Quello di Benedetto XVI si sta rivelando uno splendido pontificato, almeno per noi anticlericali. Mai tanta merda è venuta a galla dal fondo dell’acquasantiera come in questi anni, immergerci due dita per farsi il segno della croce impone ormai più stomaco che devozione. Lunga, lunga vita a Benedetto XVI.
domenica 27 maggio 2012
venerdì 25 maggio 2012
Una teodicea laica
Gli elementi che abbiamo a disposizione non ci consentono di avere alcuna certezza riguardo al movente della strage di Brindisi, ma l’ipotesi dell’attentato mafioso è avanzata come la più verosimile da molti commentatori, alcuni dei quali arrivano a considerarla la sola degna di considerazione. Non riesco a farmene una ragione, perché a me pare che quella dell’attentato mafioso sia l’ipotesi che regga meno. Eviterò di passare in rassegna i dati che tenderebbero ad escluderla, che sono tanti, limitandomi a considerare l’argomento che invece li ritiene utili per avvalorarla. È l’argomento usato da Enrico Deaglio nel corso dell’ultima puntata de L’Infedele (La7, 21.5.2012): “Quando succedono cose di questo genere, la prima reazione da parte delle autorità e dello Stato è quella di dichiarare «anomala» la cosa, soprattutto quando si tratta di mafia. «La mafia non usa le bombole di gas». Una volta si diceva: «La mafia non usa esplosivi, la mafia non colpisce fuori dalla Sicilia, la mafia non sequestra le persone, la mafia non uccide le donne, non uccide i bambini, non uccide i preti». Tutte cose che sono state smentite… In tutti i casi in cui si è detto che non era la mafia, era la mafia”.
Ritengo che non sia il caso di soffermarmi troppo sul difetto logico che sostiene questo tipo di argomentazione – rimando a ciò che ha scritto Chaïm Perelman ne Il dominio retorico (Einaudi, 1981) sul sofisma della transitività del rapporto di inclusione o di implicazione (pag. 80 e seguenti) – ma penso invece sia opportuno segnalare il rischio che consegue da questa sbrigativa reductio: tutto ciò che non sembra mafioso può esserlo, anzi, tanto più può essere mafioso quanto meno lo sembra. Ce n’è abbastanza per ipotizzare un movente mafioso in ogni crimine dalle finalità ignote, fino all’insinuazione – fatta da Gad Lerner a sostegno della tesi di Enrico Deaglio – che la mafia è in grado di servirsi anche di uno squilibrato. Si arrivasse, dunque, ad appurare che il responsabile della strage di Brindisi è stato proprio uno squilibrato, non cadrebbe l’ipotesi di una regia mafiosa. Farla cadere significherebbe fare il gioco del diavolo, il cui più subdolo intento è convincere che non esista.
Parlare di metodo mi pare improprio, direi si tratti piuttosto di atteggiamento. Quando non è l’abito mentale di quelli che Leonardo Sciascia definì «professionisti dell’antimafia», è espressione di una teodicea laica che eleva la mafia a radice di ogni male e che trova variante monomaniacale in chi al posto della mafia vede meglio i Savi di Sion, la Cia, gli Ufo o la Trilaterale. Tuttavia ogni teodicea necessita di sintomi, ancorché aleatori.
Qui, nel caso della strage di Brindisi, abbiamo l’intitolazione dell’istituto professionale davanti al quale è scoppiato l’ordigno e il 20° anniversario della strage di Capaci: elementi che sarebbero decisivi, insieme agli altri «anomali», che in quanto «anomali» non sarebbero da considerare contraddittori, ma coerenti ai primi. I 4 giorni d’anticipo rispetto a tale anniversario non sembrano aver peso e in realtà non si capisce perché la bomba non sia stata fatta esplodere il 23 maggio, se doveva essere un infame sfregio alla memoria di Giovanni Falcone e di sua moglie. Così il fatto che la scuola scelta per l’attentato sia intitolata a Francesca Laura Morvillo: perché proprio a Brindisi, perché proprio l’autobus che veniva da Mesagne e non quello arrivato poco prima, perché gpl e non tritolo – dettagli irrilevanti.
