cremona fedelissima città… di Antonio Campi del 1585, e altro non è che un’esaltazione dell’«Amor Virtuoso, cioè pur sempre di un amore sacro, divino», che ha la meglio sulle scienze e sulle arti (Caravaggio o la ricerca, poi in Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990).
Ma
siamo solo a metà dell’articolo e il peggio ha ancora da venire. Eccolo: «Nel quadro, saggio di straordinaria abilità
mimetica, Caravaggio ha versato una dose abbondante d’ironia. A osservarlo bene
questo Amore stradaiolo, ridanciano e spudorato, ha un corpo disarmonico,
spiccando una certa sproporzione tra il braccio destro troppo corto, le gambe troppo
lunghe, la testa al limite dell’acromegalia, il busto tozzo. È impensabile che
l’insigne autore fosse incorso in errori anatomici; è invece probabile che
abbia provato diletto e soddisfazione nel volgarizzare qualche modello illustre».
Ora, a parte il fatto che da Bernardo Berenson in poi non si contano gli
studiosi che hanno segnalato i numerosi impacci che il Caravaggio mostra in
anatomia, mai come nel caso dell’Amor
vincit omnia le dette osservazioni sono fuori luogo. Procedendo, infatti, dai piani posteriori a quelli anteriori della scena, affiorano via via la spalla sinistra, la piega del gomito destro, l’avambraccio e la mano dello stesso lato, la parte superiore del torso, la spalla destra, il ventre, il volto, la gamba destra, il piede dello stesso lato, la coscia sinistra, la coscia destra e infine il ginocchio dello stesso lato: questa progressione dà ampia ragione della lunghezza dei segmenti, sicché le sproporzioni rilevate da Marco Bona Castellotti
risultano del tutto illusorie, mentre l’osservazione che in queste inesistenti sproporzioni
il Merisi abbia voluto metterci ironia, beh, lascia davvero senza parole. A margine, è da
rilevare che il professore non abbia la ben che minima idea di cosa sia davvero
l’acromegalia.
È
tutto? Niente affatto, perché il professore ravvisa che per l’Amor vincit omnia il Caravaggio «aveva attinto a una delle figure più
tragiche del “Giudizio Universale” di Michelangelo: il San Bartolomeo scuoiato,
con la pelle in mano, su cui è rimasto impresso il proprio ritratto deformato.
Un colpo di virtuosismo pittorico sensazionale». Qui di sensazionale pare
esservi soltanto un’affermazione che non poggia su alcuna fonte e non trova
alcun serio fondamento nell’analisi formale. D’altronde a questa affermazione
arriva grazie a un unico elemento che accomuna i due soggetti, seppure solo in
modo assai vago: la postura assunta dalla coscia sinistra. Trattandosi di una
postura che ritroviamo in mille altre opere d’arte, si potrebbe liquidare l’osservazione
come arbitraria e del tutto gratuita. Se è vero, infatti, che chi «vincit» è
spesso raffigurato con una coscia divaricata rispetto all’asse sagittale mediano del corpo e con un
ginocchio poggiato sul «victum», su cosa sarebbe «victor» il San
Bartolomeo michelangiolesco? Volendo a tutti i costi trovare un modello del
Buonarroti nell’Amor caravaggesco, perché non la Vittoria di Palazzo Vecchio? Il fatto è sul modello da cui il
Caravaggio ha attinto per raffigurare l’Amor proprio in quella postura c’è chi ha studiato il necessario per poter sennatamente dimostrare che si trova nei cartoni di Simone Peterzano, che del Merisi, guarda caso, fu il maestro.
In
quanto al fatto che Roberto Longhi abbia notato una somiglianza dei tratti
faciali tra il soggetto del quadro di cui stiamo discutendo e il Cristo della Cena in Emmaus, è vero, ma che valore
assume il rilievo che «entrambi i dipinti
furono realizzati nel 1602, il che vanifica l’ipotesi di una mutazione del
soma, determinata da un intervallo temporale»? «Se l’ignoto modello, per nulla ragazzino, fosse stato reclutato a
svolgere funzioni fra loro concettualmente lontanissime, significherebbe che il
pittore lo aveva voluto adattare ai differenti ruoli, invecchiandolo o
ringiovanendolo secondo la bisogna». E grazie al cazzo, c’era bisogno di precisarlo?
mercoledì 16 luglio 2014
Appunti per una «Psicologia del Supercazzola»
1. Fausto
Bertinotti ha di recente raccontato che Riccardo Lombardi dissuadeva dal rovistare nel
passato di un uomo giunto ad occupare una carica pubblica di rilievo, perché «anche un giovanotto crapulone – diceva –
può diventare un eccellente vescovo».
