venerdì 29 marzo 2019

Spezzare una lancia in favore di Radio Radicale


È da decenni che la ascolto per diverse ore al giorno, ma soprattutto amo perdermi nel suo sterminato archivio. Poi cè che certe sue rubriche mi sono diventate appuntamento fisso, inderogabile: Cindia di Claudio Landi, Prime pagine di Enrico Rufi, Derrick di Michele Governatori, giusto per citare le prime che mi vengono in mente. E poi le voci: ci sono voci – Lembo, Jannuzzi, Punzi... – che ormai mi sono diventate familiari come i ronf-ronf di Steve e Brian (a chi non lo sapesse, sono i miei gatti). Fosse a pagamento, insomma, pagherei, e anche molto, se necessario. Mi è dobbligo, quindi, spezzare una lancia in favore di Radio Radicale, che a fine maggio potrebbe interrompere le sue trasmissioni. Non lo farò, però, unendomi al coro di quanti pensano che questa sciagura – perché di vera sciagura si tratterebbe – si possa scongiurare con i piagnucolosi appelli dellonorevole acondroplastico o dellattricetta col birignao: ma vi pare che i barbari possano essere sensibili a una tal perdita? Non so quali siano i reali motivi che stanno dietro alla scusa del dover fare economie, potrebbe trattarsi di una mossa nel più generale piano di dare una stretta alla libertà di informazione, ma pure di un calcio nei coglioni a chi ogni mattina dà del «Truce» a questo e del «Giggino» a quello, in ogni caso temo che i gialloverdi procederanno senza ripensamenti, e dunque urgono soluzioni daltro genere. A questo mira il post: a esporre una proposta. Che però necessita di una premessa, senza la quale potrebbe sembrare balzana. Non stupisca quanto sto per dire dopo aver dichiarato la mia dipendenza da Radio Radicale: una valida soluzione del problema può essere trovata solo sgombrando il campo da passioni e pregiudizi. E dunque.

Nel panorama radiofonico italiano, che oggi è dato da poco più di 250 emittenti tra pubbliche e private per un totale di radioascoltatori in media di 34.703.000 al giorno (Radio Ter 2018), Radio Radicale assume un ruolo analogo a quello del giornalista politico così come descritto da Enzo Forcella in Millecinquecento lettori: «Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copia. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dellaspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dellintera politica italiana: è latmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante».
Lanalogia è innanzitutto nei numeri: nel 2013, su un totale di 34.853.000 radioascoltatori al giorno, Radio Radicale ne aveva 294.000; lanno dopo ne aveva 244.000 su 34.314.000, con un calo del 20,5%; nessun dato dal 2015 in poi, per la decisione di sospendere liscrizione alle indagini di ascolto (occhio non vede, cuore non duole).
Altra analogia è quella dei «lettori privilegiati», come è evidente dallelenco dei bei nomi che in queste ultime settimane si stanno spendendo perché venga ritirata la decisione del governo di dimezzare i fondi da decenni assicurati a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari, che la costringerebbe a chiudere i battenti: al momento mancano solo gli «alti prelati» al trasversalissimo parterre des rois, ma non è detto che in extremis non vogliano dare anchessi il loro aiuto, visto che spesso sono stati tra i «protagonisti» di quelle «recite in famiglia» in cui si finge di detestarsi, in fondo volendosi un gran bene.
Recite in cui Radio Radicale ha sempre avuto lagio di interpretare sulla stessa scena il doppio ruolo di «organo della Lista Marco Pannella» e di «impresa radiofonica che svolge attività di informazione di interesse generale», godendo della vantata contraddizione di stare «dentro, ma fuori dal Palazzo», sfruttando le opportunità offerte dal «fuori» e dal «dentro», come dimostra la legge che nel 1990 le fu cucita addosso su misura risparmiandole il taglio del finanziamento pubblico per leditoria che colpì ogni altro «organo di partito», consentendole così di continuare a prendere quasi quattro milioni e mezzo di euro ogni anno. In tal senso andrebbe precisato che la decisione del governo di dimezzare i fondi da decenni assicurati a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari non ridimensionerebbero le sue entrate da dieci a cinque milioni di euro, ma da quasi quattordici e mezzo a quasi nove e mezzo.
Ma questo è solo il tratto più prosaico della contraddizione che a Radio Radicale è concessa more et iure, perché cè quello assai più redditizio sul piano del prestigio e dellautorevolezza: essere – insieme – «istituzione» e «voce libera», bon ton e j’accuse. Ma anche qui possiamo farlo dire a Enzo Forcella: «Cè quasi sempre un angolo dal quale si può fare un po di anticonformismo riscuotendo lapprovazione di altri conformisti».
Da quellangolo, secondo come mette la stagione, si può alternare un «no taliban, no vatican» a un «viva il papa», dare del «buono a nulla» a Tizio e del «capace di tutto» a Caio per allearsi prima con luno e poi con laltro, scatarrare sarcasmo sulle battaglie culturali de Il Foglio e poi diventare fogliante in servizio attivo permanente. Ma si diceva: «protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».
Punto di rottura nellanalogia: «si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante». Qui un pubblico pagante cè, ed è il contribuente, che, tornando ai numeri, tiene in piedi una radio che ogni giorno fa poco più di 200.000 ascoltatori su oltre 34.000.000. Se non sbaglio, saremmo intorno allo 0,7%.

