venerdì 29 novembre 2013

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Federico Perna aveva 34 anni, soffriva di disturbi psichici, epatite C, cirrosi epatica e coagulopatia. È morto tre settimane fa nel carcere di Poggioreale, dove era rinchiuso ventidue ore al giorno in una cella di dodici metri quadrati insieme ad altri dieci detenuti. Sputava sangue da una settimana, dicono. Dicono che il suo avvocato avesse presentato in tre occasioni dei referti medici attestanti la sua incompatibilità con lo stato di detenzione in carcere, tutti respinti dai magistrati di sorveglianza.
Questa, la notizia? Macché, si tratta solo del 146° morto nelle carceri italiane dall’inizio di quest’anno. La particolarità di una morte uguale a tante altre, qui, sta nel fatto che la madre di Federico Perna ha detto, e pubblicamente: «Mio figlio è morto perché non avevo il numero della Cancellieri», con la patente insinuazione che linteressamento mostrato dal ministro della Giustizia nei confronti di Giulia Ligresti sia stato di favore. In pratica, ha rimesso in discussione l’onore della Cancellieri: la notizia è che stavolta la Cancellieri tace.

giovedì 28 novembre 2013

«E che ve site perso!»


Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto, nel 1987, un pensiero andò ai nonni morti dopo averlo sognato invano per una vita intera, e allora qualcuno – un poeta, senza dubbio – stese uno striscione sul quale c’era scritto: «E che ve site perso!».
Ieri sera m’è tornato in mente pensando a Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giuseppe D’Avanzo.   


In difesa del maramaldeggiare


Se la qualità che vuole esprimere è pars pro toto di un individuo realmente esistito, e in effetti è questa la sua pretesa, quasi mai l’antonomasia regge all’onesto giudizio in sede storica,  perciò è figura retorica che andrebbe evitata, tanto più perché didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella delle sfumature che la rendono umana: in pratica, la qualità acquista la fissità di una maschera dietro la quale il personaggio storico è costretto a interpretare una parte che raramente è quella sua.
Se tradisce il portato, d’altronde, l’antonomasia tradisce anche il portante: quel che si addebita a La Palisse, ad esempio, si deve solo all’errata lettura della sua lapide tombale, e Vespasiano si limitò solo a tassare l’uso degli orinatoi pubblici che esistevano già da lungo tempo, e Pigmalione non era affatto uno scultore, ecc.
La sorte più emblematica, però, è quella toccata a Fabrizio Maramaldo, diventato antonomasia del vile che infierisce sull’inerme che ha subìto una dura sconfitta o comunque versa in gravi difficoltà. La fama – l’infamia, per meglio dire – gli viene dalla storiella messa in giro da Paolo Giovio, un pretastro sulla cui affidabilità di storico oggi si storce il muso, e che per tutta la sua vita fu a servizio di potenti contro i quali Maramaldo si era trovato in campo avverso: è nella sua Historia sui temporis che la si legge per la prima volta, senza alcuna indicazione della fonte.
Di fatto, pare che la storiella non trovi alcuna conferma: Francesco Ferrucci non sarebbe stato affatto ucciso da Maramaldo, ma da Alessandro Vettori, per giunta non dopo essere stato catturato e disarmato, ma in battaglia, mentre è accertato che invece fu il Ferrucci a macchiarsi di un’azione abominevole, uccidendo un messo inviatogli da Maramaldo con l’invito alla resa, un inerme tamburino.
A ciò deve aggiungersi che sono innumerevoli gli attestati di stima che Maramaldo raccolse dai suoi contemporanei e, sebbene fosse un mercenario, negli scritti coevi lo troviamo ripetutamente onorato come soldato di valore e tra i migliori gentiluomini dei suoi tempi. Tra quello dei posteri, invece, va segnalato il giudizio di Antonio Gramsci: «Storicamente può e deve essere sostenuto […] che Maramaldo possa essere stato un rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente un retrivo» (Quaderno VI).
E tuttavia, sappiamo bene, ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza. Se sul piano storico, dunque, la questione rimane aperta solo sull’intenzionalità o meno della diffamazione messa in giro da Giovio, su quello relativo al narrato dal quale attinge la retorica, rimane «maramaldo» – comprensibile rimanga – chi infierisce su un inerme, e l’Historia sui temporis fa testo nel dare forma e sostanza al termine. Qui leggiamo che Maramaldo, prima di sgozzare Ferrucci, gli chiede: «Pensasti mai dovermi venir nelle mani quando crudelmente e contra l’usanza della guerra tu impiccasti il mio tamburino a Volterra?».
Nel caso, dunque, saremmo dinanzi a un «maramaldeggiare» che è punizione di chi ha commesso una turpitudine. Turpe anch’essa, senza dubbio, ma meno odiosa di quanto ci era fin qui sembrata.   

lunedì 25 novembre 2013

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Ci saranno gli estremi del reato di vilipendio del capo dello stato in ciò che Sallusti scrive oggi su il Giornale? L’obbligatorietà dell’azione penale (art. 50 c.p.p.) solleva il caso, la pena sarebbe tra uno a cinque anni di reclusione (art. 278 c.p.), ma ovviamente il capo dello stato potrebbe commutare la pena in sanzione pecuniaria (art. 87 cost.), come ha già fatto, e proprio con Sallusti. Sarebbe un altro giro di valzer.  

domenica 24 novembre 2013

Precedenti

Madonna mia, come piove, oggi!