L’aneddoto è saltato fuori nel corso della presentazione di uno dei tanti
volumi – il quinto, se non ho perso il conto – che negli ultimi mesi sono arrivati
in libreria per spiegarci chi sia Matteo Renzi. Il consiglio del «Linge» (così
lo chiamava Gramsci) poteva andar bene per la Prima Repubblica, quando per
arrivare anche soltanto a un mezzo strapuntino nel Comitato Centrale del Pci o
nel Consiglio Nazionale della Dc era necessario il lungo apprendistato toccato
a Parsifal per farsi degno di accostarsi al Santo Graal. Col declino delle
tradizionali culture politiche italiane, col venir meno del principio che per
costruirti un piccolo feudo elettorale in Lucania dovevi aver studiato almeno
la Dottrina Sociale della Chiesa e per gestire la partita di giro tra le Coop e
le Botteghe Oscure dovevi come minimo aver seguito le lezioni di Paolo Spriano alle
Frattocchie, col sopravvento del cerone sulle rughe e della battuta spiritosa
sull’arzigogolo fumoso, con la rivoluzione che ha segnato il sopravvento dei
finti giovani sui finti vecchi, oggi basta una frangetta che faccia tenerezza al
Dario, due o tre comparsate televisive per sostenere il Pierluigi e sei pronta
a fare la vice del Matteo, al quale può bastare un brodo di coltura
neocatecumenale, un babbo da impresario e una faccia da social network per
esser pronto alla guida del governo. Non senza merito, sia chiaro, ma è che i
tempi cambiano, e coi tempi, ciò che dà merito: ieri era il darsi interamente
al proprio partito, oggi saperselo fare interamente proprio. In altri termini,
se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di
un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la
vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un
partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. Detto in modo ancora più brutale: se
ieri era il partito a dettare i precetti di un dover-essere che nel consenso
cercava di porre le fondamenta di una comunità per quanto più gli era possibile
(come più ampia pars possibile) e il leader era colui che li traduceva in un
modello, oggi è l’essere del leader che si offre alla più ampia pars possibile
di una comunità come modello cui ispirarsi per farsi partito di maggioranza.
Più brutalmente ancora? Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che
oggi è sintesi simbolica del leader. Rovistare nel passato del «giovanotto», allora, può dare ampia
spiegazione dell’operato del «vescovo»:
il suo episcopato non esprime più lo spirito di un’ecclesia che si dà il segno
del suo carisma, ma il modo in cui un’ecclesia cerca il suo spirito in quel segno, e il «vescovo» può dirsi «eccellente» solo quando questa ricerca trova soluzione. Se ieri, dunque, la psicogenesi di un leader era in tutto funzionale al ruolo che
gli avrebbe affidato il partito, oggi è il suo profilo psicologico ad
improntare il ruolo che egli dà al partito. Vien meno, in buona sostanza,
quella «rigidità di contrapposizione tra
psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse» che già nel
1921, «a una considerazione più attenta»,
per Sigmund Freud era solo apparente, giacché «la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per
essa non esiste l’inverosimile [e] pensa
per immagini [sicché] chi desidera
influenzarla non ha bisogno di argomentazioni»: basta che «le doti personali di costui corrispondano
alle sue aspettative» (Massenpsychologie
un Ich-Analyse).