Col taglio del contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari da dieci a cinque milioni di euro il governo vuole la chiusura di Radio Radicale? Si accetti la sfida e si rinunci anche agli altri cinque. Di più: si rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano dai contributi per leditoria. Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una quota annua: sessanta euro (14.500.000/244.000≃60). Per quanto mi riguarda – ma sono certo che cè chi la ama assai più di quanto la ami io – sono disposto ad accettare che quanti amano Radio Radicale siano anche solo 122.000, assumendomi quindi limpegno di pagarne 120. Sono disposto ad accettare pure che siano solo 61.000, pagandone 240. Se sono meno di 61.000, vuol dire che me ne farò una ragione: Radio Radicale non aveva ragion dessere.

martedì 26 marzo 2019

Cecchinare stanca (Scrivi, Malvino ti risponde)


Caro Malvino, […] mi aspettavo che sparassi a zero sul World Congress of Families che sta per tenersi a Verona […]
Roberto Russo



Sparare? Vada per il figurato, caro Russo. E dunque.
Per quindici anni da quest’abbaino ho cecchinato in difesa del principio che «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano»: chierico o laico che lo mettesse in discussione – bang! – sparavo.
Scelta obbligata, quella del cecchinaggio, mai stato in grado di piegarmi alle logiche dell’esercito regolare – una paga, una divisa, un generale che ti dice a chi sparare, e a chi no, e quando sì, e quando no, che poi semmai sorprendi pure a cena col nemico, e neanche puoi sputargli in faccia, perché andarci a cena è parte di un disegno tattico che non ti è dato di poter capire, zitto, rientra nei ranghi e fa’ finta di non aver visto – e chi poteva sopportarlo? Non io.
Mi è mancato il calore umano che in trincea allevia i rigori della guerra? Onestamente, no. Sempre stato molto diffidente su quel tipo di calore, e poi la solitudine non mi ha mai fatto paura, anzi, son sempre stato io a cercarla.
Sì, non c’è bisogno che me lo ricordi, per qualche anno ho militato sotto le insegne di una colonna partigiana, ma dovresti sapere che è durata poco, giusto il tempo per capire che era una banda di sfessati agli ordini di un guardatemi-guardatemi che, al confronto, D’Annunzio era un austero von Clausewitz.
Cecchino, dunque, e in anni in cui non c’era giorno che si potesse stare a guardar nuvole o ad annaffiar gerani: Ratzinger, la Cei di Ruini, gli atei devoti, il referendum sulla legge 40, il dibattito sulla Ru486, quello sulle unioni civili... Occhio incollato al mirino, dito attaccato al grilletto – bang! bang! bang! – più di 11.000 post, quasi 15 milioni di battute spazi esclusi, e in testa sempre lo stesso chiodo fisso: «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano», chi lo metteva in discussione era un pezzo di merda, andava eliminato. Ma ovviamente – si diceva – siamo nel figurato.
Labile il confine tra perseveranza e ossessione, caro Russo, ancor più labile quello tra senso del dovere e compulsione, sicché io stesso mi son chiesto spesso in questi quindici anni: ma ’sto Malvino è rigoroso o coatto? Non riuscendo a dare una risposta, mi son risolto a credere che la domanda andasse posta in altri termini: ma su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, ’st’individuo vuol essere sovrano? Qui la risposta era facile: a volte sì e a volte no. Sicché pretendere che lo sia sempre è fargli violenza, buttargli addosso una responsabilità che non sa reggere.
E dunque spara, Malvino, ma non sentirti eroe: non sei un sangiorgio, e poi manco sei donna, manco sei gay, nessuno ti discrimina per quel che sei, tutta stabnegazione per una questione di principio non ti puzza di liberalità da gentiluomo di campagna?
Guarda: il referendum sulla fecondazione assistita va deserto, ma dagli abbaini che hai d’intorno non s’ode uno sparo, campioni olimpionici di tiro libero fanno playlist e recensiscono l’ultimo iPhone, l’ultimo serial, l’ultimo film. Ergo, rifatti la domanda: è rigoroso o coatto, ’sto Malvino? Ecco, vedi, ora ti è chiaro: è coatto.
Quella sua fottuta acribia sulle encicliche (via, a chi possono mai interessare le encicliche?), sulle battaglie culturali de Il Foglio (ormai lo legge solo lui, è una fissa), sulle grandi e piccole schifezze de LOsservatore Romano e di Avvenire (ma vuoi vedere che qualche salesiano lha molestato da bambino?): coatto, coatto, i sintomi cerano tutti, ho fatto mia la diagnosi.
E ora? Ora, per piacere, se questo World Congress of Families vi sembra un Medioevo, sparate voi. Sentirete risuonarci dentro encicliche, editoriali di Ferrara, fondi di Vian e di DAgostino, e in sottofondo – ma solo ad averci orecchio – sentirete la spenta eco dei miei bang!, e solo quella: tanto ho cecchinato, e guadagnandoci solo una diagnosi di sindrome ossessivo-compulsiva, che ora lascio, sparate voi, vediamo quanto siete bravi, io mi limiterò a guardare. Se fate cilecca, da quest’abbaino sentirete una risata. 