Ho orrore di questo atteggiamento, ancor di più ne ho nel constatare quanto sia altamente contaminante.
lunedì 21 maggio 2012
Da buttare
La curiosità mi ha portato all’acquisto de I giorni della tempesta di Antonio Socci (Rizzoli, 2012), del quale avevo da tempo smesso di leggere articoli e saggi, per la noia mortale che mi infliggevano. Stavolta si trattava di un romanzo e il romanzo è un genere a parte: si può essere un pessimo giornalista ma un ottimo romanziere, e viceversa. Per giunta mi invogliava la trama, riassunta nel risvolto di copertina. Insomma, ho cominciato a leggere il volume con una disposizione d’animo assai benevola, anzi, più benevola del solito, perché confesso che mi auguravo di poter scandalizzare i lettori di questo blog con una recensione piena di elogi: non vedevo l’ora di appuntarmela in petto come prova di grande onestà intellettuale.
Beh, con tutta la buona volontà, mi è stato impossibile: Antonio Socci scrive male, non ha ritmo, riesce ad abortire ogni embrioncino di costrutto narrativo. Non mi aspettavo un capolavoro, ma dagli ingredienti – un assassinio, carte rubate dagli archivi vaticani, le rivelazioni di una veggente, un conclave, le spoglie di san Pietro – pensavo si potesse trarre almeno un buon thriller. E invece ne è uscito un pretenzioso fumettone scritto coi piedi, sciatto e banale, gonfio di una prosa faticosa e affaticante. Da buttare.
domenica 20 maggio 2012
[...]
Mercoledì 23 maggio, ventennale della strage di Capaci, al «Francesca Laura Morvillo Falcone» di Brindisi si sarebbero tenute le lezioni come in un qualunque altro giorno feriale e molto probabilmente, visto a chi è intestato l’istituto, si sarebbe tenuto anche qualche rito commemorativo. Quale migliore occasione per la mafia, se l’intenzione fosse stata quella di ferire la memoria di una nazione? E allora perché farlo esplodere quattro giorni prima, quell’ordigno? E perché a Brindisi? Ma, poi, la mafia usa bombole di gpl per i suoi attentati?
Presto ancora per dirlo, tuttavia se qualcosa non possiamo escludere è che si stia commettendo lo stesso errore che commettemmo con la strage di Bologna: da subito ci sembrò neofascista e ci vollero trent’anni per cominciare a sospettare che forse non lo fosse. Stesso rischio, perché la storia delle stragi in questo paese è senza dubbio storia di depistaggi, ma anche di tesi delle quali ci si innamora a prima vista, per restar loro fedeli anche quando tradiscono, per continuare a usarle come armi improprie. In molti casi, chi depista non sa quale sia la vera pista. Può accadere perfino che depisti maldestramente alla verità, se non a quella storica, a quella processuale.
È che siamo sentimentalisti, d’altra parte è difficile non esserlo quando i nervi sono scossi da così una rabbia così giusta, da una sensazione di impotenza tanto odiosa: una cosa tanto mostruosa come quella accaduta ieri ci sembra possa essere frutto solo di un’intelligenza all’altezza di tanta mostruosità, facciamo enorme fatica a immaginare che si possa avere un così bestiale disprezzo per la vita degli innocenti senza una posta in gioco che sia adeguatamente alta. Non possiamo accontentarci di un movente, tanto meno se troppo miserabile per un delitto così atroce, e allora dobbiamo immaginarlo entro un disegno, una trama, una strategia, meglio se fitta di richiami e di rimandi. Ci ferisce l’idea che la bestia sappia essere feroce anche per poco e allora dobbiamo evocare grandezze criminali pari al nostro sgomento e al nostro dolore.
Io penso che l’ordigno esploso ieri a Brindisi non abbia altro legame col ventennale della strage di Capaci se non quello che ci è necessario darci per trovare un poco di sollievo.
giovedì 17 maggio 2012
Meno di un caffè al giorno
Tenuto conto delle grandi vittorie referendarie degli anni Settanta e Ottanta, della violenta reazione clericofascista che ne seguì, delle successive puttanate tipo la candidatura di Ilona Staller e Toni Negri, la liquidazione del Partito Radicale, la fiducia accordata alla rivoluzione liberale di Silvio Berlusconi, il ruolo dato a Daniele Capezzone, e dello odierno stato in cui versano i radicali, con le casse vuote e le iscrizioni al loro minimo storico, credo che sarebbe opportuno capovolgere la citazione di Gandhi: “Prima vinci, poi ti combattono, poi ti deridono. Poi ti ignorano”.