C’è una particolare forma di ricorso all’autorità, inteso come fallacia argomentativa, che consiste nel dimostrare insostenibile una tesi trovata non pienamente dimostrata in chi se ne faccia autorevole sostenitore. In pratica, si tratta del ricorso ad un difetto dell’autorità che sostenga quella tesi nel tentativo di dimostrare come vera quella opposta. Ora noi sappiamo che argomentare è uno strumento di persuasione e che il fine di persuadere può servirsi di ogni mezzo, retto o scorretto, valido o invalido. Non ci dobbiamo stupire, quindi, se questa particolare forma di fallacia sia pratica comune di chi sostiene tesi opposte riguardo a questioni di consistente rilevanza. Ma forse è meglio ricorrere a un esempio per penetrare il movente psicologico che spinge all’uso di questo strumento retorico, e io penso che la secolare disputa sull’esistenza di Dio sia quello migliore.
Così, chi crede che Dio non esista riterrà argomento estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole assertore della sua esistenza, anche laddove questo difetto si manifesti in una più o meno palese incongruenza tra il dire e il fare: è il caso in cui si tenta di dimostrare che Dio non esiste perché il tal gran teologo va a puttane o perché la tal pastorella che ha visto la Madonna mostra franchi sintomi di psicosi. Di converso, chi crede che Dio esista riterrà argomento estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole assertore della sua non esistenza. Qui, però, la casistica si apre in un ventaglio assai più ampio: si va dal ritenere dimostrato che Dio esista con la conversione in punto di morte di chi per una vita intera è stato autorevole sostenitore della sua non esistenza, ma pure per il fatto che ancora in vita, sbattendo con lo stinco contro un tavolino, una volta abbia esclamato: «Per Dio!».
Bene, suppongo non occorra produrre documentazione per asserire che, mentre è sempre più raro da parte degli atei il ricorso a questa fallacia, da parte dei credenti è diventato un vero e proprio sport. Ormai sono decenni che intere squadre di esaltati in missione per conto di Dio passano al setaccio le biografie e i testi dei più prestigiosi senzadio della storia alla ricerca, se non della pepita d’oro di una fede inconscia da far splendere ripulendola del fango nel quale era immersa, almeno della scaglia di quarzo che con la luce giusta, vista di sguincio, possa sembrare, se non fede, un suo embrione. È qui che il movente psicologico cui facevo cenno prima si rivela nella sua pienezza, perché in fondo l’ateo che ritiene di poter dimostrare che Dio non esista compilando elenchi di papi sifilitici o di mistici intossicati da pagnotte di segala contaminata da Claviceps purpurea è figura eroica di tempi ormai andati, più unica che rara, mentre invece il credente che ritiene di poter dimostrare l’esistenza di Dio nelle più diafane sfumature di fede intravviste in pensieri, parole, opere e perfino omissioni di famosi miscredenti è tuttora militante in servizio permanente, e lo si trova lungo tutto il carotaggio del pluristratificato mondo cattolico, dal cardinale che sembra un Bacio Perugina, per come è sempre avvolto nel cartiglio di una citazione, al blogger che per testata ha il santino di Padre Pio, e cerca di dimostrarti che in Zarathustra c’è tantissimo di San Giovanni Battista. Con una così ampia campionatura il lavoro è agevole e il risultato non fa fatica ad essere acquisito: il movente psicologico del credente che si prefigge di dimostrare che anche l’ateo – in fondo, in fondo, in fondo – ha fede è quello di esorcizzare ogni suo dubbio e, in generale, fare del dubbio un corollario della prova ontologica di Sant’Anselmo.
Secondario, ma non meno pressante, è il tentativo di neutralizzare l’opinione corrente, a dispetto del revival del sacro, che la fede sia il vicolo cieco in cui va a rifugiarsi la ragione che non ha risposte da dare al mistero, che d’altronde non le pone, perché muto e sordo. È opinione corrente che ha contaminato anche i cattolici, e anche quelli più attrezzati, al punto che ormai alla teologia dogmatica preferiscono la precettistica morale. Capita anche a loro, in qualche modo, quello che capitò ai neofascisti quando divenne egemone la cultura marxista: rimanevano neofascisti, ma si dibattevano come mosche nella ragnatela del materialismo dialettico. Da questo punto di vista, potremmo dire che il fronte più avanzato della secolarizzazione sta proprio in chi vi si oppone.
Ma qui divago, peraltro questo è tema che ci porterebbe lontano, cioè dentro quel cattolicesimo che – mi si conceda il paragone – ormai non è più Oriente di quanto non lo sia l’orientalismo. Torniamo a noi, dunque.
Torniamo a chi ritiene di poter dimostrare che Dio esista (in subordine: che non esista, ma sia necessario) rintracciandone un qualcosa (e non importa cosa) in atei dichiarati, anche se il lavoro è più agevole con gli agnostici o con quanti, pur avendo dichiarato in vita di non credere in Dio, abbiano lasciato traccia di un ruttino metafisico, d’un qualsiasi senso del sacro che possa manipolarsi in una pur incompiuta forma di agnizione del divino, d’un «Madonna mia, come piove, oggi!». Non importa cosa fossero in vita, l’importante è che siano famosi, per farsi esemplari, e via a pettinarne le chiome nella speranza di trovare il Gran Pidocchio. Lena uguale e contraria che si osserva in chi ritiene che la legittimità della scelta omosessuale si faccia più legittima nell’elenco di famosi omosessuali come Socrate, Leonardo, Michelangelo, ecc. Così nel caso de Il Foglio, che, dopo Camus e Lacan, ieri ci provava con Sciascia. Il quale, a onor del vero, si è fatto lavorare assai più malleabilmente.
«Ho sempre pensato che non è facile essere atei, totalmente e rigorosamente atei»: se era difficile per lui, con quale ottusa arroganza puoi dichiararti tale, tu? «Mi sento cristiano, checché ne dicano i preti»: detto come l’avrebbe detto Benedetto Croce, ma, insomma, fa brodo. Voilà, pur sempre in qualcosa credente, «lo scettico Sciascia». Hai voglia a dire che «c’è un solo, vero e fervido segno di religiosità, di religione che mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza della pace»: anche in quelli, gratta e gratta, non può esserci che Dio.