2. Il limite più grosso di ogni tentativo fin qui fatto per
capire chi sia Matteo Renzi andando a rovistare nel suo passato è stato quello
di aneddotizzarne i tratti salienti per costruire un modello coincidente a una tipologia di personaggio: nulla mi pare sia stato seriamente fatto per un approccio di tipo psicologico alla personalità. Ritengo sia superfluo in questa sede rimandare a ciò che nel personaggio va perso della personalità, basti rammentare che il profilo psicologico di una persona dramatis è in tutto funzionale alla rappresentazione di un evento scenico, mentre il piano sul quale va in scena il drama personae trova teatro in tutt’altra dimensione (cfr. Maria Pia Arrigoni e Gian Luca Barbieri, Narrazione e psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore 1998 - in particolare, pagg. 101-115). Senza entrare nel merito di quanto questa semplificazione abbia sottratto alla possibilità di comprensione dei moventi primi che fanno dell’attore (in senso stretto) una maschera (in senso lato), mi limiterò a darne un esempio. Nel corso di un talk show andato in onda su La 7 lo scorso 27 febbraio una antropologa, la professoressa Amalia Signorelli ha detto: «Mi pare che il carattere predominante nel carattere di Renzi sia il suo tirocinio di boyscout», e ha spiegato che tutto l’armamentario di «vestiti, borracce, zaini, coltelli, cappelli speciali e tutto il resto» che quel corpo ritiene necessario «per convincersi che una gita su una collina alta non più di mille metri sia simile a una spedizione nella foresta dell’Amazzonia» rivela una forma di esaltazione che può sennatamente dirsi ridicola. Considerazioni da antropologo, appunto. Nulla che vada più in là del profilo psicologico che accomuna tutti i boyscout. In questo caso, viene meno l’analisi in un fattore come l’empowerment, che è basilare nella formazione dello scout. La notazione, peraltro acuta, perde così specifico nella psicogenesi del leader con Io ipertrofico ed esasperato bisogno di controllo delle attività dei gregari. Basterebbe un cenno ai lavori di Julien Rapaport e Marc Zimmerman o, per citare uno studio in italiano, il contributo essenziale di Gian Piero Quaglino (cfr. Scritti di formazione 1976-2006, vol. IV, Franco Angeli Editore 2007), accostando tali dati alle tracce autobiografiche disseminate nelle numerose interviste rilasciate negli ultimi anni. Per questo aspetto, come per altri, quella che maggiormente offre spunti di diagnosi è senza dubbio quella rilasciata a Michele Cucuzza e poi raccolta con altre in Sotto i 40 - Storie di giovani in un paese vecchio, Donzelli 2007 (pagg. 51-66): «Tra i diciassette e i vent’anni, l’età in cui vuoi dare un calcio al mondo e hai fiducia in te stesso forse in eccesso, ho capito quanto fosse importante [...] il cogliere la soddisfazione dell’avanzata passo dopo passo, più che il conseguimento della meta in sé». Il muoversi per muoversi, il fare per fare, per la mera gratificazione che se ne può trarre. E così per un altro capitolo del romanzo di formazione, che rivela un altro tratto nel processo di fissazione che, vedremo, è l’elemento psicopatologico di contesto: l’esaltazione nella decisione rapida, rivelata nella descrizione dell’esperienza di arbitro di calcio: «Fare l’arbitro significa che devi decidere. Lo devi fare in una frazione di secondo, senza possibilità di delegare ad altri. Devi avere grande autocontrollo, serenità e capacità di dialogo, ma quando hai deciso, hai deciso». In questo caso, come in quello precedente e in quelli che analizzeremo successivamente, non mette conto dare per attestate in Renzi le virtù dello scout e dell’arbitro di calcio per quelle che sono, ma per come sono descritte. Il passaggio dalla trama aneddotica alle tappe della psicogenesi si ha nel tradurre l’esperienza nel suo narrato, per procedere da questo a ciò che esso implica come costruzione dell’ideale dell’Io (qui inteso nel senso in cui Janine Chasseguet-Smirgel l’ha posto in relazione alla «malattia dell’idealità» - cfr. Raffaello Cortina Editore 1991).
[segue]
martedì 15 luglio 2014
[...]