domenica 24 marzo 2019

Memorandum


Nel gennaio del ’47, quand’è a capo di un governo in cui i comunisti hanno quattro ministeri, e i socialisti tre, Alcide De Gasperi vola in America, ufficialmente per partecipare ad un convegno. Nessuno gliene ha dato mandato, ma lì firma un memorandum d’intesa: un bel paccotto di milioni di dollari in cambio dell’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo. Torna in Italia ed esegue.
Inizia a questo modo quella che per settant’anni sarà celebrata di qua e di là dall’Atlantico come «la grande amicizia tra Roma e Washington». Qualche superficialone parlerà di vassallaggio, ma è perché non ha senso delle proporzioni. Non è normale che, tra due amici, quello più grosso abbia un naturale istinto di protezione verso quello più piccino? È in questo modo che va letta l’amichevole minaccia di morte con la quale Kissinger cerca di dissuadere Moro dal far entrare il Pci al governo: naturale istinto di protezione.
Beh, ora quest’amicizia corre il serio rischio di incrinarsi. Per colpa nostra, ovviamente. È che abbiamo firmato un memorandum d’intesa con Pechino, e si sa che Pechino, a differenza di Washington, non dà mai niente per niente, sicché è possibile (ma che dico? è assai probabile, quasi certo, sicuro) che nel paccotto di milioni di yuan che Xi Jinping porta a Roma sia celata un’insidia (no, più che un’insidia: un pericolo, e non da poco): tra due o tre anni potremmo diventare una colonia cinese.
Il Nando Mericoni che ci portiamo dentro sarebbe costretto a una faticosissima riconversione, mi auguro comprenderete il dramma. In più, potremmo ritrovarci il dizionario zeppo di lemmi asiatici. Più di tutto, perderemmo la sovranità nazionale che fino a ieri abbiamo potuto vantare con orgoglio, liberi da ogni condizionamento, a riparo da ogni ingerenza.
Sì, è vero, potrà sembrare che in questi ultimi settant’anni la Cia abbia messo il naso dove non avrebbero dovuto metterlo, che la Chiesa abbia cercato di dettar leggi al nostro Parlamento, che l’Unione europea ci abbia scritto le finanziarie, ma in fondo non facevano altro, ciascuna a suo modo, che offrirci quello che noi non sapevano di volere, al punto che spesso le abbiamo costrette pure a dover insistere, per il nostro bene. E qualcuno, ingrato, pure a recriminare.