venerdì 22 novembre 2013

Perdindirindina

«Mio figlio riceve l’offerta di lavoro da Fonsai il 25 maggio 2011 e nel successivo mese di giugno inizia il suo rapporto di lavoro con la stessa società. In quel periodo io avevo già cessato le funzioni di commissario straordinario presso il Comune di Bologna ed ero una tranquilla signora in pensione che mai avrebbe pensato di poter diventare ministro dell’Interno nel successivo governo», così Anna Maria Cancellieri in un passaggio del discorso da lei tenuto in Parlamento, lo scorso 5 novembre. Ancorché implicito, l’argomento sembra forte: perché i Ligresti avrebbero dovuto fare un favore al figlio se in cambio non potevano più avere nulla dalla madre, ormai avviatasi a lasciare ogni carica pubblica?
L’argomento, in realtà, è davvero forte ad una sola condizione: che tra il maggio e il giugno del 2011, pochi mesi prima che Mario Monti la mandasse inaspettatamente al Viminale, Anna Maria Cancellieri considerasse davvero chiusa la sua carriera e non nutrisse più alcuna ambizione a ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti di quelli ricoperti fino ad allora.
Bene, sembra che le cose non stessero affatto a questo modo, perché il comunicato del 20 novembre 2013 col quale il portavoce di Anna Maria Cancellieri si precipita a smentire le dichiarazioni fatte da Salvatore Ligresti nel corso dell’interrogatorio del 15 dicembre 2012 presso la Procura di Milano, si legge: «È surreale pensare che abbia potuto chiedere un interessamento per rimanere a Parma, potendo ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti».
Non si capisce, insomma, se poco prima d’essere chiamata a fare il ministro dell’Interno, quando era ancora commissario prefettizio di Parma, si sentisse davvero a fine corsa, come diceva due settimane fa, o invece, come dice oggi, corresse ancora, e di gran voglia, e con grandi aspettative. Anche su questo punto, perdindirindina, il caso Cancellieri sembra voler trovare soluzione solo nellambiguità.

mercoledì 20 novembre 2013

Sulla superficie della bistecca

Se regge la versione che Anna Maria Cancellieri ha dato riguardo a ciò che ha fatto per Giulia Maria Ligresti, non si capisce perché non possa reggere quella che Salvatore Ligresti ha dato riguardo a ciò che ha fatto per Anna Maria Cancellieri. Al pm che lo interroga il 15 dicembre 2012 nell’ambito dell’inchiesta Fonsai, e che gli chiede: «Le è capitato di segnalare qualcuno all’autorità politico-amministrativa?», Salvatore Ligresti risponde: «Mi feci latore presso Silvio Berlusconi del desiderio dell’allora prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione». Anna Maria Cancellieri la definisce «ricostruzione senza fondamento», dopo aver preteso ed ottenuto che la sua ne avesse uno, e francamente questo non è bello.
C’è o non c’è ’sta benedetta amicizia pluridecennale tra la sua famiglia e quella dei Ligresti? E non è amicizia vera? Via, il vero amico non si vede nel momento del bisogno? E cos’è stata, quella di Salvatore Ligresti, se non una innocente manifestazione di amicizia? Sai che la tua amica ha bisogno di un favore, ti trovi a parlare con uno che può farglielo, e che fai, non glielo chiedi?
Sì, ci sarà chi obietterà che si è trattato di un favore tra potenti, che di per sé implica condizione di privilegio, e che il privilegio è in radice un abuso, e bla bla bla. Ma guardiamoci nelle palle degli occhi: è obiezione valida solo nell’iperuranio della norma disincarnata. Che vogliamo, vietare ai potenti di coltivare amicizie? Peggio: vogliamo che il bisogno sia uguale per tutti, quando di fatto è per ciascuno commisurato alle condizioni in cui si trova? Non diciamo sciocchezze.
D’altra parte – siamo seri – Parma poteva rimanere senza prefetto? Senza alcun dubbio, no. E dovendo averne uno, che male c’era che continuasse ad avere quello che aveva fin lì avuto? È illegale dare a un prefetto giunto a scadenza del mandato il reincarico nella sede dove l’ha fin lì espletato? No, tant’è vero che Anna Maria Cancellieri è restata a Parma. E allora che cazzo di obiezione è quella che a qualcuno fa sollevare l’ipotesi speciosa di abuso di potere e – insieme, però – spinge l’interessata a dire che quella di Salvatore Ligresti è «ricostruzione senza fondamento»?
Si è trattato di interessamento empatico, a me pare evidente. Silvio Berlusconi non avrà difficoltà a dimostrare che non ha mosso un dito, ma si è soltanto limitato a segnalare il bisogno di Anna Maria Cancellieri, di cui era stato messo al corrente da Salvatore Ligresti, e visto che non è più presidente del Consiglio, anzi, tra poco non sarà neppure più senatore, non sarà nemmeno necessario portare la questione in Parlamento, che gli sarebbe pregiudizialmente ostile come non lo è stato con Anna Maria Cancellieri.
Mettiamoci una pietra sopra, finiamola lì. Ma Anna Maria Cancellieri ci facesse il favore di non smentire quanto afferma Salvatore Ligresti. Innanzitutto, tra amici non è bello. In secondo luogo, le affermazioni di quello stanno alle sue sul piano della credibilità come la forchetta sta al coltello sulla superficie della bistecca.     


martedì 19 novembre 2013

lunedì 18 novembre 2013

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Necessarie due parole in lode di Josefa Idem, che dall’escludere ogni ipotesi di dimissioni al dimettersi impiegò solo due giorni: a memoria d’uomo è un record. Ora, non si pretendeva tanta sportività da Anna Maria Cancellieri, ma – santiddio – quanto ci mette!

domenica 17 novembre 2013

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Eventualmente stupido e cattivo