Non
fosse sempre stata guastata dal palese intento di infierire sul cadavere del comunismo, la
revisione storica che fa della Resistenza un affresco in cui si affollano,
furiosi, solo vili e fessi, tutti affratellati, seppure irriducibili nemici, da
miserabili interessi, non ultimo quello di salvar la pelle, che in fondo,
quando si millanta vocazione eroica, è il più miserabile di tutti – non
fosse mossa da mera fregola iconoclasta, insomma – la revisione storica della
Resistenza avrebbe l’indubbio pregio di rammentarci che, fatte salve le anime
belle che della partita in gioco regolarmente finiscono per capir poco o
niente, riuscendo tutt’al più a immortalarsi in tragici cammei, gli italiani
non son tagliati per l’epica, se non per quella che si declama quando è il momento
del brindisi, quando si è già un pochino alticci. Nell’immaginarsi un finale di partita coi berlusconiani
all’assalto del Palazzo di Giustizia, per esempio, Nanni Moretti voleva darci il
brivido della guerra civile, e in un buona misura ci è riuscito, ma eccolo lì, il popolo dei fedelissimi che per
Silvio Berlusconi giurava avrebbe versato fino all’ultima goccia di sangue:
Dudù, la Santanchè e il poco che resta della servitù, peraltro molto anemica. O
forse sarà stata una scaramanzia, quel chiudere Il Caimano con sì fosco
presagio di torbidi e lutti e pianti a straziare il paese. O forse – perché no
– sarà stato un peloso concedergli l’onore delle armi: ti ritraggo da tiranno, e con piena dignità di tiranno, così il tuo fallimento politico sembrerà un vero tirannicidio. Sono i brutti tiri che gioca la retorica, perché pare che pure
Benito Mussolini abbia implorato gli salvassero il culo, e in cambio avrebbe
dato tutto quello che poteva: robe che non avrebbero fatto onore né ai fascisti
né agli antifascisti, e allora andasse in scena – secondo il punto di vista che
offriva la poltrona in platea – il «pietà l’è morta», il «giustizia è fatta!», il
«così va il mondo», ecc.
Sic stantibus rebus, la sentenza d’appello sul
cosiddetto caso Ruby corre il serio rischio di essere degradata alla scivolata su una merda. Il sangue, ancora una volta manca il sangue.
venerdì 11 luglio 2014
[...]
Chi
fruga nell’altrui intimità con la disinvoltura di chi ha ottenuto un diploma di
psicologo grazie ai punti della spesa fatta alla Lidl dovrebbe esser disposto a
concedere pari licenza a chi voglia frugare nella sua. Mi auguro che Mario
Adinolfi voglia perciò permettermi una domanda a margine del post in cui
scandaglia l’animo del figlio che Sherri Shepherd «aveva acquistato con il meccanismo dell’utero in affitto», per poi
«rifiutarlo», per sostenere con la
sicurezza di chi coi punti restanti s’è portato a casa pure un diploma in pedagogia
e una pratica pirofila con presa ignifuga che per il pargolo si prospetta un sicuro destino da
infelice (segue appuntamento per il tal giorno, alla ora x, «per combattere i retrogradi che vogliono
portarci a due millenni fa, quando le persone erano cose»); e la domanda è questa:
essere concepiti senza il ricorso a queste diavolerie mette al riparo dal
sentirsi «non voluto più da nessuno» e
«lasciato nella solitudine» anche
solo un po’ di più che ad essere stati concepiti ricorrendovi? Per meglio dire:
sulla base di quali dati statistici si può trarre questa convinzione? Oppure: non
si può essere abbandonati anche da genitori che ti hanno concepito secondo natura? Di più: non ci si può
sentire abbandonato, rifiutato, anche senza mai esserlo stato nel modo in cui è
toccato al figlio di Sherri Shepherd? E allora: con quale ottusa determinazione
si può affermare che «in tutto questo
delirio molto americano, c’è un essere indifeso, solo, che sta per nascere
nella desolazione totale»? Non è meglio nascere comunque, come afferma chi è
contro l’aborto? La vita non vale la pena di essere vissuta comunque, come
afferma chi è contro l’eutanasia?
Visto, Adino’?
Dalla premessa avrai temuto che stessi per tirare in ballo il suicidio di tua
sorella, concepita come si deve, ma per delicatezza mi sono trattenuto, anche se ti confesso che l’intenzione c’era. È che sotto
casa ho la Carrefour e non raccolgo punti.
giovedì 10 luglio 2014
In buona evidenza
Si immagini un Parlamento in cui il 55% degli
eletti corrisponda al 37% dei votanti per il partito che li candidava in una
lista bloccata. Niente preferenze, il loro posto in lista l’ha scelto chi è
padrone di quel partito, che col 37% dei voti va dritto dritto alla guida del
governo. Con un Parlamento in cui la maggioranza assoluta è composta di uomini
che ha scelto lui, e che non saranno ricandidati se non gli mostreranno cieca obbedienza,
si confeziona le leggi che vuole, e con ciò potere esecutivo e potere legislativo
vanno a finire nelle stesse mani, le sue. Non basta, perché con una riforma
della giustizia che così avrà modo di costruirsi come cazzo gli pare non avrà
difficoltà a limitare autonomia e indipendenza della magistratura, rendendola
soggetta ai suoi voleri.