“Offri centomila lire a chi ti salva”
Poco prima di morire, Pasquale Croce raccomandò a Benedetto, suo figlio, che gli era a pochi metri di distanza, sotto le macerie del terremoto di Casamicciola: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Se ne ha notizia per la prima volta sul Corriere del Mattino del 31 luglio 1883, tre giorni dopo il terremoto: “Ieri fu trasportato a Napoli anche il figliuolo primogenito del commendator Croce; egli è gravemente ferito a una gamba e ad un braccio. Perirono il commendator Croce, la moglie e una figlioletta. Il giovinetto superstite di questa ricchissima famiglia foggiana, stabilita da lunghi anni a Napoli, conserva una memoria precisa dell’accaduto. La madre e la sorella sparirono nel vortice del crollamento, né si udì di loro alcuna voce. Egli, che era seduto ad un tavolino insieme col padre, precipitò. Il padre fu coperto tutto dalle macerie, ma parlò dalle nove e mezzo del sabato fino alle undici antimeridiane della domenica successiva. Benedetto era sepolto fino al collo nelle pietre, aveva però il capo fuori di esse. Il giovinetto fu estratto dalle rovine verso mezzogiorno, poco prima che il padre avesse cessato di parlare. Si racconta che con gran senso pratico dicesse al figlio: «Offri centomila lire a chi ti salva»”.
Poco più di un mese dopo, a Lucerna, veniva dato alle stampe Die Insel Ischia in Natur-, Sitten- und Geschichts-Bildern aus Vergangenheit und Gegenwart, di Woldemar Kadel, dove a pag. 59 si legge: “Er soll dem Ersten besten hunderttausend, zweihunderttausend Francs bieten, wenn er sie rettet, nur nicht sterben, den Erstickungstod sterben”. La frase attribuita al padre di Benedetto Croce è riportata anche in Casamicciola di Ernesto Dantone (Perino Editore, 1883) e in Cronaca del tremuoto di Casamicciola di Carlo Del Balzo (Tipografia Carluccio, De Blasio & C., 1883).
Ho già citato questi scritti in due post del marzo dello scorso anno, mentre il Corriere del Mezzogiorno, con diversi articoli a firma di Marco Demarco, Giancristiano Desiderio e altri, avallava e sosteneva l’accusa di “mistificazione della storia e della memoria”, che dalle sue stesse pagine erano state mosse a Roberto Saviano da Marta Herling. Saviano non aveva fatto altro che riportare la frase che Pasquale Croce aveva rivolto al figlio nella notte tra il 29 e il 30 luglio 1883, prendendola da un’intervista di Ugo Pirro al filosofo apparsa su Oggi, il 13 aprile 1950.
Fin lì, Benedetto Croce non si era mai disturbato a smentire il cronista del Corriere del Mattino che lo aveva intervistato tre giorni dopo il terremoto, né a smentire Kadel, né Dantone, né Del Balzo, e non si disturbò neppure a smentire Pirro. Doveva accadere che a smentire Saviano fosse la Herling e che il Corriere del Mezzogiorno le desse man forte con una campagna di stampa dai toni odiosi, che oggi lo scrittore ritiene sia stata diffamatoria, querelando la casa editrice del giornale e chiedendo risarcimento per il danno subìto.
Io mi auguro che la sua richiesta venga accolta, perché ho prova certa che a muovere quella campagna sia stata una palese malafede: in data 11 marzo 2011, infatti, e cioè il giorno dopo che la lettera della Herling desse avvio alla querelle, inviai una e-mail al direttore del Corriere del Mezzogiorno, producendo le fonti di cui sopra, senza avere alcuna risposta, né pubblica, né privata. E aspetto di sapere dal giudice che si occuperà del caso se fossero documenti degni di attenzione, perché sono sicuro che costituiranno argomento.