Massimo Adinolfi e Leonardo Tondelli corrono in soccorso di Nichi Vendola con strumenti retorici che a me paiono un pochino disonesti.
Il primo riduce tutta la faccenda a un «Vendola ride», poi separa il soggetto dal verbo, accantona il «Vendola» con quanto gli è d’attorno in contesto, e passa a difendere il «ride» dalla condanna morale che lungo i secoli è stata inflitta al riso da tutti i cupi bacchettoni che hanno considerato osceno il ridere, in sé e per sé. Vorresti accodarti a costoro? Penserai mica come Jorge ne Il nome della rosa che «chi ha un’anima non può permetterselo»? Sii buono con te stesso, via, e assolvi il «ride». Fatto? Bene, adesso rimetti «Vendola» accanto a «ride» e dimmi: quelle risate non ti diventano innocenti? No? E allora vuol dire che hai qualcosa di guasto dentro. Probabilmente ti sei fatto attaccare la rogna da Padellaro, Gomez e Travaglio. Diciamola com’è, sei un tipaccio da evitare, normale che Adinolfi ti ingiunga di tenerti a debita distanza. Così impari a dare addosso al povero Nichi.
In fondo che ha fatto di male? «Vendola – scrive Tondelli – doveva mediare tra i sindacati che volevano tenere aperto lo stabilimento e un’opinione pubblica che lo voleva chiuso; il suo ruolo richiedeva anche che mantenesse i rapporti con la proprietà. Un presidente di regione non dovrebbe farlo?». Via, che c’è di male a leccare un po’ il culo al factotum dei Riva complimentandosi per lo «scatto felino» col quale quello ha strappato il microfono di mano a un giornalista che aveva «la faccia da provocatore»? In fondo, come vuoi che si mantengano buoni rapporti con chi avvelena gente e ambiente, esporta capitali all’estero e semina mazzette? Bisogna scendere allo stesso livello, e il buon Nichi si è limitato a questo. 
Sicché, se Adinolfi ti compatisce perché ad indignarti mostri di essere cattivo, Tondelli ti sferza: Il Fatto Quotidiano – scrive – «non ha una grande fiducia nella tua memoria [perché] stralci d[i qu]ell’intercettazione erano stati pubblicati un anno fa dal Giornale»; «non ha molta fiducia nemmeno nella tua capacità di mantenere l’attenzione [perché] rispetto al Giornale di Sallusti il contenuto è molto semplificato [e dunque] non ti è richiesto di seguire un ragionamento o ricostruire un caso dagli indizi, ma di ascoltare una risata e di indignarti»; «presume che tu, di indignarti, abbia un certo bisogno»; insomma, se ti indigni, sei un «coglione», tanto più che, ogni volta che ti indigni, «loro [Padellaro, Gomez e Travaglio] realizzano un guadagno».
Vorrai mica essere considerato un «coglione» da Tondelli? Ha troppa stima di te, e ti implora di risparmiarglielo, sennò la delusione lo ferirebbe a morte. Ad Adinolfi, invece, dispiacerebbe doverti privare della familiarità che ti ha magnanimamente concesso: «Chi vuole rivendicare il diritto di ridere in privato di quel che gli pare? Chi, senza violare alcuna legge, vuole essere almeno un po’ scorretto? Chi vuole disporsi almeno una volta al telefono in modalità ironica, o di aperto sarcasmo, oppure di scherno e di macabra ironia, ecco: di un simile mostro morale cosa vogliamo fare? L’unica, mi rendo conto, è non telefonargli. Perciò vi prego: non telefonatemi, perché anche a me, ogni tanto, mi scappa».
In entrambi i casi, neanche troppo velatamente, siamo dinanzi alla promozione in campo di chi legge, se sottoscrive gli argomenti di chi scrive: se assolvi Nichi, dimostri di essere uno che non si fa infinocchiare dagli arruffapopoli, e Tondelli ti applica il bollino blu della persona di buon senso dotata di un sano realismo; in più dimostri di godere di buona salute morale, te lo certifica Adinolfi, che in premio ti concede la sua simpatia, almeno telefonica; sennò sei stupido o cattivo, eventualmente stupido e cattivo.
     

venerdì 15 novembre 2013

«Da noi c’è un clima avvelenato»



E lo va a dire a Bergoglio, che ha più vipere tra i piedi di quante ne abbia in testa la Medusa. Dev’essere stata ironia, non c’è dubbio.

lunedì 11 novembre 2013

Dubbi da cronopio


Dubbi da cronopio, caro Julio. Quando la compressa è effervescente, la sua disgregazione avviene nel bicchiere invece che nello stomaco, dunque il principio attivo è assunto in soluzione, con assorbimento agevolato e attenuazione dell’eventuale effetto aggressivo ai danni della mucosa gastrica, grazie alla diluizione. Nulla va perso del principio attivo nelle bollicine se non i gas prodotti dal processo di disgregazione della compressa, che sono solo il prodotto della reazione chimica tra l’acqua e gli eccipienti responsabili dell’effervescenza.


[Julio Cortázar, Carte inaspettate, Einaudi 2012 (pag. 276)]

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La vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader, poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.
I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo in un aspetto, che non la risolve interamente.
In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è – insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri, tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».
Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle opzioni alternative.

Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico, sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale, o a una forza maggiore posta da una determinata struttura della relazione? Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla «pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?
Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi, come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale uscita di scena di Beppe Grillo.

Trattandosi di movimenti politici che sono nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico. In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della personalità del proprio leader vede un momento indispensabile del farsi «pars» non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un gruppo della specie umana.
In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione, basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.
In buona sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali. 
   

domenica 10 novembre 2013

Cécile Kyenge? E Yara Gambirasio, allora?