Dovrà ritoccare la Costituzione? Ne avrà la
forza. Quand’anche non ne avesse a sufficienza, avrà una Corte Costituzionale
che per un terzo sarà composta dai membri scelti dal suo Parlamento e per un
terzo da quelli scelti dal Presidente della Repubblica che si sarà eletto a suo piacimento,
perché col 55% dei seggi alla Camera (340 su 630) gli basterà poco più un terzo
del Senato che avrà provveduto per tempo a riformare come cazzo gli pare per
mandare al Quirinale chi più gli possa tornar comodo: 10 membri su 15 della
Corte Costituzionale vidimeranno ogni sua porcata.
Superfluo dire che di
contorno sarà necessario il controllo della comunicazione televisiva, il placet
della finanza, forze di opposizione ricattabili se non velleitarie e
irrilevanti, ma soprattutto un popolo da lungo tempo degradato a plebe. Mi pare che non manchi niente.
In buona evidenza, non c’è più bisogno di un
colpo di stato per avere una dittatura. Dittatura, poi, è termine che ormai provoca l’eczema anche a chi ha una pellaccia:
meglio dire post-democrazia. Idem per colpo di stato, espressione così desueta
che quasi ha un che di romantico. Meglio dire, come d’altronde il battage
propagandistico non smette di ripetere, che serve governabilità e stabilità, fanculo
a gufi e parrucconi.
In buona evidenza, non c’è più bisogno di un grugno truce
da colonnello per dichiarare lo stato di emergenza: esecutivo, legislativo e
giudiziario possono finire nelle mani di uno solo anche se si ritrova la faccia
da cretino, basta non gli facciano difetto lo scilinguagnolo e i modi spicci.
Se poi si tratta di uno che non ha perso tempo a rovinarsi gli occhi sui libri,
ma l’ha proficuamente impiegato a imparare il know-how del venditore, basta ne
imbrocchi due o tre di quelle furbe e riesce in niente a costruirsi una squadra
di leccaculo e di sciacquette a drogarlo di autostima. Nel venire a galla, la merda acquista abbrivio.
Voilà, l’«orribile
dispotismo» che Montesquieu descrive ne De
l’esprit des lois (XI, 6), e senza alcuna speranza che il despota si
ritrovi una spanna di lama in pancia.
venerdì 4 luglio 2014
Corrispondenze
Malvino,
so che questo non è un jukebox, ma non riesco a non esprimere il vero desiderio
di leggere un suo commento sull’ultima uscita dell’amico Adinolfi, a commento
della foto che ritrae i due padri che in Canada prendono in braccio la “loro”
bambina in sala parto.
Davvero,
non lo dico riferendomi alla sicura ironia che quel nome genera, ma realmente
rispetto all’immagine in sé di fronte alla quale non riesco a sentirmi su una
posizione che mi appaia chiara e in questi casi le sue direzioni sono spesso d’aiuto.
Lo
chiedo a lei perché medico, perché espositore chiaro quando il tema è quello,
perché padre, perché non cattolico e solo alla fine perché abile ironico quando
di Adinolfi si tratta.
Per
dire che quell’ultima parte può anche non esserci, la mia è davvero la
richiesta di una possibile direzione, perché quella foto mi lascia in una
condizione sospesa che non mi capita spesso e per questo non le chiedo una
lettura della foto ma del perché possa lasciare sospesi, cosa di quella foto
impedisce o rende difficile una lettura unica e sicura.
Il nodo
è la questione del primo contatto di pelle che quella foto racconta.
Non
riesco a dirlo giusto ma non so perché, essendo intimamente sicuro di non
essere a rischio di qualsiasi forma di omofobia.
Parlo
proprio di simbiosi biologica corpo madre-corpo figlio.
È davvero solo un problema etico?
È davvero solo un problema etico?
Bruno
A mio modesto avviso, lei si fa troppi scrupoli: “condizione sospesa” è una carineria, dica “disagio”, ché non fa differenza. Ora, nel pormi la questione, lei implicitamente mi chiede se io senta un analogo “disagio”, dando per scontato ch’io non possa non sentirlo, salvo congrua spiegazione del perché non lo senta. In pratica, dà per assodato che la foto debba provocarlo, e per ragioni autoevidenti, mentre è il fatto che non lo provochi a rendere necessaria una spiegazione. Superfluo chiedersi il perché: la situazione ritratta nella foto le sembra più o meno palesemente “innaturale”.