lunedì 18 marzo 2019

Via, siate indulgenti


«Culle vuote e frontiere piene, ma la crisi delle nascite non preoccupa nessuno» (Il Foglio, 8.12.2018). Proprio «nessuno», no: Brenton Tarrant si preoccupava, eccome. «Every day – scriveva – we become fewer in number, we grow older, we grow weaker. In the end we must return to replacement fertility levels, or it will kill us. To maintain a population the people must achieve a birthrate that reaches replacement fertility levels». Né gli sfuggiva la ragione del perché, «despite this sub-replacement fertility rate, the population in the West is increasing, and rapidly»: «sono stati i contingenti di immigrati a vivacizzare una demografia altrimenti morente» (Il Foglio, 14.1.2019), «la nostra “crescita attuale” è come la luce delle stelle molto vecchie, vediamo l’effetto di fenomeni che non esistono più, “drogati” dall’immigrazione» (Il Foglio, 14.6.2018), cioè, per dirlo come lo diceva Brenton Tarrant, «mass immigration and the higher fertility rates of the immigrants themselves are causing this increase in population».
Soluzione? «To return to replacement fertility levels is priority number one», ovvio, ma occorre prendere atto che «dietro al nostro “malessere demografico” si nasconde un malessere culturale» (Il Foglio, 17.2019), giacché «western culture is trivialized, pulped and blended into a smear of meaningless nothing, with the only tenets and beliefs seemingly held to are the myth of the individual»: è il «disaster of hedonistic, nihilistic individualism», «un individualismo sintomo di mancanza di speranza» (Il Foglio, 5.4.2018). 
Dice nulla la relazione tra «empty nurseries» ed «empty churches», da un lato, e «full shopping centers» e «full mosques», dallaltro? È che «the West killed the notion of God, and proceeded to replace it with nothing», ma si può dirlo meglio: «La religione di un popolo, la sua fede, crea la sua cultura, e la sua cultura crea la sua civiltà. Quando la fede muore, muore la cultura e muore la società. E anche quel popolo comincia a morire» (Il Foglio, 28.7.2016).
Che fare, allora? «Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati» (Il Foglio, 25.5.2017). 

Via, siate indulgenti: lunico errore commesso da Brenton Tarrant – quello che ora gli costerà almeno trentanni di galera – è stato quello di far seguire i fatti alle parole.

venerdì 15 marzo 2019

«Mussolini ha fatto anche cose buone»


Se facciamo nostra la tesi che Umberto Eco espone ne Il fascismo eterno, il Ventennio smetterà di essere un problema storico, per diventare semplicemente larco di tempo in cui «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» ebbero ipostasi in un regime politico. Con ciò, però, dovremmo concedere che «un modo di pensare e di sentire» sia possibile al di fuori del contesto sociale che lo produce, che le «abitudini culturali» precedano la costruzione della società che le fa proprie, che il fascismo sia in qualche modo innato perché inscritto nella costellazione di certi «istinti» e di certe «pulsioni» che sono antecedenti al loro precipitare nella storia: «eterno», dunque, perché archetipo preesistente al Ventennio, seppure nella disarticolazione degli elementi che nel Ventennio gli fecero assumere la forma più facilmente riconoscibile (lo dimostrerebbe il fatto che prima del 1919 non possiamo chiamarlo ancora «fascismo», mentre dopo il 1945 non possiamo chiamarlo in altro modo); «eterno», soprattutto, perché con la fine del Ventennio non ha smesso dessere lidea che gli preesisteva, idea che «è ancora intorno a noi», pronta a reincarnarsi, seppure «sotto spoglie più innocenti».
È un caso che questa interpretazione del fascismo veda la luce in un libricino che reca a titolo Cinque scritti morali (Bompiani, 1997)? Ovviamente no, perché, interpretandolo a questo modo, il fascismo diventa un problema solo incidentalmente sociale, politico, economico, ecc. La sua cornice non è la storia, ma la teodicea: è il male – meglio ancora, è il Male Assoluto – che incombe sui destini umani. Se è ab-solutus, non ha discontinuità, dunque non gli si può riconoscere alcun merito, a meno che non si sia vittima dei suoi inganni o complice delle sue nequizie. Dire che «Mussolini ha fatto anche cose buone», quindi, rivela il cretino o il criptofascista, eventualmente il neofascista.
Dà da pensare che questo modo di interpretare il fascismo fu del tutto estraneo a chi più lo avversò durante il Ventennio. Non uno dei grandi antifascisti pensò al fascismo come a unentità metastorica, tanto meno come al Male Assoluto: in tutti, senza eccezioni, il fascismo è un problema da affrontare esclusivamente sul piano delle scienze sociali. Sarà per questo che anche in chi ne fa unanalisi che prolude a una condanna senza possibilità di appello non manca il riconoscimento dun qualche merito, in ossequio a quella onestà intellettuale che consente di giudicare positivamente la bonifica di una palude indipendentemente da chi lha bonificata, al pari di come sul piano logico si è tenuti a dichiarare valida una proposizione, se valida, indipendentemente da chi lha formulata. Così, in Antonio Gramsci e in Benedetto Croce, in Carlo Rosselli e in Gaetano Salvemini, in Lelio Basso e in Leo Valiani, in Palmiro Togliatti e in Luigi Sturzo, non stupisce trovare incisi che alle politiche del regime fascista concedono un po di più di quanto sia disposto a concedergli oggi chi sposa la tesi di Umberto Eco: non saranno dei «Mussolini ha fatto anche cose buone», ma gli sarebbero altrettanto irritanti, se solo li leggesse. 