Rinviato a giudizio per le offese rivolte a Cécile Kyenge, Roberto Calderoli solleva due obiezioni.
La prima è relativa al giudizio immediato, chiesto dal pm e concesso dal gip: «Generalmente celerità fa rima con efficienza, ma in materia di giustizia penso abbia una certa rilevanza anche il rispetto delle procedure. Adesso inoltrerò una richiesta perché il Ministro della Giustizia attivi un’ispezione al Tribunale di Bergamo affinché venga appurato se ci sono state irregolarità in questa vicenda».
Non gli sta bene che la faccenda sia risolta in tempi brevi, è evidente, ma appellarsi al rispetto delle procedure è scelta infelice, nel merito e nel metodo. Nel merito: «Quando la prova appare evidente [e in questo caso c’è tanto di video che prova l’offesa rivolta Roberto Calderoli a Cécile Kyenge], salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini [e in questo non si capisce come potrebbe], il pubblico ministero chiede il giudizio immediato se la persona sottoposta alle indagini è stata interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova [e in questo caso così è stato]» (art. 453 c.p.p.); «Entro novanta giorni dall’iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335, il pubblico ministero trasmette la richiesta di giudizio immediato alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari [e così è stato in questo caso]» (art. 454 c.p.p.); «Il giudice, entro cinque giorni, emette decreto con il quale dispone il giudizio immediato [come ha legittimamente disposto in questo caso] ovvero rigetta la richiesta» (art. 455 c.p.p.). Dove sarebbe venuto meno il rispetto delle procedure?
E qui veniamo al metodo: che senso ha – per meglio dire: che senso cerca – il chiedere al Ministro della Giustizia un’ispezione al Tribunale di Bergamo, quando basta sfogliare le pagine del Codice di Procedura Penale? Pare evidente che l’appello non sia alla Giustizia, ma al Ministro, anzi, a questo Ministro della Giustizia, e da Senatore, anzi, da Vicepresidente del Senato.
Seconda obiezione: «Auspico – ha detto Roberto Calderoli – la medesima solerzia ed efficienza anche per la risoluzione del caso di Yara Gambirasio. Parenti e amici attendono giustizia da quasi tre anni per lei, anche se capisco bene che una frase detta in un comizio sia molto più grave dell’omicidio di una tredicenne innocente».
Un vero e proprio delirio, in apparenza. Che per giunta si concede pure il lusso dell’ironia. Su quale piano, infatti, si può proporre un’interpolazione tra un caso come quello che vede vittima Cécile Kyenge e un caso come quello che vede vittima Yara Gambirasio? Non su quello logico, perché sappiamo bene chi ha dato dell’«orango» a Cécile Kyenge, ma ancora non abbiamo un presunto colpevole dell’assassinio di Yara Gambirasio. Né su quello giudiziario, perché nel primo caso è in questione la decisione del giudice, nel secondo il lavoro dell’inquirente. Dovremmo concludere che a Roberto Calderoli manchi una rotella, ma sarebbe conclusione affrettata e, tutto sommato, ingenerosa.
Con la prima obiezione, infatti, si attua il tentativo di coinvolgimento di Anna Maria Cancellieri, che dopo il caso Ligresti non può più respingerne alcuno. Può disporre un’ispezione al Tribunale di Bergamo? Senza dubbio. Ma qui ce ne sono gli estremi? Domanda irrilevante: se è prevalso il momento «umanitario» su quello «legaritario» nel caso Ligresti, perché non dovrebbe prevalere nel caso Calderoli? So bene che anche questa interpolazione non regge sul piano giudiziario, ma regge su quello della stessa logica che giustifica, con la seconda obiezione sollevata, il tentativo di coinvolgere la pancia di chi, fermato dalla Polizia Stradale per aver superato i limiti di velocità, si lamenti della multa elevata a suo carico, perché «intanto i responsabili della strage di Ustica sono ancora impuniti»

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«Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti, avessero più amor proprio degli altri e più stima di sé, e i timidi meno. Tutto il contrario. I timidi, per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di sé, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e, occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione, cioè per aver poca cura o concetto di sé, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo nemomamente, ma di porsene a rischio benché leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così, per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro»

Giacomo Leopardi, Zibaldone (4037-4038)

Filottete

Ricordati di vivere (Bompiani, 2013) si presenta come un libro di memorie: «Se mi decido a scrivere non è per rivendicare meriti o per riscattare torti, non sono spinto da risentimenti e neppure da nostalgia… Scrivo per sottoporre la mia esistenza a un esame…» (pag. 7). A leggerlo come autoesame, però, ci si distrae: tutta l’attenzione va nel cogliere gli istanti di contraddizione tra come ce la ricordavamo noi e come ce la racconta Claudio Martelli, e ci si perde la dimensione più autentica del libro, che è quella lirica, anzi, epica. D’altronde non ha indice dei nomi e, giunti in fondo, si sente che la trama era un pretesto. Abbandonato sull’isola di Lemno, Filottete ripete: «Io so poche cose, ma le ricordo benissimo» (pag. 594). 