E qui, consenta, siamo alle solite: siamo al cosa
sia “natura”, se una realtà che sta prima e sopra l’essere umano o la
particolare idea che si coltiva di sé, degli altri e delle cose tutte, idea
che, pur lentamente, è soggetta a ineluttabili cambiamenti, spesso con veri e propri salti.
E non c’è dubbio che, a considerare la riproduzione umana in tutti i suoi
aspetti come qualcosa che sta prima e dopo l’uomo, la foto può provocare un
certo disagio. “Un certo disagio”, perché in fondo il neonato è per metà dell’uomo
che commosso lo stringe al seno. Di fatto, egli è un padre. E allora cos’è che
rende la foto “innaturale”? È il fatto che la donna che ha partorito quel
neonato è l’altro genitore biologico, ma qualcosa ci informa che non sarà lei ad allevarlo: al suo posto ci sarà il compagno del
padre biologico.
È condizione che in “natura” avviene non di rado, ma qui
scatena l’ampia gamma di reazioni che va dalla perplessità allo sgomento, e la “simbiosi
biologica corpo madre-corpo figlio”, come la chiama lei, diventa l’immagine di
un principio che qui pare violato. Prim’ancora di rimarcare che
questa “simbiosi” cessa con la recisione del cordone ombelicale, c’è da
ribadire che paternità e maternità sono “anche” questione biologica, ma questa
non le esaurisce, né esse cadono al cadere di quella.
È che col matrimonio sta
accadendo quello che è avvenuto col patrimonio: il termine comincia a includere
altri modi di essere marito e moglie, padre e madre. Turba, mi rendo conto, ma
è impossibile far resistenza, se non nella speranza di frenare un po’, per quel
che può tornare di rassicurante nell’illudersi di impedirlo, invece che a pensare come dargli adeguato quadro normativo. E per adeguato non intendo atto a renderlo tollerabile, ma ragionevolmente accettabile.
Per questo come per altro, siamo alla resa
dei conti - tanto più drammatica perché tocca i fondamentali - tra il
creaturale e il culturale, e il primo sembra spacciato. A posteriori, la stagione delle “guerre culturali” attorno alle “questioni non negoziabili” era il colpo di coda di un animale che già agonizzava. Mancherà solo a chi piace polemizzare per polemizzare.
giovedì 3 luglio 2014
mercoledì 2 luglio 2014
[...]
Riprendo
da ciò che ho scritto una ventina di giorni fa: «La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la
politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne
in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura
mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete
di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un
partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare
un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in
grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico
che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo
elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa
di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi
pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come
rappresentazione di un’unità di intenti».
Se
le cose stanno a questo modo, non è più possibile alcuna difesa argomentata di
una posizione politica, ma solo esprimere il proprio gradimento in favore del
suo succedaneo. Ugualmente, il confutarla sarà giocoforza surrogato in un
giudizio di carattere eminentemente estetico: viene meno ogni fondamento al
potersi esprimere con la formula «condivido/disapprovo»,
e a disposizione resta solo il poter dire «mi
piace/non mi piace». È in questo che si rivela il tratto essenzialmente
autoritario di una società che al confronto tra quei diversi, opposti,
irriducibili «complessi di credenze,
opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale»
(Treccani), che chiamavamo «ideologie»,
sostituisce la rappresentazione di patterns estetici alla quale si è chiamati
per dare o no il proprio «like»: dall’appartenenza
a un gruppo sociale, a una classe, ad un partito, fondata sulla condivisione di
una Weltanschauung, si passa all’inerenza che separa una platea in settori di
gradimento, e il cittadino si trasforma in spettatore.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre.
martedì 1 luglio 2014
[...]
«Sono
sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto
con l’affermazione progressiva delle idee», così John
Maynard Keynes in Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta (Utet, 2005 - pag.577). Ed è espressione di fiducia nel progresso che non tiene dovuto conto del fatto che gli interessi costituiti riciclano costantemente le idee che li hanno resi tali. Talvolta a muoversi è il paesaggio, anche sfrecciando, ma il treno resta fermo: chi ci finisce sotto, in pratica, ci si infila risucchiato.
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