lunedì 11 marzo 2019

Parafrasi



Quante volte abbiamo detto che la minigonna non è capo di vestiario da donna seria? Tante, rammentate? E non abbiamo certo lesinato in argomenti. Non parliamo poi degli autorevoli pareri che vi abbiamo offerto a supporto.
Ricordate l’Elogio della verecondia di monsignor Sempronio Sguarramazzi che pubblicammo in prima pagina? Dal De verginibus velandis di Tertulliano al «Mìttete scuorno, zucculone!» di Padre Pio, che squisita pastorale! E ricordate che diceva sulle tentazioni che il Maligno tende all’uomo col ginocchio ignudo della femmina iperestrinica?
E il doppio paginone nell’inserto del sabato con l’intervista al professor Einar Stefferlond della Norwegian University of Life Sciences? «È fuor di dubbio che la lunghezza della gonna sia inversamente proporzionale alla resistenza che il sistema nervoso della donna oppone al gammaidrossibutirrato che il malintenzionato le versa di nascosto nel bicchiere».
E voi? Niente. Nel migliore dei casi, un sorrisetto tra il compassionevole e il beffardo, sennò l’epiteto ingiurioso col qualche pensavate di poter chiudere la discussione: retrogradi, eravamo retrogradi. E ora? Ora vi lamentate di tutti questi stupri? 

La fitta


L’appunto di Carlo Michelstaedter che segue a questa premessa (tratto da La melodia del giovane divino, Adelphi 2010, pagg. 205-206) è così bello, così ben scritto, che ricopiarlo manualmente invece di passarlo allo scanner – così ho pensato – potrà in parte lenire la fitta dinvidia che mha inferto ad un fianco nel leggerlo, che mha reso faticoso arrivare fin qui, e che ancora duole. Saper scrivere a questo modo – saper distillare dalla rozza materia del disprezzo una metafisica della cazzimma – Dio, varrebbe la perdita di un braccio, possibilmente quello sinistro.

A Benedetto Croce non per insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia ammirazione. Ammirazione per ogni onesta fatica. «Ho un’ammirazione per questo giovane – diceva un giorno un vecchio commerciante, d’un giovane poeta, ho un’ammirazione per lui: ché se io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né scrivere – e lui fa tragedie». –
Così io che sono un vecchio uomo incallito nel lavoro ho unammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una mente acuta ed astratta di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto il giureconsulto – lui fa sistemi.
Ma i sistemi non si fanno; e Benedetto Croce dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: «vedete, questacqua dindicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne mancasse una non potrebbe essere quale è; di mio qui cè soltanto laggiunta del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli uomini che mancano e che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo disperatamente perché è dovere dogni straccio di filosofo di spremersi fino allultima goccia dellacqua propria e altrui, perché altri poi assorba e risprema con laggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e riassorbendo e rispremendo vivrà lumanità nei secoli allinfinito, il prodotto non sarà mai quello ma sarà sempre perfetto e non risciacquatura come dicono i maligni ma quasi – spirito assoluto».

Niente, ci ho aggiunto anche una virgola di mio, ma la fitta resta.