venerdì 8 novembre 2013

Domanda

Mettete conto che io dica a un architetto: «Non ti sei mai laureato, non hai mai sostenuto l’esame di abilitazione professionale, eserciti abusivamente»; che quello, offeso, mi metta sotto il muso un regolare certificato di laurea e il tesserino d’iscrizione all’Ordine degli Architetti, esigendo che mi scusi; e che allora io gli dica: «Niente scuse, era solo per verificare se eri in regola». Domanda: se quello mi afferra la testa e me la fracassa sul tecnigrafo – sarà permalosetto, non ci piove – ma ha torto?
Mi direte che ha ragione, ma che da quella passa al torto, perché nulla giustifica mai la violenza. Ok, concesso, e allora consentite una variante. Mettete conto che, invece di fracassarmi la testa sul tecnigrafo, quello mi chieda: «Ma, scusa, se avevi qualche dubbio sulla regolarità dei miei titoli di studio, non bastava consultare il Registro Nazionale degli Architetti? Non potevi chiedermi di mostrarti l’attestato di laurea?»; e che allora io risponda: «Offenderti mi sembrava il sistema più sicuro». Domanda: se non mi ha fracassato la testa prima, sbaglia a fracassarmela ora? Ok, ok, ho capito, siete tipini miti, civilissimi, e «la violenza mai, in nessun caso». Come non detto, ritiro la domanda e ve ne faccio un’altra.
Mettetevi nei panni dell’architetto, e dite: quale reazione pensate  sia la più giusta nei confronti di uno stronzone della mia caratura? Mi date del matto e mi mandate a fare in culo? Mi denunciate per diffamazione? Vi armate di tanta santa pazienza per spiegarmi che agire come ho agito non è bello, e non sta bene, e non si fa? Oppure ritenete che la cosa più giusta da fare sia niente? Se siete propensi a credere che quest’ultima sia la migliore soluzione, vi avverto: sono uno stronzone di notevole caratura e, dopo aver appurato che non esercitate abusivamente la professione di architetto, mi sta prendendo l’irrefrenabile curiosità di sapere se vostra madre, vostra sorella e vostra moglie siano davvero donne oneste e morigerate, e per farmela passare sto per dirvi che sono tutte e tre delle grandissime puttane, che a mio parere è «il sistema più sicuro» per accertarmi che non lo siano. E dunque?


Forse ho posto la questione nel modo sbagliato, vediamo se riesco a sistemarla nel modo giusto. Usciamo dall’ipotesi e entriamo in un caso concreto.
Prendiamo Riccardo Magi, al quale Marco Pannella ha dato del truffatore e del ladro: truffatore per aver detto di aver raccolto 44.000 firme per Roma Sì Muove, quando le firme – così Marco Pannella ha detto ai microfoni di Radio Radicale in almeno quattro occasioni – non erano più di 26.000; ladro per aver sottratto le firme raccolte dalla sede radicale di Via di Torre Argentina. Visto che le firme erano davvero 44.000 e che da Via di Torre Argentina erano state portate vie da Riccardo Magi solo perché gli avevano detto fossero d’ingombro, possiamo dire si trattasse di offese belle e buone? Marco Pannella dice di no. Dice che quello gli è sembrato «il sistema più sicuro» per accertarsi se le cose stessero come affermava Riccardo Magi.
Tutto questo è accaduto nel corso della direzione di Radicali italiani del 2 novembre, e Riccardo Magi, che è un tipo mite, civilissimo, e che fin lì non aveva sporto denuncia a Marco Pannella, a questa spiegazione non gli ha rotto una sedia in testa, né l’ha mandato a fare in culo, né ha ritenuto necessario dirgli almeno «guarda, Marco, che ti sei comportato di merda». E qui non è il caso che riformuli la domanda.   

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Un altro argomento, e ottimo argomento, in sfavore di Anna Maria Cancellieri: «Se il mondo finisse domani, sarebbe meglio dare un beneficio giusto a una persona piuttosto che non darlo a nessuno, quale che sia il criterio. Il mondo però continua. E questo tipo di scelte dovranno essere compiute mille altre volte. Usare un criterio ingiusto pur di migliorare lo stato delle cose di oggi potrebbe peggiorare lo stato delle cose di domani» (regcoffeeblog).

«È questa, la realtà!»

mercoledì 6 novembre 2013

Investimento a costo zero


A smorzare gli entusiasmi di chi alla vista di Bergoglio che liscia il poveretto zeppo di bozzi si è lanciato a peso morto in parallelismi sbilenchi col Gesù tra i lebbrosi, urge chiarire che la patologia di cui è affetto il lisciato è la neurofibromatosi di tipo 1, altrimenti detta morbo di Recklinghausen, niente affatto contagioso. Insomma, si è trattato di un investimento a costo zero. 

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martedì 5 novembre 2013

Si troveranno quattro o cinque volontari?

Da come paiono mettersi le cose a Palazzo Madama, Anna Maria Cancellieri non sarà tenuta a dimettersi. Doveva chiarire, ma non ha chiarito niente, non ha detto nulla di più quanto avesse già detto ai giornalisti in questi ultimi giorni. Era amica della famiglia Ligresti, si può negarle di avere amici, da ministro? Sentiva il bisogno di farsi empatica col pregiudicato, si vorrà mica vietarle l’empatia? Ha detto: «Qualsiasi cosa io possa fare conta su di me», ma non ha fatto niente. Cioè sì. Cioè no. Insomma, sì, ma no. E le credono. Come potrebbero non crederle? Porta in aula il puro distillato del familismo e dell’arrangiarsi, i pilastri del saper vivere allitaliana.
Le credono, così pare prevalga l’idea che la scarcerazione di Giulia Maria Ligresti sia stato un atto dovuto, che le sue condizioni cliniche fossero incompatibili con la detenzione in carcere. Anoressia, capite? Unanoressica ci mette anni per crepare, ma una Ligresti può metterci anche soltanto tre mesi. Un sostegno psicologico sarebbe stato inutile, per convincerla a mangiare era necessario mandarla a casa. Fatto, è stata salvata una vita. Chi è così bestia da sollevare la questione egalitaria rammentando che in carcere si continua a morire per cancro, aids e perfino per tubercolosi?
In quanto al Guardasigilli, pare che la maggioranza del Senato le creda, o voglia crederle, perché le sue spiegazioni non fanno affatto chiarezza, sicché crederle esprime atto di fede. Si sarebbe interessata a un caso umano, ma l’interessamento non sarebbe andato oltre la segnalazione alle autorità competenti, tutte a lei soggette, e non si capisce in quale misura la segnalazione non avesse implicito l’effetto di induzione. Analogie col caso Ruby? Non diciamo sciocchezze.
Si sarebbe interessata ad altri casi analoghi, però – dice – «negli ultimi tre mesi», in pratica è il caso di Giulia Maria Ligresti che le ha fatto venir voglia di attivarsi per risolvere analoghe situazioni critiche, visto che dal 28 aprile al 17 luglio non risultano suoi interventi.
C’è perfino qualche senatore che ha detto sia del tutto «naturale» che un ministro si attivi personalmente in favore dei casi che arrivano alla sua persona, poco importa se il modo in cui vi arrivano costituisca via privilegiata rispetto a quella mille volte più tortuosa di chi non abbia famiglia facoltosa, o neppure famiglia, di chi non sia simpatico al cappellano penitenziario, di chi non abbia l’indirizzo di Rita Bernardini o di Luigi Manconi, di non abbia soldi per pagarsi un avvocato decente, e insomma al magistrato di sorveglianza non abbia modo di far arrivare il suo urlo di dolore. 
Insomma, a Palazzo Madama, è prevalsa la tesi che sia meglio salvarne uno che nessuno, poco importa se chi si salva sia immancabilmente un potente. Mica è colpa sua se trova il modo precluso ad altri, no?