martedì 15 maggio 2012
Tutto è maledettamente relativo
Dalla Sala Stampa Vaticana neanche due righe. Non uno dei battaglieri polemisti di Avvenire è sceso in campo. L’Osservatore Romano tace, e siamo già al quarto giorno. Neanche un cenno da Radio Vaticana. Idem da Sat2000. Nemmeno il più sfessato dei bloggucci dell’ampia e variegata area cattolica ha finora sfiorato l’argomento. Evidentemente la consegna è del silenzio. Autoconsegna, per meglio dire. D’altra parte, l’articolo di Horacio Verbitsky (Videla, il Vaticano sapeva – Il Fatto Quotidiano, 11.5.2012) è stato ripreso solo da altri due o tre quotidiani e, giacché produce prova inoppugnabile di una schifezza estremamente imbarazzante e tentare di metterci una toppa è praticamente impossibile, meglio far finta che non sia accaduto niente, meglio evitare che monti il caso. Nessuno si azzarda ad insinuare che il documento sia un falso, nessuno si azzarda a tentare una spiegazione che almeno in parte attenui l’atroce verità che inequivocabilmente prova: il Vaticano sapeva dei sequestri, delle torture e degli assassini che gli uomini di Jorge Videla andavano compiendo tra il 1976 e il 1983, e tacque. Di più: per mano dei massimi rappresentanti della Conferenza Episcopale Argentina offrì collaborazione alla giunta militare perché su tutto calasse il silenzio, a fronte del sospetto che in tanti maturava e che solo anni dopo avrebbe dovuto trovare l’agghiacciante conferma nelle confessioni degli aguzzini portati alla sbarra.
Il verbale dell’incontro che si tenne tra Videla e l’allora presidente della Conferenza Episcopale Argentina, il cardinale Raul Francisco Primatesta, e i suoi due vicepresidenti, il cardinale Juan Aramburu e monsignor Vicente Zazpe, non lascia alcun dubbio in proposito: mentre migliaia di argentini (tra i 9.000 e i 30.000) scomparivano da case, scuole, fabbriche, uffici, per essere dapprima trattenuti in centri di detenzione clandestina e poi gettati nell’Oceano Atlantico o nel Rio de la Plata da aerei militari in volo, sennò sepolti in fosse comuni, talvolta ancora vivi, gli alti prelati concordavano con la giunta militare il miglior modo per tenere l’opinione pubblica argentina e quella internazionale all’oscuro di tutto. Era il 10 aprile 1978 e questo chiama in causa almeno due pontefici, che a norma del Diritto Canonico vigente a quei tempi non potevano non sapere (c’è da supporre che Giovanni Paolo I non abbia fatto in tempo a sapere, perché nel corso del suo brevissimo pontificato non si ebbero udienze ad limina apostolorum dell’Episcopato Argentino).
Mentre la Chiesa scagliava fulmini e saette contro l’aborto, i suoi porporati andavano a pranzo con i carnefici del popolo argentino. Erano i tempi in cui il Nunzio Vaticano in Argentina, il cardinale Pio Laghi, benediceva la dittatura militare, giacché “i valori cristiani sono minacciati dal comunismo e l’Argentina reagisce come un qualsiasi organismo che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi dei mezzi imposti dalla situazione… Si tratta di idee che mettono in pericolo valori essenziali, sicché va applicato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, secondo cui in tali casi l’amore per la Patria è equivalente all’amore per il Signore: difendendo la Patria, gli uomini d’armi, a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo”.
Ragioni che oggi nessuno ha più il coraggio di impugnare per difendere la linea che il Vaticano adottò in Argentina. Proprio vero che i valori non negoziabili sono acqua fresca e che tutto è maledettamente relativo.
Mentre la Chiesa scagliava fulmini e saette contro l’aborto, i suoi porporati andavano a pranzo con i carnefici del popolo argentino. Erano i tempi in cui il Nunzio Vaticano in Argentina, il cardinale Pio Laghi, benediceva la dittatura militare, giacché “i valori cristiani sono minacciati dal comunismo e l’Argentina reagisce come un qualsiasi organismo che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi dei mezzi imposti dalla situazione… Si tratta di idee che mettono in pericolo valori essenziali, sicché va applicato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, secondo cui in tali casi l’amore per la Patria è equivalente all’amore per il Signore: difendendo la Patria, gli uomini d’armi, a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo”.
Ragioni che oggi nessuno ha più il coraggio di impugnare per difendere la linea che il Vaticano adottò in Argentina. Proprio vero che i valori non negoziabili sono acqua fresca e che tutto è maledettamente relativo.
sabato 12 maggio 2012
mercoledì 9 maggio 2012
La valigia
I composti del verbo fare hanno forme di coniugazione talvolta poco corrette ma ormai d’uso comune. Disfare, per esempio. Disfo la valigia o la disfaccio? Sarà il caso che la disfi o la disfaccia? Che dite: la disfiamo o la disfacciamo? Tu la disferesti o la disfaresti? La disfi o la disfai? Alcuni la disferebbero, altri la disfarebbero. E dunque, ‘sta benedetta valigia, la disferemo o la disfaremo? È il caso di decidersi perché, quando sarà, dovremo capire se la stiamo disfando o disfacendo.
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