Perdendomi l’armonia del tutto


Fra i tanti miei difetti metto al secondo posto quello di non riuscire a dare alla visione dinsieme neanche un decimo dellattenzione che do ai dettagli (al primo posto, invece, metto quello di concedere pubblicamente che siano difetti quelli che nellintimo considero essere pregi), e questo accade sempre, da sempre, di fronte a un quadro, nella scelta di un capo di abbigliamento, nella lettura di un testo...
Il «bellissimo pezzo» di Luca Sofri segnalato ieri da Massimo Mantellini, per esempio: mi sarò certamente perso larmonia del tutto, ma a tre quarti del pezzo, che fin lì sera risolto per metà nel riportare brani di un articolo di recente apparso sul Washington Post e per metà nel farne leco, lattenzione sè appuntata su un dettaglio, e di lì non sè più mossa.
«Ci sono in Italia – ho letto – almeno cinque giornali, per restare ai quotidiani, la cui priorità è l’avvelenamento dei pozzi e la costruzione di un continuo risentimento nei propri lettori da indirizzare contro qualcosa o qualcuno».

Almeno cinque? E quali? Libero, La Verità, il Giornale... E poi? Il Fatto? Ok, pure Il Fatto ci sta, ma poi? Quale sarebbe il quinto quotidiano che semina zizzania a larghe mani e aizza i propri lettori al linciaggio di chi gli sta sul cazzo?
A me non viene in mente altri che Il Foglio, e manco tanto Il Foglio diretto da Claudio Cerasa, che, poverino, cerca di ferrareggiare, ma con risultati assai scadenti, quanto Il Foglio sul quale scriveva pure Luca Sofri, mai sapremo se perché facesse andare in estasi il direttore per la sua prosa o se perché raccomandato dal papà.

Era Il Foglio che massacrava dimproperi il politically correct, che lamentava lattacco a Dio, Patria e Famiglia sferrato dalla lobby gay e laicista, che denunciava la pretesa della scienza a dire sempre lultima parola su temi che solo i cretini potevano ritenere fossero scientifici, e invece erano teologici, che definiva bufala il global warming e che tuonava contro levoluzionismo.
Era Il Foglio che chiamava a raccolta i suoi lettori per bersagliare di frizzi, lazzi e fumanti palle di letame ora Roberto Benigni, ora Furio Colombo, ora Emma Bonino, e a chi faceva centro era assicurato un affettuoso occhiolino, ma soprattutto era Il Foglio che si sperticava in lodi per la figura del leader dai modi spicci, schmittianamente inteso come signore dello «stato deccezione», e fanculo alla lettera della Costituzione, ignorante del tanto da poterlo dire cazzuto, volgare del tanto da poterlo dire pop, gaffeur del tanto da poterlo dire al di là del bene e del male.
Poi era pure Il Foglio che di fronte ai barconi di migranti invitava a frenare la pietà perché «il sentimento benigno fa in questo caso la piaga purulenta» (12.1.2010 – pag. 3), e per il quale ogni politica dintegrazione era pia illusione destinata piuttosto a spalancare le porte allinvasore musulmano...
Un giornale salviniano e trumpiano ante litteram, direi.

«Tollerare gli avvelenatori di pozzi – scrive oggi Luca Sofri – permette di chiudere un occhio sulla propria parte di avvelenamento». Pienamente daccordo, ma quante volte, su quelle pagine, sè ritrovato pubblicato accanto a un Camillo Langone che denunciava lingravescente meticciato che sempre più affliggeva il popolo italiano, e ha chiuso un occhio? Gradiremmo avere la lista di quei cinque giornali per capire se quell’occhio, poi, l’ha riaperto.

domenica 10 marzo 2019

[...]



Nel corso dell’evoluzione abbiamo perso la consuetudine di spulciarci a vicenda, pratica di affettuosa cura che presso gli altri primati, soprattutto scimpanzé e bonobo, rinsalda le relazioni tra i membri del gruppo per la forte carica empatica che la connota, al punto da poterle attribuire funzione di «collante sociale», come ormai unanime parere fra gli etologi. Tutto il contrario di quanto accade tra gli umani, dove «fare le pulci a qualcuno» è percepito come il «cercar[n]e accanitamente i difetti e gli errori [...] con spirito animosamente pignolo e malevolo» (Gabrielli – Hoepli, 2018), e sì che nessuno è immune da difetti, tutti incorriamo in errori, e gli uni e gli altri – si rifletta, la metafora non suonerà a iperbole – ci succhiano sangue più degli avidi sifonatteri, per giunta senza neanche darci modo di accorgercene, perché dei molesti insettacci almeno si può avvertire la presenza per il prurito causato dal loro morso, particolarmente irritante. Non così dei nostri inevitabili sbagli, delle immancabili magagne che affliggono anche il più amabile carattere: a irritarci è che qualcuno ci faccia le pulci, mentre troviamo adorabile chi ci carezza il pelo senza frugarci dentro. Scimmie che hanno smarrito il senso della gratitudine, ecco che siamo.