Bene, il caso sembra archiviato. Di fatto si riaprirà col primo poveraccio che morirà in carcere. In questo merda di paese dove il favore s’è mangiato il diritto si troveranno quattro o cinque volontari che ne porteranno la bara in spalla fino a via Arenula urlando da basso ad Anna Maria Cancellieri di affacciarsi al balcone?

lunedì 4 novembre 2013

La frattura tra «umanitario» e «legalitario»


È buona norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni garbati. Ahimè, non sempre è possibile. Spesso, infatti, fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in rissa. Quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile, io ricorro a un espediente che mi si è rivelato sempre efficace: prendo in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata onestà e d’indole affabile, e devo confessare che, quando li ho trovati solidi fino al punto da cambiare idea, dichiararmi sconfitto è stato un piacere.
Il guaio è che con la ristrettissima cerchia di persone cui riconosco tali meriti vado d’accordo su quasi tutto, mentre sul poco che ci vede in disaccordo non vale la pena di polemizzare, perché attiene per lo più a differenze di gusto. Stavolta, però, sul caso Cancellieri, mi è offerta l’opportunità, e da Massimo Bordin, che non ha eguali, a mio modesto avviso, per intelligenza, rettitudine e signorilità. Posso così trascurare del tutto gli argomenti che in favore del Guardasigilli sono stati fin qui prodotti da ingenuità o malafede, con ciò evitando il rischio di scivolare nell’invettiva, per prendere in considerazione solo quelli che Massimo Bordin ha esposto nel corso della rassegna stampa di lunedì 4 novembre, dai microfoni di Radio Radicale.
Occorre, tuttavia, una precisazione: i suoi argomenti, in realtà, sono controargomenti, rapide e asciutte annotazioni polemiche a margine degli articoli di quanti stigmatizzavano la condotta del Ministro della Giustizia. Argomenti non per questo meno efficaci di una vera e propria difesa del suo operato, e con una ben chiara linea, tutta in punta di principio. E qui mi pare ci sia il primo punto debole dell’argomentazione offerta da Massimo Bordin, perché in difesa di questo principio, che è quello più correntemente detto «umanitario», un altro principio, quello più correntemente detto «legalitario», trova modo di essere degradato a mera pulsione «giustizialista», a cieco arco riflesso che trasforma il sacrosanto bisogno di giustizia in bieco desiderio di vendetta, in crudele accanimento su un capro espiatorio che perde ogni dignità di persona per farsi vittima sulla quale una plebe inferocita abbia a sfogare ogni sorta di disagio e di malessere.
Perché il principio «umanitario» possa degradare in tal modo quello «legalitario» occorre dimostrare che il primo non sia meno «giusto» del secondo, ma che anzi il primo abbia in sé una logica che non si esaurisce nella pietà, ma fa vera «giustizia», mentre il secondo piega la «legge» a un’urgenza deterrente o punitiva che riduce il colpevole, e spesso anche solo il presunto colpevole, al reato ascrittogli da un’accusa che considera ogni garanzia un ostacolo al soddisfacimento di quella urgenza. Sembrerebbe d’essere, in buona sostanza, dinanzi a quanti vogliono a tutti i costi vedere nell’operato di Anna Maria Cancellieri un abuso di potere trascurando gli elementi che fanno della sua «umanità» la più genuina espressione di ciò che la «legge» deve essere per realizzare «giustizia».
Qui potremmo levitare ai massimi sistemi. Potremmo farci aiutare da Jacques Derrida nel definire la relazione tra «legge» e «giustizia» (Force de loi, 1994). Potremmo addirittura riandare alla filogenesi del diritto come espressione di quella «teologia politica» che si assume il compito irrealizzabile di trovare in terra un equilibrio, se non la sintesi, di «carità» e «verità» (Der Nomos der Erde, 1974). Meglio rimanere con i piedi a terra e, pur riconoscendo nel caso Cancellieri tutti gli elementi che consentono una presa di posizione istintivamente «umanitaria» o «legalitaria», limitiamoci a considerare esclusivamente quelli che reggono sul piano razionale.
Non c’è ombra di dubbio che il provvedimento in favore di Giulia Ligresti sia stato «umanitario» o che in tal modo sia presentabile a chi lo considera inopportuno per il solo fatto di aver avuto il primum movens nell’interessamento personale del Guardasigilli. In primo luogo, tuttavia, è da risolvere un problema che di fatto è posto dall’ambiguità della difesa in favore di Anna Maria Cancellieri. Da un lato, infatti, si afferma che l’interessamento personale ci sia stato, d’altronde appare innegabile dalla lettura della conversazione telefonica intercorsa il 17 luglio tra il ministro e Gabriella Fragni, nella quale, però, non si fa mai cenno a Giulia Ligresti, ma solo a suo padre. Torneremo ancora su questa telefonata, per quello che lo stesso Massimo Bordin non ha difficoltà ad ammettere sia il suo contenuto «imbarazzante», d’intanto limitiamoci a rilevare che l’interessamento personale di  Anna Maria Cancellieri in favore di Giulia Ligresti è dato per certo nella telefonata intercorsa tra Antonino Ligresti e Gabriella Fragni, il mese dopo, prima che le condizioni della detenuta siano definite a rischio dai sanitari. Significherebbe che l’interessamento personale del ministro ci sia stato in previsione di un rischio di là da venire, e di fatto non accertabile in anticipo.
