mercoledì 2 luglio 2014

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Riprendo da ciò che ho scritto una ventina di giorni fa: «La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come rappresentazione di un’unità di intenti».
Se le cose stanno a questo modo, non è più possibile alcuna difesa argomentata di una posizione politica, ma solo esprimere il proprio gradimento in favore del suo succedaneo. Ugualmente, il confutarla sarà giocoforza surrogato in un giudizio di carattere eminentemente estetico: viene meno ogni fondamento al potersi esprimere con la formula «condivido/disapprovo», e a disposizione resta solo il poter dire «mi piace/non mi piace». È in questo che si rivela il tratto essenzialmente autoritario di una società che al confronto tra quei diversi, opposti, irriducibili «complessi di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale» (Treccani), che chiamavamo «ideologie», sostituisce la rappresentazione di patterns estetici alla quale si è chiamati per dare o no il proprio «like»: dall’appartenenza a un gruppo sociale, a una classe, ad un partito, fondata sulla condivisione di una Weltanschauung, si passa all’inerenza che separa una platea in settori di gradimento, e il cittadino si trasforma in spettatore.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre. 

1 commento:

  1. Con la pervasività e sofisticazione raggiunte dalle tecniche di manipolazione e sondaggio della pubblica opinione, la democrazia rappresentativa è ridotta a distraente rappresentazione.

    È tempo di pensare a nuove forme politiche. Viene in mente la saggezza della folla (e in particolare la peculiare esperienza di Wikipedia). Ovviamente non ci si può aspettare che i politici di professione lavorino al superamento della loro funzione. Si può sperare che almeno la ricerca accademica e gli intellettuali producano delle ipotesi funzionali e che queste trovino terreno sperimentale senza troppi danni prima che lo zeitgeist possa selezionarne una sulle altre.

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