Ogni tanto smarriamo pure il filo del ragionamento, perché qui, sviato dalle implicazioni dordine morale di cui si è fatta greve la premessa, non rammento più dove volessi andare a parare. Volevo ringraziare una tantum quanti hanno fatto le pulci a queste pagine da quindici anni a oggi? Possibile. Nel caso, un sentito grazie a tutti. Se un poco mi conosco, però, è difficile.

giovedì 7 marzo 2019

«... se solo si racconta…»


[Oggi questo blog compie 15 anni. Avrei voluto festeggiare ripubblicando qualcuna delle prime pagine di quel marzo del 2004, ma nessuna mi è parsa degna di essere riproposta al lettore. Così mi son deciso per un ritratto, quello di Enrico Pea. Doveva inaugurare un blog che, nelle intenzioni, voleva avere il composto sussiego dellelzeviro. Intenzioni subito tradite, per la polemica. Tanto stia a rimpianto e a rimorso.]



«Ha dei momenti che ti sorprendono per densità, proprietà, violenza, vastità di azzurro, per un’umanità intagliata in una parola tutt’ancora umida di terra, e brillante di rugiada, come un’erba spuntata a ridere nel sole, una mattina bella», scriveva Giuseppe Ungaretti in una lettera a Giovanni Papini nel 1916, dalla sua trincea. Scriveva di Enrico Pea, nato a Serravezza, in quel di Lucca, nel 1881, e conosciuto poco più d’un lustro prima, ad Alessandria d’Egitto. Ma nella stessa lettera avvisava che, «se si mette in testa di essere prelibato, fa il mistico da strapazzo, ed è un affare brutto; ma quando è quello che è, senza pretese, senza intellettualismi, e se solo si racconta…».
Ne aveva da raccontare, Enrico Pea. Ancora analfabeta a quindici anni, in un’Italia dove tanti rimanevano tali a vita, Pea va via dal paesino a fare il guardiano di greggi, e poi il mozzo, per poi emigrare in Egitto, a fare il domestico, il meccanico, il ferroviere, l’importatore di vini, saponi, motori e marmi pregiati, fino alla malattia che lo costringe a lungo in un letto, con una Bibbia del Diodati in mano, ad imparare a leggere e a scrivere, infine, quasi folgorato. Come una specie di Ignazio a Pamplona, lo avvampa la passione, che però è letteraria, grossa d’un entusiasmo da scalpellino e disordinata come un’officina, non senza qualche rovinoso inciampo d’autodidatta.
Per interessamento di Ungaretti che n’è incantato come della riuscita d’un innesto, nel 1910 esce la sua prima stampa, Fole, racconti di vita marinara, come declama il sottotitolo. Ma la scrittura, al momento, pare soltanto accidente, pur negli incubati bagliori d’una lingua avvampante. La passion predominante è, al momento, politica, anzi, come si direbbe oggi, prepolitica, e perciò totalizzante. A quella scrittura, per il momento, crede solo Ungaretti, che continuerà a crederci, con le dette riserve, fino ad impegnarsi sulla parola con Gherardo Marone, direttore della Diana, per la causa del romanzo Moscardino che uscirà nel 1922: «Sarà l’opera più bella che pubblicherai». Sarà senza dubbio il capolavoro di Pea.
Il Pea che nel settembre del 1950 scriverà un terribile «sono al caffè solo solo solo» in una delle sue cartoline postali a Leone Piccioni, massimo studioso della sua penna, al momento è preso invece dal turbine mondano. Crea la Baracca rossa, che è un ritrovo e un caffè letterario e una comune e una sezione ereticissima e un bivacco d’esuli e un falansterio amoroso: insomma un covo di anarchici, ex galeotti e bizzarri promiscui. È lì che Pea affina le sue stregonesche virtù di empatia; penetra nelle altrui confessioni e vi rimesta; raccoglie sfoghi, rassetta umori; impara l’arte inutile ed eccellente dell’incantar l’eterno femminino. Questa magica aria di guru gli resterà appiccicata per tutta la vita e ad ogni tavolino di caffè, ad ogni panchina, la sua parola avrà credito inarrivabile. È di buona statura, con gradevoli tratti del volto, incorniciato da una importante barba nera, occhi da spiritato con dolcezze di furbizia afroditico-mediterranea; ha mobilità di faina, naso per gli affari, che conduce con a volte spregiudicata e sofistica astuzia, probabilmente con qualche facile rudezza.