D’altro canto, però, si afferma che l’interessamento del Guardasigilli in nulla sarebbe diverso da quello speso in favore di altri detenuti, e dunque non sarebbe «personale» nel senso che gli si intende dare per insinuare un trattamento di favore. Bene, tale affermazione regge solo sul piano formale, perché in sostanza è falsa: degli oltre 100 casi portati all’attenzione di Anna Maria Cancellieri solo 6 hanno avuto un esito analogo a quello che riguardava Giulia Ligresti, e si tratta di casi in cui l’interessamento del ministro c’è stato solo dopo che le condizioni dei detenuti erano state definite a rischio dai sanitari, oltre al fatto che hanno ottenuto analoghi benefici solo poco prima e poco dopo la scarcerazione di Giulia Ligresti. Ovviamente quest’ultimo rilievo può sembrare malizioso, ma assume un discreto peso se rapportato ai detenuti morti in carcere dal momento in cui Anna Maria Cancellieri è diventato ministro della Giustizia ad oggi.
L’obiezione a questi dati, che hanno significato per nulla ambivalente, è che il Guardasigilli fa quello che può, a partire dai casi che arrivano alla sua attenzione. È obiezione che solleva un problema più grosso di quello che intendeva risolvere, perché i canali che consentono a un detenuto di arrivare o no al ministro della Giustizia sono giocoforza diversi, sicché arrivarci o no costituisce un elemento di discrimine che è posto a priori della sua carcerazione. Nel caso di Giulia Ligresti sappiamo i modi in cui era posto. Sarà stata millanteria, ma Salvatore Ligresti ha vantato di essere stato utile alla carriera di Anna Maria Cancellieri: non è in questione perché l’abbia fatto, ma il fatto che abbia ritenuto di poterlo fare con la possibilità di essere creduto.
In quanto alle intercettazioni telefoniche che hanno sollevato il caso, appare in tutta evidenza che la famiglia Ligresti vantava nei confronti di Anna Maria Cancellieri dei crediti di natura tutt’altro che amicale. Anzi, ad essere onesti, sembra che l’aver dato un impiego a suo figlio, descritto dai Ligresti come un buono a nulla, fosse stato solo un investimento, che sembrava dare scarso profitto a fronte del costo. Poco importa cosa pensasse Anna Maria Cancellieri dei Ligresti prima di essere messa a corrente del contenuto di queste intercettazioni, e poco importa cosa pensi ora: di fatto si è posta nella condizione di lasciar credere ai Ligresti di poter tornare loro di qualche utilità. Poco importa, dunque, se nella faccenda ci siano gli estremi del reato, anche se questa non è questione da accantonare: ciò che importa è che quanto Giulia Ligresti ha avuto modo di ottenere sia di fatto negato a quanti non hanno una famiglia che possa rivolgersi a un ministro con la stessa convinzione di poter vantare crediti.
Qui cadono tutte le possibili obiezioni relative al ruolo realmente svolto da Anna Maria Cancellieri nella scarcerazione di Giulia Ligresti, perché a chiunque il ministro abbia inoltrato la richiesta di accertamenti riguardo alle condizioni della detenuta era la richiesta di un ministro e aveva via privilegiata. Pare evidente, infatti, che non ci sia bisogno si sostanzi un elemento di induzione o di costrizione perché una richiesta del genere abbia possibilità di avere buon esito in misura direttamente proporzionale al ruolo che chi la sollecita occupa nella scala gerarchica che dal Guardasigilli scende fino al detenuto. 
Non c’era bisogno di abuso di potere, bastava il potere discrezionalmente esercitato dal ministro, che in questo caso è fin troppo chiara negazione dell’elemento cardine del principio «legalitario», che è quello dell’uguaglianza dinanzi alla «legge». In tal senso, possiamo affermare che un intervento «umanitario» che di fatto realizza un momento di disuguaglianza dinanzi alla «legge» rimane «umanitario», ma non è necessariamente «giusto». La lesione si realizza nella telefonata del 17 luglio ed era prefigurata nei rapporti tra Anna Maria Cancellieri e la famiglia Ligresti, come è già accaduto nel maggio dello scorso anno, quando il Guardasigilli era ministro degli Interni: una proprietà dei Ligresti fu occupata da un centro sociale e lo sgombero avvenne a tempo di record. La proprietà privata è sacra, non c’è dubbio, e lo sgombero era necessario. Non meno necessario, però, di quelli che invece non vengono effettuati a soli 10 giorni dall’occupazione, come accadde l’anno scorso con la Torre Galfa dei Ligresti. Non ci sono prove che Anna Maria Cancellieri si sia attivata in quella occasione, ma oggi come può respingere il sospetto?
A parte, dicevo, ci sarebbe da commentare nel dettaglio la telefonata del 17 luglio. Anna Maria Cancellieri non si limita a consolare unamica, ma fa suoi i pesanti giudizi sulla magistratura ai quali si lascia andare la moglie di un detenuto, avalla le risibili attenuanti che basterebbero a scagionarlo e dà colpa dellaccaduto a come vanno le cose in Italia. Basterebbe questo a renderla incompatibile con la carica che riveste.