Alla Baracca rossa fermentano idee, spesso innaffiate di ottimi vinelli della Versilia, in un crepitare confuso e vivissimo di lingue e umori. Né a questo si limita la cosa cui Enrico Pea dà i suoi anni africani: vi si discute di attentati dinamitardi, di azioni di sabotaggio, di solidarietà a lontani fratelli. Vi aleggiano tentazioni evocative, in primis i Demoni di Dostoevski, con esaltatissime blasfemie da poveri anticristi bakuniani e peggio.
Poi torna in Italia, Enrico Pea, e si fa conoscere. È «quello lì» che nel 1918 ha scritto una pièce teatrale dedicata a Giuda, un inno appassionato e allucinato al traditore di Cristo; la cosa ha sollevato scandalo, anche se non sommo, ma neppure senza qualche strascicuccio molesto. Eppure, in quelle battute di scena serpeggia un mezzo motivo borgesiano, per quanto rovinato da un becero anticlericalismo di appennino. È appena nel mezzo del cammin, come si dice, morirà nel 1958, a settantasette anni. Prima di finire i suoi giorni a Forte dei Marmi, avrà un’altra mezza vita da riempire di vagabondaggi, amicizie, rovesci finanziari, nipoti, bronchiti, conversione, decine di libri.
Tra questi, primo d’una trilogia (con Il Volto Santo del 1924 e Il servitore del diavolo del 1929), che alcuni dicono tetralogia (aggiungendo Macoometto del 1942), è il Moscardino che esce nel 1922, ma al quale Pea ha lavorato per almeno un lustro. Del breve romanzo autobiografico, che resta la sua opera maggiore e che Ezra Pound crederà utile tradurre in inglese, Italo Svevo scrive in una lettera a Benjamin Crémieux, nel marzo del 1927, che è «un libro veramente strano e mirabile, certe sue pagine sono di una forza e di unevidenza che fanno invidia».
Ma cos’ha la scrittura di Pea per emanare tanto fascino? È la scrittura del dilettante sublime, sarebbe la più tentatrice delle ipotesi. La parola, in effetti, vi si stende, al contempo, plebea e nobile, in una stravolta dissipazione che è l’ordine suo. Parrebbe asciutta, la parola di Pea, come un rizoma sradicato per essere piantato in aria, come l’epifania d’una edicola votiva in terra di lavoro, apparentemente sorretta dalle vanghe e dalle zappe lì poggiate. Ma è lo stesso Pea che tenta, riuscendovi, di darle il fascino della cosa appena dissotterrata da un amoroso ingenuo.
«Imparare a fare bene qualunque qualcosa è difficile noviziato», scrive in Rosalia; e parla dello scrivere come di uno «stendere le parole sulla carta». Già non è più il Pea africano, ora ha una scrittura linda e solida, ma stralunata e seduttoria; vi risuona l’eco della confidenza mercantile, dell’apostrofe domestica. Cecchi, Bo, Montale, Pratolini e cent’altri ne dicono un gran bene. La barba con gli anni gli si imbianca e arruffa. Sempre in giacca, anche d’estate, anche in groppa alla sua pesante bicicletta, la vecchiaia lo raggiunge a Forte dei Marmi, dove morirà.
Se una fotografia può dire tutto di un uomo, il creatore di Moscardino è dentro una che lo ritrae al Caffè Roma in ottima compagnia. È al centro della foto, seduto tra una ventina di persone, in maggioranza signore, coll’indice levato in aria, non si capisce bene se per un monito; poco oltre Giuseppe De Robertis, Carlo Carrà, Roberto Longhi ed Eugenio Montale. Sarà forse pura suggestione, ma per chi ha letto Moscardino quell’indice levato non è diverso da quello del San Tommaso di Caravaggio che ha finalmente capito Cristo. Il dito è ossuto e quella piaga è irreparabilmente vulva.